Per una settimana New York si è trasformata in un laboratorio globale. Non nei saloni solenni dell’ONU, dove i leader hanno scandito nuovi obiettivi, ma nelle strade, nei teatri e nei grattacieli che hanno ospitato oltre mille eventi della Climate Week 2025. Qui si è parlato di capitali e supply chain, di acciaio e moda, di innovazioni urbane e nuove metriche per le imprese.
Non slogan, ma strumenti: la sensazione è stata quella di un sistema che inizia finalmente a muoversi. Non un “big bang” risolutivo, ma una costellazione di piccoli ingranaggi che, messi insieme, potrebbero riscrivere la traiettoria della transizione.
La finanza al centro della scena
Se c’è un settore che ha occupato il cuore della Climate Week, è stata la finanza. Banche, assicurazioni e fondi hanno lasciato alle spalle il linguaggio rassicurante degli anni scorsi per affrontare con più realismo la questione centrale: i capitali globali si muovono davvero verso il Net Zero?
Nei panel organizzati da UNEP FI e dai grandi network finanziari si è parlato di risk management climatico, ovvero della capacità di valutare i rischi sistemici che il cambiamento climatico rappresenta per i portafogli. Si è discusso di disclosure, cioè della trasparenza dei dati legati alle emissioni e alla resilienza delle aziende finanziate. E si sono messi sul tavolo strumenti concreti per deviare i flussi di capitale verso utility, trasporti e infrastrutture a basse emissioni.
Il filo conduttore è stato la credibilità. Oggi non basta più annunciare fondi “verdi”: serve dimostrare con numeri, metriche comuni e criteri verificabili che gli investimenti stanno davvero accelerando la transizione. La parola chiave, rimbalzata ovunque, è stata accountability.
Perché la finanza conta più dei proclami
- Dimensione: i capitali globali gestiti superano i 100 trilioni di dollari
- Effetto leva: ogni dollaro investito in infrastrutture sostenibili può generare fino a 4 dollari in ritorni economici e sociali
- Rischio: senza adeguata gestione, gli eventi climatici estremi potrebbero cancellare il 10% del PIL globale entro il 2050
- Conclusione: spostare i flussi finanziari non è solo una scelta etica, ma una questione di stabilità economica globale.
Le imprese davanti allo specchio della filiera
Dalla finanza alle imprese il passo è stato breve. La Climate Week ha messo sotto la lente i nodi delle supply chain, spesso invisibili al consumatore, ma determinanti sul fronte delle emissioni.
Le discussioni si sono concentrate sulle emissioni Scope 3, quelle prodotte lungo la catena del valore dal fornitore di materie prime al trasporto, fino all’uso finale dei prodotti. Per settori come il retail o la moda, rappresentano oltre il 90% dell’impronta totale.
L’Environmental Defense Fund ha chiamato a raccolta i giganti della distribuzione per individuare gli hotspot più critici. Parallelamente, la Science Based Targets Network ha portato i CEO a riflettere sul concetto di “clima-natura”: integrare obiettivi climatici e criteri “nature-positive”, cioè strategie che non si limitano a ridurre i danni, ma contribuiscono a rigenerare ecosistemi.
Questa prospettiva segna un cambio culturale: la sostenibilità non è più confinata al perimetro aziendale, ma diventa una responsabilità di sistema.
Scope 3, il lato oscuro delle emissioni
- Scope 1: emissioni dirette (fabbriche, impianti)
- Scope 2: energia acquistata
- Scope 3: tutto il resto, dalla produzione dei fornitori allo smaltimento del prodotto. Per molte aziende, rappresentano fino al 95% delle emissioni totali.
Innovazione: la transizione esce dai laboratori
Un altro volto della settimana è stato quello dell’innovazione. Al MIT, startup e ricercatori hanno presentato una pipeline di tecnologie che fino a pochi anni fa sembravano futuristiche: rimozione diretta della CO₂ dall’atmosfera, batterie di nuova generazione e simulatori climatici capaci di prevedere scenari complessi per città e agricoltura.
Ma la Climate Week ha mostrato che l’innovazione non resta confinata nei laboratori. A Governors Island, la New York Climate Exchange ha messo in mostra soluzioni applicate: sistemi idrici resilienti, reti digitali per monitorare i rischi climatici in tempo reale, piattaforme civiche per coinvolgere i cittadini nella pianificazione urbana.
Il messaggio è chiaro: la transizione non sarà imposta solo dall’alto, ma costruita anche dal basso, città per città, comunità per comunità.
I settori difficili da decarbonizzare sotto pressione
Acciaio, cemento, trasporti pesanti, assicurazioni: i cosiddetti hard-to-abate sectors, responsabili di una larga fetta delle emissioni globali, hanno avuto uno spazio di rilievo.
I programmi di Ceres hanno riunito attori industriali e finanziari per una sfida complessa: tradurre gli impegni Net Zero in criteri concreti. Questo significa ridefinire il CAPEX (gli investimenti in capitale), modificare i criteri di procurement, cambiare i parametri con cui si valutano e assicurano i progetti.
È una transizione dura, ma inevitabile: senza una rivoluzione in questi settori, che da soli valgono quasi un terzo delle emissioni globali, ogni obiettivo climatico rischia di restare sulla carta.
La fotografia finale: piccoli movimenti, grandi conseguenze
La Climate Week 2025 non ha prodotto un annuncio epocale. Non ci sono stati accordi in grado di cambiare da soli la traiettoria del pianeta. Ma per molti osservatori la vera novità è un’altra: la sensazione che pezzo dopo pezzo, ingranaggio dopo ingranaggio, il sistema stia iniziando a funzionare.
Dalle metriche comuni per le filiere agli strumenti finanziari più rigorosi, dalle tecnologie emergenti alle nuove regole per i settori pesanti: New York ha mostrato un cantiere in fermento. Non è ancora la svolta, ma è qualcosa di diverso dal passato. È un passo avanti verso una transizione che smette di vivere solo di annunci e comincia a radicarsi nell’economia reale.
La tensione tra il tempo della politica e il tempo del pianeta
La settimana newyorkese ha dato la sensazione di un sistema che finalmente si muove: banche, imprese, scienziati e città che iniziano a lavorare con logiche più integrate. Ma la sfida resta aperta: la pazienza dei sistemi economici contro l’urgenza del pianeta.
La crisi climatica non concede dilazioni. Ogni anno di ritardo significa più vite a rischio, più costi economici, più instabilità sociale. La Climate Week ha mostrato che il cantiere della transizione è avviato, ma la velocità è ancora quella del compromesso.
A Belém, con la COP30, si deciderà se questo mosaico di piccoli ingranaggi saprà accelerare abbastanza da invertire la rotta. Perché il tempo della politica può aspettare, ma il tempo del clima no. E la domanda che aleggia su tutto è semplice e brutale: stiamo davvero correndo alla velocità della scienza o ci stiamo ancora illudendo di avere tempo?
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