Il Data Act ricopre un ruolo centrale nella più ampia architettura della strategia europea per i dati, concepita come strumento di costruzione di un mercato unico capace di ridurre frammentazioni normative e squilibri competitivi.
La strategia europea per un mercato unico dei dati
L’Unione europea individua nei dati il nuovo bene giuridico strategico, destinato a incidere sulle dinamiche economiche e istituzionali in misura analoga a quanto già avvenuto per l’energia e per le telecomunicazioni.
La disciplina introduce un quadro di regole orientato a garantire accesso, condivisione e riutilizzo, attraverso un modello che non si limita a regolare i flussi informativi ma li riconduce a logiche di equità, interoperabilità e tutela dell’innovazione.
Il tratto distintivo del Data Act è la sua funzione di cerniera. Esso connette il regolamento sulla governance dei dati, incentrato sugli intermediari e sugli spazi comuni, con il futuro regime dell’intelligenza artificiale, che dipende dalla disponibilità di dataset ampi, affidabili e accessibili. L’atto europeo agisce quindi su un terreno costitutivo: la definizione delle condizioni di accesso, utilizzo e condivisione dei dati non personali. Attraverso tali regole si tenta di prevenire la concentrazione del potere informativo nelle mani di pochi soggetti globali, riequilibrando le relazioni contrattuali e ampliando le possibilità di ingresso nel mercato digitale per operatori di minori dimensioni.
L’impatto sulla manifattura italiana e le PMI
Questo assetto implica un cambiamento radicale per il tessuto produttivo italiano. La manifattura, tradizionalmente centrata sul bene materiale, si confronta con la trasformazione del dato in componente essenziale della catena del valore. Ogni macchina connessa, ogni dispositivo intelligente, ogni servizio digitale diventa fonte di un flusso informativo che, se regolato, costituisce patrimonio disponibile per più attori. Da qui discende un duplice effetto: da un lato, le PMI ottengono nuove possibilità di accesso a risorse finora monopolizzate da grandi produttori o fornitori di piattaforme; dall’altro, esse devono affrontare oneri di adeguamento tecnico, organizzativo e giuridico che non possono essere rinviati.
I prodotti connessi come nuova fonte di diritti
Data Act definisce il proprio raggio d’azione partendo da una constatazione elementare: ogni prodotto connesso genera una massa continua di dati che, senza regole precise, rimane sotto il controllo esclusivo del produttore o del fornitore di servizi collegati. L’atto europeo sceglie di disciplinare questa fase primaria, stabilendo che il dato prodotto da un bene materiale o da un servizio digitale non costituisce una risorsa riservata, bensì un contenuto suscettibile di circolazione regolata. Questa scelta implica un’estensione dell’oggetto giuridico: non più soltanto il bene in senso tradizionale, ma anche il flusso informativo che da esso si origina.
La nozione di prodotto connesso diventa così decisiva. Essa include macchinari industriali, veicoli, dispositivi domestici, sensori agricoli, strumenti sanitari, fino ai più comuni apparecchi elettronici. Ciascuno di essi non produce soltanto utilità materiale, ma anche dati che descrivono funzionamento, utilizzo e contesto. Il Data Act attribuisce a tali dati un rilievo autonomo, sganciandoli dalla logica proprietaria del bene fisico. L’utente acquisisce il diritto di accedervi e di trasferirli, mentre il produttore resta titolare di obblighi che incidono sul rapporto contrattuale e sul modello di business.
Servizi digitali e superamento del lock-in tecnologico
Infatti la vera novità di questa regolazione è che essa si estende ai servizi digitali che accompagnano i dispositivi. Il software integrato, il cloud che raccoglie i dati o la piattaforma che consente l’elaborazione ai fini della norma componenti inseparabili dal prodotto stesso. Senza di essi, il bene connesso perderebbe la propria funzione, e i dati generati resterebbero inaccessibili. Per questa ragione il Data Act vincola anche i fornitori di servizi, imponendo standard di portabilità e condizioni di accesso che impediscono pratiche di lock-in tecnologico.
La trasformazione della catena del valore
La conseguenza sistemica riguarda l’intera catena del valore. L’impresa che produce un macchinario non può più considerare esclusivo il controllo sui dati di funzionamento; il fornitore di servizi digitali non può più imporre barriere contrattuali che ostacolino la migrazione verso altri operatori; l’utente, che utilizza il bene connesso, ottiene strumenti giuridici per valorizzare l’informazione prodotta. Si crea così un tessuto regolatorio che trasforma il dato in risorsa condivisa, aprendo spazi per innovazione e concorrenza.
Il riequilibrio dei diritti lungo la filiera produttiva
Dal punto di vista soggettivo, il riconoscimento del diritto di accesso ai dati generati da prodotti connessi e servizi digitali si traduce in un meccanismo che ridisegna la titolarità lungo la filiera produttiva. L’utilizzatore, tradizionalmente relegato a un ruolo passivo rispetto alle informazioni raccolte dai dispositivi, ottiene ora la facoltà di entrare in possesso di tali dati in modo diretto, senza dover dipendere da concessioni unilaterali del produttore. La disciplina non svuota la posizione del fabbricante, che mantiene responsabilità tecniche e garanzie di qualità, ma introduce un riequilibrio sostanziale: il dato non resta vincolato alla sfera esclusiva di chi lo produce, bensì diventa oggetto di un diritto che consente trasferimento, riuso e valorizzazione economica.
Questa redistribuzione di prerogative produce effetti immediati sui rapporti contrattuali. L’impresa produttrice deve garantire all’utente un accesso equo, tempestivo e privo di ostacoli tecnici, mentre l’impresa terza, debitamente autorizzata dall’utente stesso, può ottenere dati necessari a sviluppare servizi complementari.
L’assetto complessivo genera un ecosistema in cui nessun attore dispone di un monopolio informativo e in cui l’accesso ai dati diventa strumento di concorrenza. Il diritto non si limita a riconoscere una facoltà, ma impone obblighi puntuali e rende invalide clausole contrattuali che mirino a limitarla, così da consolidare un regime che attribuisce al dato una circolazione regolata e verificabile.
Interoperabilità come regola giuridica di concorrenza
La disciplina del Data Act affronta il tema dell’interoperabilità con l’intento di trasformarla in regola giuridica a presidio della concorrenza. L’interconnessione tra sistemi informatici, piattaforme e servizi cloud non viene trattata come opzione tecnica, bensì come obbligo strutturale: i fornitori devono predisporre interfacce aperte, protocolli documentati e formati standardizzati che rendano i dati trasferibili in modo agevole. La disponibilità del dato assume significato soltanto se risulta accompagnata dalla possibilità di impiegarlo in ambienti diversi da quello originario, e proprio per questo l’interoperabilità diventa strumento indispensabile per garantire la fruibilità effettiva del diritto di accesso.
La portabilità si inserisce in questo quadro come conseguenza logica. L’utente, una volta titolare del diritto ad acquisire i dati, ottiene anche la facoltà di spostarli verso fornitori alternativi e di scegliere l’ecosistema tecnologico più adeguato. Il trasferimento non riguarda solo l’informazione in sé, ma anche i servizi e le applicazioni che su di essa si fondano. L’impresa che desidera migrare da un cloud a un altro, o che intende integrare i dati provenienti da dispositivi differenti, può farlo senza subire vincoli contrattuali o barriere tecniche predisposte a tutela di posizioni dominanti. La concorrenza assume quindi un carattere sostanziale, perché il mercato si popola di operatori in grado di offrire condizioni più vantaggiose senza dover superare ostacoli artificiali.
Opportunità per il tessuto produttivo italiano
Guardiamo al tessuto produttivo italiano. La struttura economica fondata sulle PMI riceve la possibilità di valorizzare flussi informativi che in passato rimanevano concentrati presso pochi grandi fornitori. Inoltre, attraverso la predisposizione di standard comuni a livello europeo consente alle imprese di accedere a mercati digitali con minori costi di ingresso, di integrare i dati raccolti da macchinari e dispositivi diffusi, di sviluppare servizi innovativi su basi concorrenziali.
Il controllo delle clausole contrattuali abusive
Una volta stabilito che i dati devono circolare attraverso formati comuni e procedure di portabilità, occorre garantire che i rapporti giuridici che regolano tale circolazione non ricreino vincoli artificiali. Senza un controllo sulle clausole contrattuali, l’interoperabilità tecnica rischierebbe infatti di rimanere sterile, poiché il potere negoziale dei grandi fornitori potrebbe neutralizzare la possibilità di accesso attraverso condizioni vessatorie.
Riequilibrio nei contratti B2B e tutela delle PMI
Il Data Act affronta direttamente questa criticità imponendo un riequilibrio nei rapporti B2B. Viene tipizzato un insieme di clausole considerate abusive, tra cui quelle che attribuiscono diritti illimitati di utilizzo dei dati a un solo contraente, quelle che escludono rimedi giuridici per la parte più debole, quelle che limitano la responsabilità del fornitore in misura sproporzionata o che restringono l’accesso senza motivazioni tecniche verificabili. La scelta normativa non consiste in un semplice divieto, ma in una ridefinizione della cornice contrattuale, poiché il contratto rimane valido solo entro confini che preservano equilibrio e proporzionalità.
Il diritto privato al servizio della concorrenza
Questa impostazione attribuisce al diritto privato una funzione strumentale alla concorrenza. L’autonomia contrattuale non viene soppressa, ma disciplinata in modo da impedire che il potere di mercato produca concentrazioni informative incompatibili con l’assetto voluto dall’Unione. Il contratto diventa così elemento di garanzia della contendibilità del mercato dei dati, in continuità con il principio di interoperabilità che presidia la dimensione tecnica.
Questo ha una conseguenza soprattutto per le PMI, il vantaggio risiede nella possibilità di negoziare in un quadro che riduce gli squilibri strutturali. L’assenza di clausole abusive apre spazi di contrattazione più equi e rafforza la capacità di utilizzare i dati come leva competitiva. L’effetto sistemico si traduce in un ecosistema nel quale l’accesso garantito sul piano tecnico trova corrispondenza in rapporti contrattuali ordinati sul piano giuridico, così da assicurare che la nuova economia dei dati non venga catturata da pochi attori dominanti, ma risulti effettivamente diffusa lungo la filiera produttiva.
Il coordinamento normativo europeo
Si dimostra così che il Data Act non può essere isolato rispetto al resto della legislazione europea, perché i diritti di accesso, le regole sull’interoperabilità e i vincoli contrattuali acquisiscono pieno significato solo se armonizzati con il GDPR, il Data Governance Act e il futuro AI Act. La disciplina sulla protezione dei dati personali definisce i limiti alla circolazione di informazioni che riguardano individui, imponendo cautele sulla base giuridica del trattamento e sul principio di proporzionalità. Il Data Governance Act istituisce meccanismi di intermediazione e spazi comuni di condivisione che devono coordinarsi con gli obblighi di accesso previsti dal Data Act, così da evitare sovrapposizioni o conflitti applicativi.
L’AI Act, infine, dipende dalla disponibilità di dataset di qualità e quindi trae fondamento proprio dalla cornice che il Data Act fornisce in materia di accesso e condivisione: senza quest’ultima, le regole sull’affidabilità e la trasparenza degli algoritmi resterebbero prive di una base materiale adeguata. Il coordinamento normativo diventa quindi condizione di efficacia complessiva, poiché solo un intreccio coerente tra queste discipline può garantire la stabilità del mercato europeo dei dati.
Vigilanza e controllo delle autorità nazionali
Chiaro ed evidente è tutto ciò richieda autorità nazionali dotate di poteri effettivi di vigilanza e di sanzione. Il Data Act attribuisce compiti specifici agli organismi di controllo degli Stati membri, con la finalità di sorvegliare l’applicazione delle norme sull’accesso, sulla portabilità e sulle clausole contrattuali, nonché di intervenire in caso di pratiche sleali. La loro azione si inserisce in un sistema multilivello che vede la Commissione europea come garante ultimo della coerenza e dell’uniformità.
La solidità di questo assetto dipenderà dalla capacità di coordinare l’attività delle autorità nazionali, di assicurare procedure rapide di risoluzione delle controversie e di calibrare le sanzioni in modo proporzionato ma dissuasivo. In assenza di un enforcement incisivo, il rischio consisterebbe in un’applicazione disomogenea, con conseguente frammentazione del mercato interno. Un controllo efficace, invece, rafforza la certezza giuridica, tutela le PMI da pratiche escludenti e assicura che i principi del Data Act si traducano in risultati concreti sul piano economico e sociale.
Le sfide dell’attuazione
Il banco di prova riguarda ora l’attuazione. La norma predispone diritti e obblighi, ma il loro impatto dipenderà dall’efficienza delle autorità nazionali, dall’armonizzazione con GDPR, Data Governance Act e AI Act, e dalla rapidità con cui verranno definiti standard tecnici vincolanti. La posta in gioco consiste nella credibilità dell’ordinamento europeo: un’applicazione frammentata indebolirebbe l’intero disegno, mentre un’applicazione coerente rafforzerebbe la posizione dell’Unione nel panorama globale e consoliderebbe la fiducia delle imprese e soprattutto delle persone.
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