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Codice Appalti e digitalizzazione: quali competenze servono alle stazioni appaltanti per gestire i dati | Articoli


La Gestione Informativa Digitale (GID) introdotta dal nuovo Codice dei Contratti Pubblici richiede alle stazioni appaltanti un cambio culturale profondo, oltre il semplice adempimento formale. Tra criticità di competenze, carenza di figure qualificate e rischi di banalizzazione, il futuro del settore passa dalla capacità di riorganizzarsi attorno alla centralità del dato e alla creazione di ecosistemi digitali per appalti e patrimoni pubblici.

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Codice Appalti e digitalizzazione: quali competenze servono alle stazioni appaltanti per gestire i dati

L’introduzione della Gestione Informativa Digitale (GID), ovvero della Gestione dell’Informazione abilitata attraverso la digitalizzazione, nel Codice dei Contratti Pubblici (D. Lgs. 36/2023 e s.m.i.) sta richiedendo uno sforzo di applicazione ai soggetti destinatari: le stazioni appaltanti e gli enti concedenti.

La prima loro reazione ha riguardato essenzialmente due aspetti: l’adempimento formale e la comprensione contenutistica.

Per quanto concerne l’adempimento formale, esso si traduce sia nell’affidamento a prestazioni consulenziali esternalizzate per la redazione dell’atto organizzativo (includente anche la programmazione della formazione e la pianificazione dell’investimento) e dei capitolati informativi e per la frequenza a corsi minimali in grado di dimostrare la conformità ai criteri per la qualificazione delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti.

Per i più, ovviamente, ciò costituisce la delega ad altri per la configurazione del proprio sistema organizzativo per lo scopo specifica e per l’acquisizione strumentale di attestazioni, denotando una estraneità sostanziale alla vicenda.

Tale atteggiamento è, purtroppo, perfettamente prevedibile, sia perché gli anni trascorsi dal 2017 sono stati generalmente impiegati in intenti dilatori, esauritisi solo recentemente, sia, soprattutto, a causa di una incomprensione fondamentale del tema.

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Al netto delle lodevoli eccezioni, è palese, infatti, che l’introduzione di un approccio autenticamente digitale in un contesto radicato di natura analogica, come dimostrato anche dal caso, complementare, dell’approvvigionamento di carattere digitale, non poteva che incontrare il disallineamento.

Se la presenza di documenti esteriormente adottati e prescritti, come l’atto e il capitolato, può generare preoccupazione, l’essere coscienti che l’implementazione del sistema di gestione digitalizzata dei processi informativi e decisionali richieda tempi medi e lunghi pone un cruciale quesito relativo alla possibilità che la riforma in corso si areni ben presto in un gioco delle apparenze.

Ciò che è evidente è che, di fronte a un numero diretto relativamente ridotto di soggetti qualificati e a un novero assai più ampio di soggetti beneficiari (almeno in parte) supportati dai primi, il versante della domanda pubblica, affetto da criticità inerenti alla situazione anagrafica dei dirigenti competenti e alla scarsa attrattività dei ruoli, non possieda la cultura e la mentalità necessarie per affrettare la transizione digitale, unita a quelle sostenibili e circolari.

Vero è, peraltro, che il corpus conoscitivo che riguarda la digitalizzazione nel settore, a partire dalle serie normative, sempre più avanzato ed esteso oltre la modellazione informativa, si esprime con gerghi e con tecnicalità che involontariamente contribuiscono a renderlo poco accessibile.

Nel momento in cui, dunque, la obbligatorietà parziale del tema è affrontata alla superficie dalla domanda pubblica, dal versante opposto della offerta privata, specie di quella imprenditoriale, ma anche di quella professionale, si possono immaginare provengano differenti scenari: il primo, adattivo, fa sì che la risposta ai requisiti posti sia equivalente in intensità, ridotta agli aspetti esteriori; il secondo, conflittuale, prevede che la controparte utilizzi la tematica per rafforzare la propria capacità nel contenzioso.

Poiché l’offerta consulenziale sta attualmente esprimendo, a condizioni economiche ribassiste, adeguandosi alla richiesta, il massimo sforzo, si pone l’esigenza di comprendere in che misura il suo esaurimento inevitabile conduca a una stasi strutturale oppure consenta di avviare, su altre basi, un dialogo con stazioni appalti o con enti concedenti non più, comunque, ignari degli argomenti, benché solo approssimativamente.

Più significative sono le reazioni delle stazioni appaltanti all’adozione di un ambiente di condivisione dei dati, ciò che dovrebbe divenire l’embrione di un ecosistema digitale per la gestione dell’investimento pubblico e del patrimonio immobiliare o infrastrutturale.

Il punto, però, è che le preoccupazioni si sono incentrate sulla conformità a regole tecniche provenienti da AGID e da ACN, essendo per ora escluso l’ambiente dal sistema informativo gestito in prima persona da ANAC: per quanto questo sia fondato, dimostra ancora una volta come il sistema delle responsabilità prevalga sulla logica dei risultati.

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Il fatto è che l’ambiente di condivisione, al netto della sua interoperabilità prospettica con altre piattaforme, tra le quali, anzitutto, quella attinente all’approvvigionamento digitale, rappresenta in nuce il nuovo contesto contrattuale e che, per ciò, necessiterebbe una gestione integrale dei contenitori informativi in modo digitalizzato con i Linked Building Data: una funzionalità che oggi solo una soluzione tecnologica presenta e che richiede ulteriori competenze agli attori della domanda.

In caso contrario, anche l’ambiente di condivisione è destinato a permanere nella trivialità dell’essere un contenitore parziale di dati più o meno strutturati e di documenti solo dematerializzati.

Il terzo corno della questione, ancor più rilevante in tema di allocazione di responsabilità, è relativo alla disponibilità delle figure professionali.

La normativa volontaria, anche in connessione al sistema di riconoscimento delle professioni non regolamentate, ha definito accuratamente i profili professionali tempestivamente e ai giorni nostri li sta aggiornando.

Di là del sistema delle certificazioni di terza parte, rilasciate, peraltro, da organismi di valutazione della conformità posti sotto l’osservazione di ACCREDIA, è chiaro che vi sia una carenza di soggetti qualificati e che la forzata esternalizzazione dei profili esigerebbe una attenzione ai possibili conflitti di interesse.

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