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Il club delle prime volte


GAM : L’ultima riunione della Fed è stata piuttosto … eccentrica o, quanto meno, molto diversa rispetto al solito, è stata contraddistinta da diverse “prime volte”.

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A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM


Per la prima volta ha preso parte al Comitato che governa i tassi una governatrice, Lisa Cook, che è stata prima licenziata dal presidente, poi reintegrata nel ruolo dal provvedimento di un giudice federale. La destituzione della Cook è stata a sua volta una prima volta, nella storia della Federal Reserve mai un presidente degli Stati Uniti aveva rimosso un membro del Board prima della naturale scadenza del mandato.

Ora la questione si sta avvitando in un pantano di questioni legali, l’ultimo atto è la richiesta dell’amministrazione Trump alla Corte Suprema di consentire la rimozione della governatrice. L’eventuale sentenza della Corte Suprema avrebbe una portata storica, il maggior organo legislativo degli Stati Uniti sancirebbe la rilevanza e i limiti dell’indipendenza dal potere esecutivo della banca centrale.

A proposito di indipendenza, è stata una prima volta anche la partecipazione al meeting di un governatore che mantiene uno stretto legame con l’Amministrazione: Stephen Miran non ha dato le dimissioni dal ruolo di consigliere economico di Trump, preferendo la più accomodante soluzione dell’aspettativa non retribuita. Miran non ha reciso il rapporto con l’Amministrazione ed è stata una prima volta anche la sua decisione di voto: la consuetudine del FOMC, una regola non scritta che si applica facilmente a qualsiasi organismo direttivo, dalle bocciofile ai consigli di amministrazione, presume che alla sua prima riunione il nuovo membro si uniformi alle decisioni della maggioranza. Una regola che non sarebbe stato difficile seguire nella riunione della settimana scorsa, considerato che la decisione è stata condivisa da tutti i membri del comitato. Tutti tranne, appunto, Miran.

Il suo voto solitario, favorevole a un più robusto taglio di mezzo punto percentuale, è sembrato a molti un segnale a Trump, “hai visto? Sono rimasto sul punto”, un gesto di fedeltà che corrobora la sua candidatura a successore di Powell.

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Si preparano tempi complicati anche per la banca centrale più influente del mondo.

Il “club delle prime volte” è infine impreziosito dalla decisione di tagliare i tassi nonostante un’inflazione ostinatamente superiore di circa un punto percentuale al livello obiettivo (l’inflazione “headline” a 2,9%, l’inflazione “core” a 3,1%).

Il primo taglio del 2025 apre alla possibilità di un mini-ciclo di allentamento di due ulteriori tagli entro dicembre sia pure, ha ribadito Powell con l’avvertenza d’obbligo, sotto la condizione della qualità dei dati economici e delle dinamiche dell’inflazione. Venerdì prossimo sarà pubblicato l’indice PCE (Personal Consumption Expenditures), una misura dei prezzi seguita con attenzione dai banchieri centrali perché ritenuta più rappresentativa dei consumi, vedremo se il taglio di settimana scorsa sia stato tempestivo o prematuro.

La decisione del taglio ha segnato una discontinuità della Fed rispetto a giugno, nel duplice mandato del suo Statuto il corno della piena occupazione prevale ora su quello della stabilità dei prezzi. “Il mercato del lavoro ha subito un rallentamento, le probabilità di un’inflazione persistente sono minori”, ha dichiarato Powell nella conferenza stampa (nella quale ha dimostrato anche eleganza nelle “non risposte” alle rozze villanìe di Trump).

Per quanto riguarda gli effetti sui mercati, ci pensa il Wall Street Journal a segnalare il rischio dell’eccessiva compiacenza, i mercati azionari hanno toccato nuovi record e i differenziali sui prestiti alle società statunitensi sono ai minimi storici: i mercati scommettono sul proseguimento dei tagli nel 2026, con una Fed che sarà verosimilmente più allineata ai desideri del Caro Leader di Pennsylvania Avenue.

Nell’aria c’è, cantava Umberto Tozzi nel 1983. Nell’aria dei mercati in questo ultimo scorcio di 2025 c’è il presentimento di FOMO, la paura di restare fuori dalla festa.

Nonostante i rischi della geopolitica, la forte concentrazione delle performance azionarie, le crepe nel mercato del lavoro e l’inflazione ancora lontana dal livello obiettivo, gli investitori continuano a scommettere sulle promesse della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Molti di loro non sono operatori professionali ma singoli individui che si ritrovano sulle piattaforme, scambiano pareri e comprano sulle flessioni.

Un sostegno al mercato viene naturalmente anche dalle aspettative sul ciclo di allentamento delle condizioni finanziarie. I prezzi dei futures scontano un livello dei tassi attorno al 3% entro la fine del 2026, un cambio di prospettiva, più orientata all’ottimismo, rispetto a pochi mesi fa e rispetto alle stesse previsioni dei membri del FOMC, per i quali l’aspettativa media è di un livello dei tassi prossimo a 3,5% alla fine del prossimo anno.

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“Con le azioni ai massimi storici, gli investitori sperano di poter avere tutto” scrive il Wall Street Journal, tassi sostanzialmente più bassi, nessun rischio recessivo, le minacce di stagflazione come effetto dei dazi relegate in un angolo. “La storia non è magistra di niente” scrive Montale, sembra che anche questa volta la storia recente non abbia insegnato quanto siano effimere le previsioni sull’andamento dell’inflazione e dei tassi. La decelerazione del mercato del lavoro americana segnala il rallentamento dell’economia mentre dal lato dei dazi, fino ad oggi assorbiti in buona parte dagli importatori, non sono scomparse le minacce all’occupazione e ai prezzi dei beni sugli scaffali.

Il quarto di punto in meno nei tassi ufficiali riduce il costo del finanziamento per le imprese e allevia le ipoteche delle famiglie ma non allevia il costo del finanziamento del debito federale, si sono mossi i rendimenti a breve scadenza, sono saliti quelli a più lungo termine.

Il movimento al rialzo dei rendimenti sulle scadenze più lunghe non è limitato agil Stati Uniti, riguarda tutte le economie avanzate, il trentennale inglese flirta con quota 5,7%, in Giappone il rendimento del decennale è tornato positivo in termini reali dopo molti anni, condizione che potrebbe avere conseguenze rilevanti sui mercati obbligazionari e valutari.

La Federal Reserve non può, da sola, compensare le pressioni innescate dalle aspettative di una più alta inflazione e dalle preoccupazioni sulla sostenibilità dei debiti, la politica monetaria non può supplire alle fallacie delle politiche fiscali. “The world is getting fiscal”, l’attenzione degli analisti e dei mercati si sta spostando dalla centralità della politica monetaria verso la maggior rilevanza della politica fiscale come leva per sostenere l’economia e per gestire con ordine le finanze pubbliche.

“Senza un quadro chiaro, i responsabili politici si troveranno inevitabilmente a confondere i confini tra politica fiscale e politica monetaria …” scriveva qualche anno fa un grande banchiere centrale come Stanley Fisher. Le curve che non rispondono ai segnali distensivi della politica monetaria sembrano confermare il cambio di paradigma pronosticato da Fisher, le politiche monetarie protagoniste dal 2008 devono lasciare il proscenio alle politiche fiscali.

I conti pubblici delle economie avanzate peggiorano, in termini assoluti il costo per il servizio al debito degli Stati Uniti ha superato la spesa per la difesa, il debito è esploso, il deficit di bilancio è oltre il 6% del PIL. In Europa, piagata dalle difficoltà di bilancio e dall’instabilità politica della Francia, c’è l’isola della Germania, i suoi margini fiscali sono tali da poter innescare un ciclo virtuoso di crescita in tutta l’Unione Europea.

Certo, le banche centrali potrebbero compiacere i governi intervenendo per stabilizzare i mercati obbligazionari ma, al netto della perdita di credibilità, il controllo delle banche centrali si ferma in ogni caso al primo tratto della curva, i rendimenti delle scadenze più lunghe sono influenzati solo indirettamente dalla politica monetaria e fissati da chi compra e da chi vende.

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A seguito del taglio, il cambio euro dollaro ha mostrato volatilità: l’immediato movimento di indebolimento è stato corretto dopo i commenti meno accomodanti di Powell. In ogni caso, il biglietto verde resta debole nei confronti di tutte le principali valute nonostante proseguano gli acquisti di attività americane da parte degli investitori stranieri.

Evidentemente, gli investitori vogliono surfare l’onda del momentum del listino americano e della tecnologia senza rimanere esposti alle fluttuazioni del dollaro, pertanto coprono l’esposizione al rischio del cambio. Nei fatti, segnalano la diffidenza verso gli effetti che le azioni dell’amministrazione Trump potrebbero avere sul biglietto verde. Qualche mese fa queste colonne segnalavano che il conto della scarsa credibilità di Donald Trump lo sta pagando il dollaro (vedi L’Alpha e il Beta del 16 giugno 2025 “La fase Bloomsday dell’economia”, L’Alpha e il Beta del 30 giugno 2025, “Le discese ardite e le risalite”): nell’ultimo sondaggio che Bank of America conduce presso i gestori, il 38% degli intervistati ha dichiarato l’intenzione di aumentare la copertura contro un dollaro più debole.

Messo in relazione con le performance dei listini, il comportamento del dollaro riflette non la disaffezione verso gli asset americani ma la diffidenza degli operatori, la sua debolezza è misura della credibilità di questa Amministrazione.

Fonte: InvestmentWorld.it


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