“Ringrazio Netanyahu per aver accettato il piano”. Con una frase lapidaria, inserita in un discorso infarcito di ringraziamenti e apprezzamenti per i leader arabi e islamici coinvolti nella trattativa, il presidente americano Donald Trump ha annunciato che il premier israeliano, oggi in visita alla Casa Bianca, ha accolto il suo “piano in 20 punti” per la fine delle ostilità a Gaza. Per poi aggiungere “siamo molto vicini” a un accordo, lasciando intendere che l’intesa deve essere ancora approvata sia dal governo di Israele che da Hamas, che in giornata ha ribadito di non aver ancora ricevuto ufficialmente il documento dai mediatori egiziani e qatarioti. “Se Hamas non accetterà l’accordo, Israele avrà il pieno sostegno per quello che deve fare. Ma sono fiducioso”, ha aggiunto Trump. “Oggi è un giorno storico per la pace”, ha detto Trump in aprendo la conferenza stampa congiunta con il capo del governo israeliano. “Lo voglio ringraziare – ha detto riferendosi a Netanyahu – per essersi fidato del fatto che insieme possiamo mettere fine alla morte e alla distruzione, aprendo un nuovo capitolo di sicurezza e prosperità per la regione”, ha detto. Netanyahu, per parte sua, ha elogiato lo slancio di Trump verso la pace e confermato di aver accettato il piano, che andrà sottoposto alla Gabinetto di guerra. Trump ha inoltre definito l’ex premier britannico Tony Blair come un “bravissimo uomo”, descrivendo in parte piani per il “Board della Pace” che vigilerà sulla transizione a Gaza.
Cosa prevede il piano?
Il piano, che dovrebbe mettere fine alla guerra, prevede 20 punti. Una road map che parte con l’immediata cessazione delle ostilità e il rilascio degli ostaggi ancora detenuti a Gaza: Hamas dovrà rilasciarli in un’unica soluzione 48 ore dopo l’accordo con Israele, che in cambio interromperà le operazioni militari iniziando un graduale ritiro delle truppe dall’enclave. Nella Striscia, poi, saranno introdotti aiuti umanitari massicci, distribuiti da Nazioni Unite e Mezzaluna Rossa, ma c’è una certa vaghezza (probabilmente voluta) per un possibile ruolo della controversa Gaza Humanitarian Foundation (Ghf). Per Hamas, invece, il piano prevede una soluzione di compromesso: disarmo totale e nessun futuro nel governo della Striscia, in cambio dell’amnistia per i militanti e dell’esilio per i leader. Il punto numero 9 affronta il tema della governance di transizione della Striscia – che ricalca molti dei punti del piano elaborato dall’ex premier britannico, Tony Blair, e dal genero di Trump ed ex consigliere dalla Casa Bianca, Jared Kushner – secondo cui a governare temporaneamente la Striscia dovrebbe essere una squadra di tecnocrati palestinesi, supervisionata da un nuovo organismo internazionale istituito dagli Stati Uniti in consultazione con i partner arabi ed europei. La “Gita” (Gaza International Transitional Authority) nascerebbe sotto egida Onu e avrebbe sede ad Al-Arish, nel nord della penisola del Sinai, in Egitto. Secondo il piano nessun abitante di Gaza sarebbe costretto a lasciare la Striscia, mentre non viene fatto nessun accenno alla Cisgiordania, nonostante Trump avesse opposto nei giorni scorsi un secco ‘no’ all’annessione da parte di Israele. Di Stato palestinese, invece, si parla solo in appendice: se tutto a Gaza andrà come da programma, “potrebbero esserci le condizioni per un percorso credibile” in quella direzione.
Il dilemma di Netanyahu?
Sebbene alcuni punti, come la cessazione delle ostilità e la restituzione degli ostaggi in un’unica soluzione, includano richieste invocate da mesi, il piano prevede condizioni difficili da accettare per entrambe le parti. In particolare, un potenziale percorso verso un futuro Stato palestinese, che Netanyahu ha fermamente e ripetutamente respinto, definendolo “pura follia”. A soffiare sul fuoco ci sono poi i ministri dell’ultradestra messianica ed etnonazionalista, come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich che rivendicano ormai apertamente l’annessione della Cisgiordania, e avvertono il premier: “Non ha il mandato per porre fine alla guerra senza la sconfitta di Hamas”. Sul fronte opposto, l’ormai imponente movimento delle famiglie degli ostaggi che minaccia: “Se Netanyahu non torna dagli Usa con un accordo, lo aspetta un inferno indescrivibile”. Non sorprende perciò che in queste ore di febbrile attesa, a concentrare l’attenzione del premier ci sia la conta dei voti alla Knesset, il parlamento israeliano. Secondo le ultime indiscrezioni, se Ben Gvir uscisse dalla coalizione di governo, il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, un tempo stella nascente del Likud, oggi a capo della formazione Nuova Speranza – che sostiene fermamente il potenziale accordo – sarebbe pronto a offrire al premier una ‘stampella’ che gli garantisca la maggioranza di 62 seggi. A quel punto il vero ago della bilancia diventerebbe Smotrich, ministro delle Finanze e fervente sostenitore dell’occupazione dell’intera Striscia di Gaza e dell’annessione della Cisgiordania. La questione, scrive il Times of Israel, sarà se Smotrich si schiererà con Netanyahu o contro di lui. È a lui e al suo partito di estrema destra, Sionismo Religioso, che dipenderà l’esito dell’accordo.
Nessuno vuole scontentare Trump?
Quanto ad Hamas, avrebbe accettato in linea di principio la road map americana, ma fa sapere di “non aver ancora ricevuto il piano Trump”. È verosimile che saranno le autorità del Qatar a mettersi in comunicazione con quel che resta del team negoziale di Hamas a Doha scampato ai raid israeliani. Gli Stati Uniti, inoltre “collaboreranno con i partner arabi e internazionali per sviluppare una Forza di Stabilizzazione Internazionale temporanea, che si schiererà immediatamente e supervisionerà la sicurezza a Gaza” mentre una forza palestinese viene addestrata. Alcuni governi arabi hanno accettato provvisoriamente di partecipare alla forza internazionale, ma ci sarebbero ulteriori discussioni in corso. Tutti, insomma, sembrano volersi tenere una mano libera per far ricadere l’eventuale responsabilità di un fallimento sull’avversario. Non sarebbe la prima volta. Ma il rischio è di scontentare Trump, più deciso che mai a ritagliarsi un ruolo di pacificatore del Medio Oriente: “Abbiamo una enorme opportunità di grandezza in Medio Oriente. Tutti sono a bordo per qualcosa di speciale, per la prima volta in assoluto. lo realizzeremo”, ha ribadito il presidente dallo Studio Ovale.
20 punti, mille incognite?
A pesare sull’euforia manifestata dal presidente Usa sono anche le condizioni in cui è maturata la proposta. Nel roboante discorso tenuto venerdì alle Nazioni Unite, Netanyahu non ha fatto alcun riferimento a un accordo imminente, né a una soluzione politica del conflitto, accusando invece il mondo di aver dimenticato l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, in cui morirono circa 1200 israeliani e oltre 250 furono presi in ostaggio. Da allora il premier ha rovesciato il suo tradizionale approccio alle guerre contro i nemici regionali, caratterizzato da conflitti brevi e contenuti, per guidare Israele dentro la guerra più lunga della sua storia. Per due anni, i jet e le forze speciali israeliane hanno bombardato senza sosta la Striscia e messo a segno raid contro le capitali regionali colpendo anche obiettivi un tempo ritenuti intoccabili, come Doha e Teheran, con l’obiettivo dichiarato di rimodellare il Medio Oriente. Trump, al contrario, spinge per un accordo che includa il riconoscimento delle aspirazioni palestinesi, ipotesi velenosa per Netanyahu, già indebolito nei sondaggi e alle prese con diversi processi per corruzione in corso. Ma ciò che Trump gli propone è persino più problematico, perché di fatto lo costringerebbe ad una resa dei conti politica che il primo ministro schiva abilmente da quasi due anni. Due anni in cui Netanyahu ha sfidato, contro ogni pronostico, tutto ciò che metteva a repentaglio la sua sopravvivenza politica. E in cui Trump e suoi repentini cambi di rotta rendono ancora più difficile prevedere cosa accadrà in futuro.
Il commento
di Francesco Petronella, ISPI
“La pace è spesso un boccone amaro. Trovare un accordo che vada bene a tutti, in cui nessuno degli attori coinvolti faccia concessioni sostanziali, è semplicemente impossibile. A meno che, come accaduto ad esempio durante la Seconda Guerra Mondiale, uno dei contendenti non venga sconfitto in modo chiaro e incontrovertibile (e non è il nostro caso). Complice il lavoro di concertazione con i leader arabi e islamici, il nuovo piano di Trump per Gaza contiene elementi di novità sostanziali – i palestinesi restano nella Striscia, a Hamas viene concessa l’amnistia o un salvacondotto – e Israele ottiene la restituzione degli ostaggi in un’unica soluzione. Ma c’è un problema: per il governo israeliano, come per il movimento islamico, siamo di fronte a un dilemma esistenziale. Per entrambi, anche se per motivi diversi, si può dire che ‘finché c’è guerra c’è speranza’. È questo, al netto dei dettagli, il vero nodo da sciogliere. Le prossime ore ci diranno molto, occorre aspettare”.
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