Mentre continua la guerra dei dazi lanciata da Trump per riaffermare la superpotenza e l’arroganza degli Stati Uniti sul mondo intero, qualcuno per caso ancora ricorda l’esistenza del WTO/OMC, l’Organizzazione mondiale del commercio, che ha una bellissima sede a Ginevra, fronte lago – e che ha (o dovremmo dire aveva) tra i suoi scopi quella di essere un forum negoziale per la discussione delle normative del commercio internazionale e quella di organismo per la risoluzione delle dispute internazionali sul commercio?
La scomparsa del WTO e l’era della forza
Erede del Gatt, sua istituzionalizzazione, fortemente voluto dall’Occidente e fortemente criticato dai no global è oggi anch’esso di fatto scomparso davanti all’uso paranoico della forza da parte di Trump (a cui tutti i nuovi/vecchi sudditi – Ue su tutti – si inchinano cercando di elemosinare qualche esenzione), scomparso insieme al diritto internazionale, ai diritti dell’uomo, alla democrazia e all’uguaglianza, alla responsabilità verso la biosfera.
La guerra dei dazi dunque è da poter intendere come continuazione della politica ma anche della stessa guerra militare, con altri mezzi – qui usando von Clausewitz, generale prussiano, scrittore e teorico militare (il suo Della guerra è stato pubblicato nel 1832), famoso soprattutto per la frase: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione appunto con altri mezzi”, guerra dei dazi (oggi) compresa. E che aggiungeva: “La guerra non è mai un atto isolato”. E ancora: “La guerra non scoppia mai in modo del tutto improvviso, la sua propagazione non è l’opera di un istante”.
Il geo-tecnocapitalismo come continuazione del colonialismo
Dunque, la guerra dei dazi come nuova tappa della geo-politica/geo-economia/geo-tecnologia – nomi che sembrano neutri e apparentemente nuovi e razionalistici, ma che sono solo la continuazione dello sfruttamento e della colonizzazione occidentale/capitalistica del mondo e della vita; esemplificando: ieri (e oggi) il petrolio, oggi le terre rare, su tutto il Big Data per addestrare l’intelligenza artificiale, che è appunto capitalismo all’ennesima potenza. E quindi, forse è meglio dire geo-tecnocapitalismo, posta la sua vocazione compulsiva e (apparentemente) irrefrenabile a conquistare il mondo, in ogni modo possibile e conveniente in termini di profitto e di potenza.
Marx ed Engels: la profezia del capitalismo globale
Scrivevano già Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista, correva l’anno 1848 (e oggi basta sostituire capitale/capitalismo a borghesia): “La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa […] non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. […]. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […] Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. […] Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. […] Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili – industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, un’universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra”. E ancora: “La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell’America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni via terra. Questo sviluppo, a sua volta, ha reagito sull’espansione dell’industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano un’eredità del medioevo”.
Dalla globalizzazione alla disruption tecnologica
Ed è, quella di Marx ed Engels, la quasi perfetta descrizione della realtà odierna, dove i dazi statunitensi non modificano la tendenza espansionistica, accrescitiva del capitale (e la sua crescente pervasività sulla vita degli umani), ma vogliono solo riaffermare appunto la sovranità degli Usa sul mondo e la sudditanza degli altri alla volontà di potenza degli Stati Uniti. Nessuna de-globalizzazione, nessun neo-feudalesimo. Ma sempre geo-tecnocapitalismo, termine che riassume geo-politica, geo-economia e geo-tecnologia, tutte strumentali alla massimizzazione del profitto e alla volontà di potenza del capitale. Pratiche di potenza da sempre usate dagli imperi del passato ma soprattutto dall’Occidente e dalla sua modernità industriale/industrialista/positivista, ma che ovviamente oggi non risparmiano (anzi!) tutte i paesi che sono ormai dentro al capitalismo e al sistema tecnico, come Cina e Russia e India, per non dire degli altri. Pratiche di potenza nichilistica ed ecocida che passano attraverso la guerra militare, la guerra economica e tecnologica (i dazi, di nuovo; ma anche la disruption – perché Trump si sta comportando e agendo – appunto rompendo gli equilibri politici esistenti per determinare la costruzione di un ordine mondiale basato ancora di più sulla sola forza – come Bezos e Zuckerberg e Gates, che hanno rotto il vecchio ordine economico per imporre un nuovo ordine digitale – così come sempre accaduto per i tre secoli di rivoluzione industriale-capitalistica, che ha imposto il suo ordine al/sul mondo intero. E su tutto, appunto, la guerra alla biosfera, cioè alla vita in sé.
La geografia dell’innovazione secondo la Silicon Valley
E due libri ci aiutano a capire meglio la geo-politica/geo-economia/geo-tecnologia. Il primo, più recente, è di un intellettuale organico della Silicon Valley e dell’innovazione tecnologica a prescindere, cioè Mehran Gull e il titolo del suo libro è The New Geography of Innovation. The Global Contest for Breakthrough Technologies (edito da HarperCollins – 368 pagine[i]). Saggio dove si analizza come l’America “is the source of just about all the technologies that define modern life: personal computers, operating systems, smartphones, e-commerce, web browsers, email, search engines, social networks, electric cars and the rest. And most of the tech companies that created and monetized these technologies are in the US”. E quindi è prematuro parlare di declino degli Stati Uniti e della Silicon Valley, perché “Databricks è nella Valle, Nvidia è nella Valle, OpenAI è nella Valle, Y Combinator e tutte le sue aziende fortemente orientate verso l’IA sono nella Valle e non solo nella Valle e questo significa che è davvero troppo presto per dire che è la fine della Valle o degli Stati Uniti quando si tratta della loro rilevanza nella tecnologia”.
Il patto tra Stati e capitale tecnologico
E ancora Mehran Gull, sul rapporto Stato e capitale: “Nella maggior parte dei paesi, quando si scava sotto la superficie, gran parte di queste industrie hi-tech è nata attraverso una partnership molto forte con lo Stato. Che si tratti della Silicon Valley o della Cina o della Corea del Sud. Prendiamo il caso della Samsung, che è la tredicesima azienda più grande del mondo e il volto della Corea aziendale all’estero e che è nata da una partnership tra il presidente fondatore dell’azienda e la dittatura che ha guidato la Corea dagli anni ‘60 in poi. C’è una citazione molto famosa del presidente fondatore di Samsung: Il governo e l’industria sono come marito e moglie”. Appunto, geo-politica, geo-economia e geo-tecnologia intrecciate tra loro, in nome e per conto del capitalismo e dei sistemi tecnici.
L’intelligenza artificiale come arma geopolitica
Il secondo libro, del 2024, è di Alessandro Aresu, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, edito da Feltrinelli. E dove, al di là di alcune roboanti e apodittiche/teleologiche-deterministiche ma soprattutto surreali definizioni – tipo: L’intelligenza artificiale è l’invenzione definitiva dell’umanità – si analizza come le aziende big-tech alimentano i processi di innovazione tecnologica (capitalistica). E quali sono conseguentemente le implicazioni politiche e sociali in un mondo diviso dalla guerra tecnologica soprattutto tra Stati Uniti e Cina, generando la corsa alle risorse, economiche e materiali, necessarie al continuo sviluppo della tecnologia.
I nuovi oligarchi digitali al potere
Un sistema mondiale sul quale – aggiungiamo – ad esercitare il potere – la sovranità (attraverso il dominio e l’egemonia)– non sono solo gli Stati, ma appunto e soprattutto imprese privare con i loro imprenditori-oligarchi, i veri padroni del mondo e il vero potere che governa e governamentalizza stati e società umane a prescindere da qualsiasi controllo/bilanciamento democratico (come dovrebbe essere invece in democrazia e in un vero stato di diritto).
I monopoli digitali e l’abuso di posizione dominante
E quindi, prima di ragionare di geo-politica, geo-economia, geo-tecnologia dobbiamo guardare al nuovo capitalismo digitale monopolistico, evoluzione del vecchio Gafam, ma soprattutto evoluzione (o meglio: involuzione) del capitale monopolistico novecentesco – e abuso di posizione dominante, cioè monopolio è il capo d’accusa con cui l’Autorità Antitrust italiana ha avviato un’istruttoria nei confronti di Meta concentrandosi sul servizio di intelligenza artificiale pre-installato su WhatsApp dal mese di marzo e che campeggia nella parte alta dell’applicazione “senza che gli utenti lo abbiano chiesto” e con “il rischio che gli utenti possano restare bloccati o funzionalmente dipendenti da Meta AI”.
Il capitale monopolistico: dalle origini a oggi
Utile allora – per gli opportuni confronti tra vecchio e nuovo e per capire se ciò che sembra nuovo (il digitale) è veramente nuovo – è tornare a rileggere[ii] un fondamentale saggio degli anni Sessanta, Il capitale monopolistico dei due economisti Paul A. Baran e Paul M. Sweezy[iii]. Che scrivevano: “il capitalismo monopolistico è un sistema costituito di società per azioni giganti” in grado di controllare tutti gli elementi determinanti del processo economico capitalistico, come prezzi, produzione, consumo, investimenti, innovazione tecnologica. “Questo non vuol dire che in esso non vi siano anche altri elementi […] che accanto al settore monopolistico vi sia un settore più o meno esteso di imprese minori. […] Ma il fattore dominante, il motore primo è la grande impresa organizzata in società per azioni giganti […], strumenti per massimizzare il profitto e accumulare capitale” (Baran-Sweezy 1968, p. 45) – rinviando a Marx ed Engels, supra.
I robber barons dell’era digitale
E oggi tornano di attualità anche quei robber barons, moguls e tycoons che hanno fatto da pionieri nella storia economica americana (e poi non solo americana), “termini che riflettono il sentimento popolare che paragonava il grande uomo d’affari americano di quel periodo al signore feudale per le sue abitudini rapaci e la sua mancanza di preoccupazioni per il benessere pubblico” (ivi, p. 26) – esattamente come oggi nella nuova fase del capitalismo monopolistico digitale ma anche fossile, con la differenza che oggi Bezos, Musk, Zuckerberg sono definiti visionari, innovatori, personificazioni del progresso, anche se sono sempre robber barons, moguls e tycoons, ma chehanno oggi il consenso affascinato dei politici, dei mass media, ma anche di masse di popolo digitale.
Democrazia formale e plutocrazia sostanziale
E il progresso tecnologico, come sottolineavano sempre Baran e Sweezy ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo del capitale monopolistico, di ieri come quello digitale di oggi. E “in questo sistema lo stato ha la funzione di servire gli interessi del capitale monopolistico”, esattamente come oggi, mentre “i managers delle società giganti e i loro portavoce hanno tutto l’interesse a dare di sé una immagine di progresso tecnologico e di efficienza organizzativa, ma sappiamo anche che tali immagini sono spesso pure e semplici ideologie razionalizzatrici. Bisogna quindi determinare non ciò che le direzioni delle società vogliono farci credere, ma le regole di condotta imposte loro dai meccanismi del sistema” (ivi, p. 59). E l’imperativo del capitalismo monopolistico è “stimolare incessantemente la domanda, pena la morte”. Come accade oggi con l’IA. Tutto questo grazie alla sovrastruttura del sistema politico e giuridico e dove la democrazia, con il voto “è solo la fonte nominale del potere politico, mentre il denaro ne è la fonte reale, cioè il sistema è democratico nella forma e plutocratico nella sostanza. Una cosa ormai tanto pacifica che non sembra necessario argomentarla” (ivi, p. 132), esattamente come oggi, nelle nuove olig-archíe digitali. “E poiché nel capitalismo monopolistico le grandi società per azioni sono le principali fonti di mezzi finanziari, esse sono anche le principali fonti di potere politico”, rendendo impossibile modificare il sistema, a partire dagli Stati Uniti.
La guerra nell’essenza del capitale
Con il che torniamo al concetto di geo-capitalismo e alla sua esigenza/teleologia/determinismo di cercare un crescente spazio vitale per sé, ovunque sia possibile. Con ogni mezzo. Guerra compresa. Anzi, guerre comprese – posto che la guerra è nell’essenza del capitale.
Bibliografia
[i] https://books.google.com/books/about/The_New_Geography_of_Innovation.html?hl=it&id=mHRszQEACAAJ
[ii] Cfr., https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/i-dati-e-il-capitalismo-digitale-oggi-come-ieri-la-disuguaglianza-e-una-scelta-politica
[iii] P. A. Baran – P. M. Sweezy, “Il capitale monopolistico”, Einaudi, Torino, 1968
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