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Netanyahu sfida l’Onu | ISPI


“Finiremo il lavoro a Gaza il più velocemente possibile”: è una promessa che suona come una minaccia quella pronunciata da Benjamin Netanyahu nel suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu. Mentre il premier israeliano si apprestava a iniziare il suo discorso, decine di delegazioni sono uscite dalla sala per protesta, tra fischi e applausi. “Non vi abbiamo dimenticato, non riposeremo finché non vi avremo riportato a casa”, ha detto il premier rivolgendosi agli ostaggi tenuti prigionieri a Gaza da Hamas. “Voglio parlare agli ostaggi, ho fatto piazzare altoparlanti intorno a Gaza così sentiranno il mio messaggio”, ha detto ancora parlando a una sala semivuota, ribadendo che “non ci sarà uno Stato Palestinese” e affermando che “sono i palestinesi che non credono nella soluzione dei due Stati, non vogliono uno stato vicino a Israele ma al posto di Israele”. Il premier, che si è presentato sul palco delle Nazioni Uniti con una grande spilla raffigurante un Qrcode che rimanda a un sito di documentazione sulle atrocità commesse dai miliziani palestinesi nell’attacco del 7 ottobre 2023, ha poi invitato i presenti a fare un ‘quiz’, rispondendo per alzata di mano alle domande su cartelli da lui mostrati. Sul primo c’era scritto: “Chi grida ‘morte all’America?’ A. L’Iran; B. Hamas; C. Hezbollah; D. Gli Houthi; E. Tutti le risposte. “La risposta corretta è E. Tutte le risposte”, ha spiegato Netanyahu, che ha anche rispedito al mittente le accuse a Israele di carestia e genocidio. “È vero il contrario” ha detto, affermando che Israele ha lanciato “milioni di volantini e inviato milioni di messaggi” per convincere i civili a evacuare Gaza City. E criticando i governi che nei giorni scorsi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, Netanyahu li ha accusati di aver concesso “un premio i terroristi”. “È pura follia – ha detto – e non lo faremo”.

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Lo sport e la musica si mobilitano?

Il suo intervento alle Nazioni Unite si è tenuto in un momento di fortissima pressione internazionale per l’orrore dei massacri in corso a Gaza. Ieri, la European Broadcasting Union (Ebu), che riunisce le tv pubbliche di decine di paesi europei, ha annunciato che a inizio novembre metterà ai voti la decisione di escludere o meno Israele dalla prossima edizione dell’Eurovision Song Contest, la più seguita competizione musicale europea, dopo che varie emittenti pubbliche avevano minacciato di non partecipare alla prossima edizione se ci fosse stato anche Israele. Intanto, anche UEFA e FIFA starebbero valutando di espellere le squadre israeliane dalle loro competizioni. Secondo El Paìs, entrambe le entità, come nel caso delle sanzioni contro la Russia, collaborerebbero nell’applicazione delle sanzioni al calcio israeliano. A convincere i due principali organismi calcistici sarebbe stata la richiesta da parte dei funzionari delle Nazioni Unite: “Lo sport deve rifiutare la percezione di una situazione di normalità”, hanno avvertito otto esperti delle Nazioni Unite in una dichiarazione rilasciata martedì, “e non devono voltarsi dall’altra parte di fronte a gravi violazioni dei diritti umani, soprattutto quando le loro piattaforme vengono utilizzate per normalizzare le ingiustizie”.

Svolta di Microsoft?

Mentre a livello internazionale si moltiplicano le critiche contro il governo di Tel Aviv, Microsoft ha annunciato che smetterà di fornire alcuni servizi all’esercito israeliano. La decisione del colosso statunitense del software – comunicata direttamente dal vicepresidente Brad Smith – arriva dopo che un’inchiesta del Guardian aveva rivelato come l’Unità 8200, il reparto dell’esercito israeliano specializzato in cyberintelligence e sorveglianza elettronica, utilizzasse la piattaforma cloud Azure per raccogliere e analizzare milioni di comunicazioni di civili palestinesi ogni giorno. In seguito ad un’inchiesta interna, avviata dopo le rivelazioni del quotidiano britannico, Microsoft ha bloccato l’accesso ai propri servizi cloud all’intelligence militare israeliana. La piattaforma infatti, veniva utilizzata non solo per conservare i dati per periodi prolungati, ma consentiva anche di applicare tecniche di machine learning alle comunicazioni intercettate per identificare potenziali obiettivi e movimenti della popolazione per preparare attacchi aerei. Un utilizzo che trasformava la tecnologia commerciale di Microsoft in uno strumento bellico contro una popolazione civile già sotto assedio. Sebbene l’azienda sostenga di non essere stata inizialmente a conoscenza di questo utilizzo, e abbia scelto di mantenere attivi tutti gli altri servizi a disposizione delle forze di difesa israeliane, le pressioni del movimento di dipendenti Microsoft No Azure for apartheid e le manifestazioni presso le sedi aziendali hanno accelerato una decisione che segna il primo ritiro di servizi tecnologici occidentali all’esercito israeliano, dall’inizio della guerra a Gaza.

Abbas da remoto?

Poco dopo l’intervento del premier israeliano all’Onu, Donald Trump ha dichiarato che “siamo molto vicini ad un accordo, e a Gaza ci sarà la pace”. Il presidente americano aveva replicato ieri ad un giornalista che lo interrogava nello Studio Ovale che non avrebbe “permesso a Israele di annettere la Cisgiordania”. Tuttavia la credibilità degli Sati Uniti nel ruolo di mediatore nel conflitto sembra essere ai minimi storici. Ieri il presidente dell’Autorità nazionale Palestinese (Anp) Mahmoud Abbas si è rivolto all’Assemblea Onu da remoto perché gli Stati Uniti hanno negato a lui e a tutta la delegazione palestinese i visti d’ingresso negli Usa. Nel suo messaggio ha denunciato “il genocidio” in atto nella Striscia di Gaza “che sarà ricordato nei libri di storia come una delle più orribili tragedie del ventesimo e del ventunesimo secolo”. Ma il suo intervento non è stato un semplice atto d’accusa. “Condanniamo quello che Hamas ha fatto il 7 ottobre” ha ribadito, prendendo per l’ennesima volta le distanze dal gruppo islamista che “non rappresenta i palestinesi che lottano per la libertà e l’indipendenza”. E, ricordando che l’Autorità palestinese ha riconosciuto lo Stato di Israele nel 1988 e, nuovamente, con gli Accordi di Oslo del 1993, ha denunciato lo stato d’assedio nel quale vivono i palestinesi di Gaza. “Non si può arrivare alla pace senza giustizia – ha detto l’anziano leader ultraottantenne – Vogliamo vivere in libertà, sicurezza e pace come tutte le altre popolazioni e in uno stato sovrano, indipendente entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. In sicurezza e in pace con i nostri vicini”.

Il commento

Di Caterina Roggero, ISPI Senior Research Fellow

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“Il discorso di Netanyahu davanti a un’Assemblea generale praticamente vuota è stato un disperato tentativo di riguadagnare il consenso internazionale. Il premier israeliano ha cercato di mostrare come la guerra contro Hamas sia di portata globale: il bene contro il male, accusando i paesi che hanno riconosciuto la Palestina di aver trasformato il male in bene, cedendo ai terroristi. Non c’è spazio per i palestinesi, nell’immaginario di Bibi. Una qualsiasi concessione nei loro confronti equivale a condannare Israele all’autodistruzione. Eppure nega che ci sia un’intenzione genocidaria, dato che il governo israeliano incentiva l’evacuazione dei civili. Il confine con quella che pare una deportazione è però molto labile. L’assolutismo prevale e quindi solo allontanando tutti i palestinesi, per Netanyahu, si eliminerà definitivamente la questione palestinese”.



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