Il 2024 ha segnato un cambio di passo: con il recepimento della direttiva CSRD, la rendicontazione di sostenibilità è diventata un adempimento obbligatorio per un numero crescente di imprese italiane.
Non si tratta più di una scelta di comunicazione volontaria, ma di un vero e proprio obbligo normativo che si intreccia con la revisione legale. à
Per dare concretezza a queste regole, la Ragioneria Generale dello Stato ha introdotto due nuovi principi: RR12 e RR13.
Il primo fissa i requisiti di etica e indipendenza del revisore della sostenibilità; il secondo stabilisce lo standard tecnico per l’attestazione del report, mutuando logiche proprie della revisione contabile ma adattate al nuovo perimetro ESG.
Ciò che emerge chiaramente è che non si tratta di meri formalismi: la conformità alle regole europee ESRS e alla Tassonomia UE deve essere verificata da un soggetto indipendente, con un livello di sicurezza almeno “limitato”.
L’azienda, dal canto suo, deve dotarsi di processi interni per raccogliere, validare e documentare le informazioni di sostenibilità con la stessa cura dei dati contabili.
1) Etica, indipendenza e pianificazione: cosa prevede il revisore
Il principio RR12 richiama direttamente i temi di indipendenza e integrità. Il revisore deve dichiarare l’assenza di conflitti di interesse, mantenere riservatezza e dimostrare obiettività. Questo significa che incarichi paralleli, consulenze dirette al management o legami finanziari con l’impresa possono mettere in discussione l’attestazione. Il principio RR13 invece entra nel cuore dell’attività. La logica è simile a quella di una revisione contabile: occorre pianificare il lavoro sulla base dei rischi e della rilevanza (la cosiddetta “materialità”), ma con una differenza sostanziale. Non ci si limita a stimare rischi economici: bisogna valutare anche gli impatti ambientali e sociali significativi, secondo il criterio della “doppia rilevanza”. In concreto, questo comporta che il revisore dovrà:
- identificare le aree ESG più esposte a rischi di incompletezza o distorsione;
- verificare la robustezza dei processi di raccolta dati e dei sistemi di controllo interno;
- ottenere evidenze, ad esempio mediante analisi documentali, colloqui con i responsabili interni, confronti con benchmark settoriali.
Il livello di assurance previsto dai principi RR12 e RR13 resta formalmente “limitato”. Questo non deve però essere interpretato come una forma blanda o meramente formale di verifica. Al contrario, il revisore ha l’obbligo di svolgere un’analisi metodica, mirata a individuare possibili aree di rischio e a raccogliere evidenze sufficienti e appropriate. In pratica, l’attestazione non equivale a una certificazione assoluta della correttezza di ogni singolo dato, ma a una valutazione ragionata della plausibilità complessiva delle informazioni riportate. Il revisore deve, ad esempio:
- esaminare campioni rappresentativi di dati ambientali e sociali, verificandone coerenza e tracciabilità;
- valutare i sistemi di controllo interno adottati dall’impresa, evidenziando eventuali lacune;
- confrontare le informazioni fornite con benchmark settoriali e con altre fonti disponibili, per verificare che non emergano contraddizioni evidenti.
La relazione conclusiva, quindi, non può limitarsi a un giudizio sintetico, ma deve contenere elementi chiave: l’oggetto dell’attestazione (quali parti del report sono state verificate), i criteri di riferimento (ESRS, Tassonomia UE, standard interni), i limiti metodologici (dati stimati, informazioni parziali o non ancora disponibili) e le conclusioni raggiunte. Per gli stakeholder questo documento rappresenta un indice di affidabilità: consente di capire fino a che punto i dati di sostenibilità siano stati sottoposti a controllo e quanto possano essere considerati attendibili nelle decisioni economiche o finanziarie. In altri termini, il livello “limitato” di assurance, se ben applicato, non è un punto debole, ma un compromesso equilibrato: garantisce un controllo serio senza gravare le imprese di costi e tempi eccessivi, e al tempo stesso tutela gli interessi dei terzi che fanno affidamento sulle informazioni pubblicate.
2) Dalla teoria alla pratica: come muoversi in azienda
Molte imprese, soprattutto quelle alla prima esperienza di rendicontazione obbligatoria, stanno scoprendo la difficoltà di mettere ordine ai dati ESG. Non basta più redigere un documento narrativo: occorre dimostrare con numeri, procedure e sistemi di controllo la coerenza con gli standard europei. Le esperienze raccolte mostrano due situazioni ricorrenti. Le PMI, spesso prive di strutture interne, si trovano a dover creare da zero un sistema di raccolta dati ambientali e sociali. Gli errori più frequenti riguardano informazioni qualitative prive di evidenze misurabili, la mancata definizione del concetto di materialità o l’uso di modelli standardizzati non coerenti con le linee ESRS. Per superare queste criticità, le aziende più attente hanno creato piccoli comitati ESG interni, coinvolgendo responsabili qualità e controllo di gestione, e hanno definito un calendario preciso di raccolta e validazione delle informazioni. Diverso è il caso delle grandi imprese, già abituate a pubblicare report ESG. Qui la sfida è allineare le prassi esistenti ai nuovi standard di attestazione. Molte società stanno procedendo con gap analysis per confrontare i dati già disponibili con i requisiti RR12 e RR13, aggiornando i processi di raccolta e rafforzando la documentazione delle metodologie utilizzate. Il punto critico è spesso la trasparenza: gli investitori e i creditori chiedono non solo indicatori, ma anche spiegazioni chiare su come questi siano stati calcolati.
3) Limiti, criticità e buone prassi per professionisti
Non va sottovalutato che l’applicazione dei nuovi principi comporta costi e complessità. Le PMI, in particolare, potrebbero percepire l’obbligo come un onere amministrativo aggiuntivo. A ciò si aggiunge un problema di omogeneità interpretativa: concetti come “materialità” e “doppia rilevanza” lasciano margini a diverse letture, con il rischio di prassi disomogenee tra settore e settore. Qui entra in gioco il ruolo del commercialista e del revisore: non solo tecnico esecutore, ma vero e proprio partner strategico. Le buone prassi da adottare includono:
- costruire una mappa iniziale delle attività ESG con responsabilità chiare;
- istituire un sistema interno di controllo qualità sui dati, simile a quello usato per i bilanci;
- anticipare il confronto con il revisore, condividendo una bozza del report per evidenziare limiti e rischi;
- formare il management sulle implicazioni normative e sugli standard applicabili, così da ridurre i margini di errore.
L’obiettivo non deve essere solo “evitare contestazioni”, ma trasformare l’attestazione in uno strumento di credibilità verso banche, investitori e stakeholder. Un report ben costruito e attestato può infatti migliorare l’accesso al credito, facilitare rapporti con la supply chain e rafforzare la reputazione sul mercato.
4) Conclusione
Gli standard RR12 e RR13 rappresentano un passaggio fondamentale verso una sostenibilità che non resti sulla carta, ma diventi parte integrante della governance aziendale. Per le imprese, significa sviluppare processi solidi, verificabili e trasparenti. Per i professionisti, vuol dire ampliare il proprio ruolo: non solo consulenti fiscali o contabili, ma anche garanti di affidabilità nelle informazioni ESG. In un contesto in cui la sostenibilità non è più un “nice to have”, ma un requisito normativo e competitivo, il vero rischio è arrivare impreparati. Al contrario, chi saprà attrezzarsi in tempo potrà trasformare l’obbligo in opportunità, rafforzando la propria posizione sul mercato e creando valore reale per gli stakeholder.
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