«L’autunno è una seconda primavera». Albert Camus non poteva sapere che il mondo, con i suoi modi di vivere, avrebbe generato il cambiamento climatico. E con esso una ridefinizione di tutte le stagioni, compresa quella a lui tanto cara. L’autunno, più che a una seconda primavera, oggi somiglia al secondo atto di un’estate che proprio non è andata. Undici milioni di italiani, quest’anno, hanno rinunciato alle vacanze estive (convenzionalmente intese) a causa dei rincari, della riduzione del potere d’acquisto, delle temperature roventi e del sovraffollamento delle mete più gettonate, convinti che avrebbero potuto ritagliarsi un fine settimana nei mesi autunnali. Magari al fresco.
Il prolungamento della stagione calda, dovuto al riscaldamento globale, ha creato la necessità di destagionalizzare il turismo. Il pronostico di Climate Resistance for All, secondo cui l’estate avrebbe una durata di sei mesi, finisce per rivelarsi fondato se si prende in considerazione la riconversione del turismo montano nei mesi autunnali.
Anche l’inverno, da qualche anno, fatica a tirare avanti. Le ragioni sono le stesse che stanno mettendo in crisi la stagione estiva: l’aumento delle temperature. Impianti sciistici dismessi, uso massiccio dell’innevamento artificiale e finanziamenti pubblici che finiscono per prolungare la vita di strutture non più sostenibili.
Secondo il report “Nevediversa” di Legambiente, si contano 265 impianti dismessi, a cui si aggiungono 112 impianti temporaneamente chiusi e 128 strutture aperte solo in maniera saltuaria. Una parte significativa di questi si trova nelle zone di media quota, le più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. In “accanimento teraputico” invece ce ne sono 218 e continuano a funzionare solo grazie ai finanziamenti pubblici, nonostante sia sempre più difficile mantenerli.
Il massiccio ricorso all’innevamento artificiale appare come un (vano) tentativo di rallentare la crisi del turismo invernale, così come è stato sempre inteso. Oltre ai costi economici elevati, si sommano i danni ambientali, in particolare nei periodi di siccità e stress idrico. Da qui l’urgenza di un ripensamento complessivo del rapporto con la montagna: non più investimenti destinati a prolungare artificialmente la vita di strutture destinate a scomparire, ma politiche di adattamento che valorizzino altre forme di turismo, capaci di offrire futuro ai territori alpini e appenninici.
A tal proposito, emerge una differenza sostanziale nella concezione del turismo montano. Quello globalizzato punta a una stagione fatta di piste innevate e impianti moderni; quello dolce o lento (qualcuno direbbe slow) privilegia il contatto con il territorio e le comunità locali, adattandosi alle sue condizioni. È l’unico modo – quest’ultimo – per rispondere alla destagionalizzazione, poiché evita che si goda delle montagne solo in un determinato periodo dell’anno.
Il turismo dolce è già realtà, anche se in misura limitata. Lo si può osservare in Piemonte, in valle Maira, dove il Consorzio Turistico ha promosso la chiusura al traffico motorizzato delle strade bianche ad alta quota per renderle fruibili solo da camminatori, ciclisti e mezzi non motorizzati. Sono attive offerte per soggiorni più lunghi (vacanze 3×2, 7×5) che incoraggiano i viaggiatori a restare più tempo e a vivere la valle in stagioni meno affollate. Il punto in questo caso è l’ospitalità autentica, alla quale partecipano guide, produttori artigianali, ristoratori e albergatori.
Ma quello della valle Maira non è un caso isolato. Anche se in misura differente, in Valle d’Aosta qualcosa ha iniziato a muoversi. Il Grand Hotel Courmayeur Mont Blanc, per esempio, ha deciso di rimanere aperto per la prima volta in autunno, intercettando chi ha preferito rimandare le ferie per godersi il paesaggio alpino con temperature più miti. In Alto Adige, funivie e impianti restano operativi quasi tutto l’anno, facilitando trekking, escursioni in mountain bike ed esperienze enogastronomiche legate alla Strada del Vino.
Il calo di presenze negli stabilimenti balneari durante i mesi centrali dell’estate conferma questa inversione di tendenza, che avrà comunque bisogno di conferme (o smentite) nei prossimi anni. «Se da una parte a giugno abbiamo registrato un aumento complessivo di presenze e consumi pari a circa il venti per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, al contrario a luglio la riduzione complessiva – sempre in termini di presenze e consumi – è stata di circa il quindici per cento», dice Antonio Capacchione, presidente della Sib (Sindacato italiano balneari) ha confermato il sospetto di un’estate di stabilimenti balneari deserti, con punte del venticinque per cento in Calabria ed Emilia-Romagna.
A incidere non è stato solo l’aumento dei prezzi, ma anche il caldo estremo, confermato da un recente report del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr): l’estate meteorologica (1 giugno-31 agosto) del 2025 è stata la quarta più calda mai registrata in Italia dal 1800. Dati simili sono stati registrati in tutti i Paesi europei. Secondo Copernicus, i picchi di temperatura hanno aizzato incendi boschivi in note località turistiche di Spagna, Portogallo e Grecia, scatenando forti ripercussioni sul turismo estivo, contribuendo alla sua posticipazione. E non solo.
Il fenomeno ha fatto emergere un comportamento che l’Osservatorio Bit aveva previsto nel febbraio 2025, ossia la predilezione, da parte dei viaggiatori, di destinazioni più fresche. O, per dirla con una parola, di coolcation. Il termine che fonde “cool” e “vacation” sta a indicare un nuovo modo di vivere il viaggio. Al caldo, si preferisce un clima mite; al relax e al turismo sedentario, un’esperienza immersiva nella natura. Non più mete affollate, ma luoghi tranquilli. L’alta stagione, insomma, è diventata molto meno attraente della bassa stagione.
Un rapporto dell’Etc (European travel commission) sottolinea che, nonostante l’inflazione e il conseguente aumento dei prezzi, le persone siano ancora desiderose di viaggiare. Il settantasette per cento degli intervistati ha confermato di avere in programma partenze fino a novembre; il ventidue per cento ha già dei programmi per settembre. Le mete più ambite sono quelle di prossimità, o comunque all’interno del continente.
In questo scenario, s’inserisce l’approvazione del Ddl Montagna. La norma, come sottolineato dal ministero del Turismo, porta nuove risorse a favore delle aree montane, che già potevano contare su oltre cinquecento milioni di euro stanziati in precedenza. È un passaggio che riconosce il ruolo strategico delle zone alpine e appenniniche, sempre più centrali anche per l’offerta turistica.
Il legame tra aumento delle temperature e crescita del turismo montano trova conferma nel “Rapporto Montagne Italia” curato da Uncem, presentato dopo otto anni dall’ultima edizione. Il documento fotografa un saldo migratorio positivo nei territori montani, con centomila nuovi ingressi. Dati che, oltre a testimoniare la rinnovata attrattività delle comunità alpine e appenniniche come luoghi di residenza, rafforzano l’idea delle montagne come rifugio climatico e meta di vacanze alternative alla costa, sempre più esposta alle ondate di calore.
L’obiettivo che emerge è duplice: da un lato, ridurre l’impatto ambientale e promuovere modelli ecologici, etici e rispettosi delle necessità dei residenti; dall’altro, adattare l’offerta turistica montana agli scenari del cambiamento climatico, intercettando quella parte crescente di viaggiatori che sceglie la montagna non solo per lo sci invernale, ma anche per l’estate e l’autunno. Un cambiamento che segna il futuro del turismo italiano.
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