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L’economia diversamente spiegata | Meer


Il mestiere degli economisti

L’economia si occupa della disponibilità dei beni necessari a una data comunità: risultano esclusi i beni che non sono scarsi o, con qualche “distinguo”, quelli che non sono commerciabili (qui è la morale a farla da padrona perché, sebbene i limiti siano riferibili al diritto penale, tuttavia può evidenziarsi un’economia illegale, criminale, border line che andrebbe riferita alle notevoli differenziazioni di sensibilità all’interno della compagine sociale stessa; ciò avviene in modo ancora più evidente se si confrontano comunità e culture diverse tra loro).

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In questa sede, però, non ci occuperemo dell’economia riguardante i beni – a vario livello – definibili come non commerciabili, ma solo di quelli che servono alla comunità: beni (e servizi) necessari, beni e servizi utili, beni e servizi di dubbia utilità, ma che costituiscono una base ineliminabile dei nostri sistemi; se eliminassimo il superfluo, inquineremmo di meno e vivremmo in modo più intenso, ma risulterebbero sconvolti tutti gli equilibri occupazionali e reddituali che si sono venuti determinando dai primordi del cosiddetto capitalismo – fin dall’inizio del XIX secolo – ai giorni nostri.

Vi sono almeno tre aspetti da approfondire: a) quanta disponibilità di beni viene assicurata da produzioni interne alla comunità (in tal caso si sta, evidentemente, parlando degli Stati nazionali); b) quanta deriva da importazioni; c) quali sono le implicazioni teoriche riguardanti una migliore definizione del campo dell’economia.

L’importazione dall’esterno di quanto manca all’interno richiede di attingere a risorse interne, finanziarie o reali (naturali o frutto di attività trasformative) oppure di ottenere quanto serve con la forza fisica esercitata contro i produttori “stranieri”.

Le risorse finanziarie tendono ad esaurirsi; il ricorso alla forza fisica o militare non è qui presa seriamente in considerazione; rimane solo la capacità produttiva del Paese o della comunità importatrice che, quindi, deve esportare prodotti finiti o risorse naturali in modo di compensare il valore delle stesse importazioni.

In un successivo paragrafo cercheremo di spiegare perché – salvo particolarissime situazioni – l’esportazione di materie prime finisca per impoverire chi crede di possedere ricchezze naturali abbondanti per risolvere le proprie esigenze di prodotti finiti; mentre i Paesi poveri di materie prime naturali sono destinati ad accrescere la propria ricchezza essendo costretti, come trasformatori, a generare un crescente valore aggiunto.

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Per offrire beni della trasformazione, dunque, un Paese dev’essere dotato di ingegno (o tecnologie), di forza lavoro adeguata e di imprese efficienti, parafrasando quel che diceva, secoli prima di Adam Smith, il calabrese Antonio Serra.

La teoria dell’impresa richiede che i costi vengano minimizzati allo scopo di massimizzare i profitti ovvero di raggiungere una intensità di essi non inferiore a quanto il capitalista (proprietario o imprenditore) otterrebbe da un mero investimento finanziario.

Ma le stesse variabili di cui si sta parlando, i costi, risultano poi valori da massimizzare quando si passa alla macroeconomia e al PIL: tale schizofrenia, dunque, è la caratteristica della materia economica che l’economista non può risolvere – o almeno attenuare – se non rivolgendosi ad una forza controbilanciante, vale a dire lo Stato.

Sicché, da un punto di vista teorico – una volta svolto il monitoraggio di quanto serve a una data comunità e come essa possa o debba procurarselo – lo sforzo dell’economista consiste nel valutare (e proporre al “decisore” politico) la quantità e la qualità di azioni volte a controbilanciare la forza della minimizzazione delle risorse impiegate, senza togliere agli imprenditori quella prospettiva di guadagno che li motiva nel mantenere o accrescere l’investimento reale.

In altri termini, il campo della materia consisterebbe nel tentativo di ridurre l’insanabile conflitto tra microeconomia (dove i costi debbono venir minimizzati) e macroeconomia dove le stesse variabili – chiamate costi nella micro – debbono, invece venir massimizzati.

Adattare l’offerta alla domanda, adattare la domanda all’offerta

Il cosiddetto capitalismo è apparso, nella Storia, il sistema che ha saputo, meglio di altri, adattare l’offerta alla domanda; ma probabilmente si rivela il peggiore (almeno in assenza di interventi regolativi) al fine di adattare la domanda all’offerta.

L’andamento ciclico delle crisi capitalistiche sembra negare il precedente assunto: al proposito, già N. Kondratiev – precedendo il Keynes di un decennio – aveva mostrato che il disallineamento tra crescita delle capacità produttive e dei redditi dei lavoratori consumatori (che crescevano di meno delle prime) portava all’allungamento dei magazzini, al rallentamento delle vendite, alla crisi stessa.

Quindi, sembrerebbero vere entrambe le tesi: crisi da eccesso di capacità produttive e insufficienza della domanda effettiva. La prima sembrerebbe negare la scarsità e, quindi, attribuire la causa delle crisi all’insufficiente sviluppo dei redditi della gran parte dei lavoratori; in realtà prevale, nella storia del capitalismo la scarsità intesa come insufficienza dell’offerta rispetto alla domanda potenziale (è stato Okun, uno dei consiglieri di Kennedy, infatti, a ribadire – keynesianamente – che la immissione di mezzi monetari aggiuntivi poteva spingere la domanda effettiva fino al livello potenziale senza causare un’importante inflazione).

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Potremmo, quindi, ricostruire la Storia del Capitalismo e delle sue crisi fino allo “spartiacque” degli anni ’60 del XX secolo, quando si raggiunge, per la prima volta, il potenziale superamento della scarsità di beni materiali: le forze produttive capitalistiche avevano raggiunto tale meta, pure aiutate dall’intervento pubblico e da una distribuzione dei guadagni di produttività non solo ai profitti, ma anche ai salari e, come si è accennato, allo Stato. Quest’ultimo ha visto un aumento delle risorse (tasse, tributi) disponibili, ma soprattutto ha potuto spendere in disavanzo di bilancio se i soggetti produttivi hanno saputo incrementare l’offerta di beni in proporzione alle maggiori risorse monetarie immesse (se ciò non fosse stato possibile, i disavanzi pubblici avrebbero determinato fenomeni inflattivi).

Dopo gli anni ’60, si apre una prospettiva nuova: la domanda non potrà più superare l’offerta (strozzature o bottle necks a parte) perché l’offerta si adatterà sempre alla domanda; ma, se si vuole rimanere nella strategia di massimizzare le vendite, occupazione e salari (quindi la domanda) devono crescere; ad un certo punto il ruolo della proprietà – dei mezzi di produzione – si indebolisce perché le scelte vengono effettuate dai sindacati e dal management non più dai proprietari/capitalisti… occorre ristabilire chi deve comandare. Basterà, quindi, con la fine degli anni ’70 del secolo scorso, far crescere i tassi d’interesse finanziari per restituire ai capitalisti il potere più importante (e che fa la differenza con le classi subalterne): poter riprendere a scegliere, formalmente in base alla convenienza, fra investimento finanziario e investimento reale. Il capitale defluisce dalle fabbriche e dai servizi e affluisce agli impieghi finanziari, il proletariato (che era divenuto classe media negli anni – ’60-’70 – di indebolimento della proprietà) e le sue organizzazioni ne escono sconfitti. Ma tutto si è basato su un equivoco: il valore del capitale stesso che non può che poggiare sulla sua scarsità.

Il mito della scarsità

Il mito della scarsità della moneta (e del capitale) deve il suo perdurare alla concezione della moneta stessa che dipende dalle sue funzioni.

Tutti sanno che esse si riducono a tre: unità di conto; mezzo di scambio; riserva del valore.

È la terza, già ammonivano – seppure con modalità ben diverse – Aristotele, Marx, Gesell e i Padri della Chiesa, a determinare gli squilibri: vuoi perché accumularne diveniva un obiettivo (come tale, quindi, da massimizzare), vuoi perché tale circostanza ne determinava la sottrazione da un’utilizzazione più ampia, vale a dire più aderente alle esigenze di – massimo – sviluppo economico, produttivo e sociale.

Il mezzo di scambio, d’altra parte, vuol dire che bisogna averne quanta ne serve; che essa moneta debba essere strumentale e non superare la condizione di vincolo (che a differenza dell’obiettivo, non va massimizzato, regolato dalle esigenze variamente definite dagli operatori e da chi ne dovrebbe assicurare la regolazione).

Della prima, anzi, primitiva (e perciò più forte) funzione della moneta che le consente di essere primariamente astratta, in questa sede basta fare solo un fugace cenno per concentrarsi, invece, sul tema del suo valore e, quindi, della sua scarsità.

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Per essere simbolica anche come mezzo di scambio – diversamente la sua scarsità sarebbe necessaria al non renderla disponibile per tutti, cosa che ne annullerebbe il valore (confinandolo al solo ambito macrosociale o, se piace di più, etico) – essa dovrebbe venir distribuita da un Sovrano o, comunque, da un Regolatore in modo equo o, anche, arbitrario: ciò dipenderebbe dagli obiettivi del Distributore e, anche su questo, si può sorvolare.

Ciò che conta è che i produttori potrebbero approntare tutti i beni ed i servizi che servono alla comunità e che, quindi, il valore corrisponderebbe al lavoro; anche ciò che si designa come capitale (non monetario o non “di esercizio”), ad esempio, i macchinari sarebbe lavoro; il lavoro non è scarso, ma è quello che è; ovvero quanto ne serve per produrre i beni e i servizi necessari.

Dopo il 1971 (sganciamento della moneta dall’oro) si sarebbe potuti accedere ad un mondo migliore che presuppone il superamento della idea o convincimento della scarsità; ma ciò avrebbe liberato gli umani dalle loro catene; purtroppo non c’è stato nessun seguace di Marx – tra chi influiva sulle organizzazioni che avevano issato, nel passato, il secolare vessillo della liberazione – ad approfittare di quanto il sistema capitalistico aveva realizzato: col superamento della scarsità dei beni materiali, ci si sarebbe potuto permettere anche quello dei mezzi monetari (perché, adesso, l’inflazione non sarebbe più venuta dalla immissione di tali mezzi, ma da altri fattori); nemmeno i seguaci del Liberatore per eccellenza, quello che redime persino dai peccati originari, hanno saputo cogliere la palla al balzo…

Il resto è noto.

Produzioni materiali ed immateriali

Di recente – forse una quindicina di anni fa o poco più – il quadro si aggrava, se così si può dire: infatti, tutta l’attenzione degli studiosi, degli economisti, dei politici e dei mezzi di informazione scientifica e non, si concentra solo sui fenomeni legati alla produzione di beni materiali: robot, industria 4.0, meccanizzazione, ultratecnologie, intelligenza artificiale renderanno obsoleti, inutili, ridondanti, in esubero, gli addetti.

Verissimo – almeno in una prospettiva non tanto recondita – per quanto attiene l’industria e i servizi collegati ad essa; ma per niente vero (almeno all’80%) per la produzione dei servizi di cura delle persone (esclusa la sanità in senso stretto, sempre più robotizzabile), dell’ambiente (escluse le attività di controllo) e del patrimonio esistente.

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Piccolo dettaglio: la gran parte del PIL del futuro (ammesso che un tale indicatore non venga presto superato da un altro riguardante il benessere) sarà costituita da servizi destinati alle persone, all’ambiente, al patrimonio esistente.

In tali ambiti la meccanizzazione sarà relativa, l’elemento umano (lavoro come comunemente lo intendiamo) resterà preponderante; però c’è un problema: il 70% circa della popolazione non viene raggiunta dai servizi di cui stiamo parlando perché non appartiene né al 15% di benestanti che possono pagarsi l’assistenza (personale, ambientale, dei loro beni) alle condizioni del mercato, né al 15% con un ISEE talmente basso da giustificare l’intervento pubblico (che è gratuito per loro, ma pesa sulla fiscalità generale).

Il 70% della popolazione deve arrangiarsi perché non si riesce a mobilitare un esercito del lavoro – necessario per produrre i servizi di cui stiamo parlando – in quanto il loro fatturato sarebbe più basso del costo (se fosse il contrario, detti servizi si produrrebbero).

Quindi, alle condizioni del mercato, mancano i redditi – presumiamo della ormai devastata “classe media” – e, se le risorse pubbliche sono scarse, non c’è niente da fare: ma, in un precedente paragrafo, si è sostenuto che esse non sono scarse; ecco il problema.

Esso si può risolvere colmando il gap tra il costo (che è poi il lavoro necessario) ed il fatturato, fornendo i mezzi monetari corrispondenti, visto che la moneta, s’è visto, ha solo un valore simbolico.

La povertà delle nazioni

È un mero luogo comune che i Paesi siano suddivisi tra ricchi di materie prime e poveri; in effetti, ci si dovrebbe, invece, sempre chiedere ricchi o poveri di che cosa?

In genere, le aree ricche di materie prime si trovano – pur con due importanti eccezioni, il Nord America e la Russia transuralica – nel Sud del Pianeta, soprattutto nel continente africano: il risultato è che le realtà meridionali del Pianeta sono sempre state viste dai Paesi di più antica industrializzazione come prede; quel che qui, invece, si vuol sostenere è che la ricchezza derivi dalla trasformazione non, appunto, dalla facile disponibilità di risorse primarie.

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Ne sono esempio l’Italia, la Germania e il Giappone; la stessa Inghilterra deve la sua storica importanza alla concentrazione di capacità manifatturiere sostenute dall’uso della forza militare, riprendendo anche, allargandolo e approfondendolo quanto avevano iniziato – parimenti – gli Olandesi; del Nord America già si è accennato, ma le sue ricchezze naturali – di per sé – avrebbero portato a ben poco se non ci fossero state le industrie, prima sulla costa orientale, subito dopo su quella occidentale; la stessa Russia (anche adesso, come nel periodo zarista e in quello sovietico) – pur dotatissima di risorse naturali – è sempre risultata deficitaria del fattore imprenditivo. Eppure, nella Russia, non è mai mancata l’intelligenza, applicata ai campi scientifici e tecnologici o la stessa organizzazione militare.

In conclusione, è il fattore imprenditivo, applicato alla trasformazione dei beni che fa la ricchezza di un Paese anche a prescindere dall’aggressività nei confronti di vicini, per avventura più dotati di risorse naturali; durante la cosiddetta Età Moderna, la Spagna ha creduto che la disponibilità (monetazione) di oro e argento – nonché di un agguerrito sistema di tassazione – facessero la ricchezza dell’impero, ma, come dimostrò il solito Antonio Serra, si sbagliava; la Francia, pur costruendo un sistema coloniale di primario momento, non è mai riuscita ad andare oltre un certo livello, proprio per la debolezza della sua industria privata (ed è sempre stata tenuta a galla dalle sue prevalenti capacità pubbliche e amministrative).

Investimenti e moneta fiduciaria o cartolare

Secondo la teoria keynesiana, la molla degli investimenti risiede nella prospettiva di guadagno: Keynes ribalta la vulgata al proposito che richiede una previa attività di accumulazione e risparmio, sostenendo, invece, che il risparmio è frutto dell’investimento e non viceversa.

La dottrina economica non aveva ben compreso il passaggio dall’agricoltura tradizionale (dove l’investimento successivo delle sementi deriva dal non consumo corrente di esse) all’industria moderna dove il capitale può essere fornito anche dal sistema bancario e dal credito cartolare: in misura maggiore di quella che è la consistenza di denaro a corso legale o in metalli preziosi o convertibile in essi.

Senza di essi (credito bancario e cartolare o fiduciario) il capitalismo non si sarebbe potuto sviluppare in modo così massiccio; banche e industrie sono andate di pari passo, ma può dirsi che senza banche è difficile ci siano manifatture (almeno importanti) mentre le banche possono esistere senza uno sviluppato sistema produttivo: in tal caso è, però, necessario che qualcuno domandi credito perché è attraverso la non corrispondenza tra investimenti e risorse già accumulate – con il flusso dei primi che supera lo stock delle seconde – che è possibile portare avanti il meccanismo dello sviluppo industriale.

Il segreto delle (piccole) imprese italiane: economia immaginaria e reale

L’Italia sembra, tra i Paesi di più antica industrializzazione, l’unico che non abbia vissuto in maniera drammaticissima il passaggio dalla prevalenza agricola a quella industriale: non tanto sotto il profilo dell’urbanizzazione “forzata” verso i grandi e medi centri (anzi, in Italia, tale fenomeno ha assunto i connotati dell’emigrazione interna), quanto sotto il profilo del passaggio dalla bottega artigiana medievale agli opifici da fine XVIII secolo in poi.

Questo fenomeno è da attribuirsi a due circostanze: la più importante consiste nella virtualmente assente soluzione di continuità tra gli opifici post-rinascimentali e quelli moderni; l’altra agli investimenti nelle industrie della nobiltà terriera.

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Dunque, è la continuità tra i valori e le caratteristiche del Rinascimento che ha consentito la sopravvivenza delle piccole dimensioni; ma anche la loro efficacia.

Di qui l’importanza – o, se si vuole, essere più precisi, la Storia – del Made in Italy che, forse, oggi, dovrebbe venir sostituito dal 100% italiano: nozione o, se si preferisce, strategia che consentirebbe di evitare le contraffazioni e, in prospettiva, la sostituzione del prodotto italiano con quanto altri Paesi sarebbero e sono in grado di offrire ai mercati.

Ascesa e declino delle classi cosiddette medie

L’ampliamento delle classi medie – storicamente attraverso l’abbandono, da parte del cosiddetto proletariato, di intenti più o meno rivoluzionari – è avvenuto grazie all’aumento della spesa pubblica in disavanzo: il solo aumento di stipendi e salari, infatti, senza una sufficiente diffusione del welfare universale, non è sufficiente; in condizioni di pareggio di bilancio, inoltre, finanziare il welfare con le sole tasse comporta un’eccessiva pressione sui ceti medi stessi ovvero un impulso all’evasione fiscale o alla fuga dal Paese da parte dei percettori di profitti e rendite.

Non c’è un sistema diverso – per far sviluppare la classe media – dal riassorbimento delle risorse inutilizzate e disponibili all’interno del sistema, attraverso la immissione di mezzi monetari aggiuntivi atti a finanziare la differenza tra le tasse e la spesa pubblica.

Tale finanziamento può avvenire secondo quattro modalità: 1) debito fittizio dello Stato che fa comperare i titoli alla sua banca centrale (la quale retrocederà al debitore parte degli interessi e ammortizzerà – ovvero cancellerà – il debito principale alla scadenza; 2) debito effettivo dello Stato quando i suoi titoli vengono comperati da soggetti non residenti; 3) emissione di moneta non a debito (ad esempio, statonote, moneta metallica ed elettronica che vengano contabilizzate con lo stesso segno algebrico delle tasse, in modo di compensare in toto o pro parte il disavanzo con la spesa); 4) debito “provvisorio” (l’esempio più noto è quello del Giappone) quando i titoli vengono acquistati dai cittadini ma lo Stato ha il pieno controllo della valuta di riferimento.

Queste quattro dinamiche non sono incompatibili tra loro, nel senso che si può ipotizzare anche un misto di esse; non è difficile comprendere che la modalità 2) scoraggia i disavanzi pubblici e toglie risorse agli investimenti ed al welfare universale (mentre vengono soddisfatte solo le spese vincolate e per il funzionamento istituzionale).

Ai fini dell’osservazione dell’andamento della classe media, quindi, il contenimento degli investimenti pubblici e delle spese per il welfare, determinano un maggior impegno delle famiglie per le cure sanitarie, l’istruzione dei figli e la mobilità; la constatazione che non ci sono abbastanza risorse per tutti (welfare universale) spinge verso l’alternativa del welfare residuale che, se condiviso dalle varie forze politiche, elimina le storiche suddivisioni tra destra e sinistra: ciò rende inutile il confronto elettorale e la funzionalità della democrazia, spingendo la maggioranza degli elettori stessi lontano dal confronto politico.

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In Italia si è assistito ad una crescita della classe media fino al 1981 quando si è passati dalla modalità “1)” di finanziamento dei disavanzi, alla modalità “2)”; è vero, tuttavia, che per tutto il decennio successivo, gli alti tassi di interesse – dovuti all’aver lasciato la regolazione monetaria ai mercati (cioè alle grandi banche autorizzate a partecipare alle aste dei titoli) – hanno consentito a molte famiglie di continuare nell’agiatezza. Ma al prezzo di una molto minore domanda di lavoro che ha cominciato a riguardare, soprattutto, ma non solo, le nuove assunzioni: infatti, le medie e grandi imprese, private e a partecipazione statale, hanno cominciato a destinare la metà dei loro utili non ad investimenti produttivi, ma ad acquisto di obbligazioni dello Stato, particolarmente remunerative.

Il mancato controllo da parte dello Stato della propria moneta delegando tale funzione al mercato e tenendo per sé solo la decisione sugli investimenti e l’allargamento del welfare (optando, necessariamente, per politiche cosiddette restrittive) ha eroso – finita, con la crisi del Sistema Monetario Europeo del Settembre 1992, l’ubriacatura degli alti rendimenti obbligazionari – i livelli di vita della classe media.

Quest’ultima, infatti, è entrata in un loop depressivo che è andato sempre aumentando con la realizzazione di consistenti avanzi primari (al netto degli interessi) del bilancio dello Stato. Né possono venir considerati un’eccezione gli ingenti disavanzi pubblici durante i due anni della “pandemia”.

La pressione fiscale è aumentata quando l’andamento del PIL si è rivelato sempre meno soddisfacente e, mediamente, inferiore a quello degli altri concorrenti europei (unica eccezione gli anni immediatamente successivi alla “pandemia” quando era stata introdotta la misura cosiddetta del 110% che aveva prepotentemente riavviato l’edilizia, misura poi abbandonata, con effetti – evidentemente – negativi sulla dinamica del PIL stesso); i conti statali italiani – a parte l’effetto “pandemico” – non appaiono assolutamente auspicabili e, inoltre, i cittadini non beneficiano di servizi pubblici adeguati ad un Paese moderno. La spesa, d’altronde, non può ridursi, perché il costo del funzionamento istituzionale e, soprattutto, la spesa vincolata (salari, stipendi, pensioni, ecc.,) non sembra destinata a diminuire.

In tutto ciò, le classi medie si sono impoverite enormemente senza che ne risulti alcun beneficio per le finanze dello Stato.

Una diversa politica monetaria e del debito pubblico potrebbe contribuire non poco a rimettere in piedi il Paese, con un ritorno al welfare universale che consentirebbe alle famiglie di destinare ai consumi una quota maggiore del loro reddito.



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