Negli Stati Uniti l’immigrazione qualificata cambia profondamente volto: non basta più il curriculum, serve capitale fresco. Dal nuovo ordine esecutivo di Donald Trump scaturisce un sistema che chiede assegni a sei cifre alle imprese e un milione di dollari agli aspiranti imprenditori stranieri.
Una tassa annuale sui cervelli stranieri
La prima scossa arriva per il visto H1B, lo strumento che da decenni permette alle società statunitensi di assumere specialisti di alta fascia provenienti, in gran parte, dall’India e dai poli globali dell’ingegneria software. L’ordine esecutivo impone ora un contributo obbligatorio di 100.000 dollari all’anno per ogni permesso richiesto o rinnovato, cifra che dovrà essere versata direttamente nelle casse del Tesoro finché il professionista rimarrà in organico. Non un pagamento simbolico, ma una voce di bilancio destinata a pesare sui fogli Excel di qualunque direttore del personale.
La Casa Bianca presenta la misura come un test di mercato: se un talento estero vale, l’azienda saprà giustificarne il costo; diversamente, sosterrà la formazione di candidati interni. A spiegare la filosofia ci ha pensato il segretario al Commercio Howard Lutnick, con parole che non lasciano spazio a fraintendimenti: chi non merita un assegno così esoso, ha detto, faccia posto a un lavoratore americano. L’obiettivo dichiarato è duplice: ridurre la dipendenza da risorse straniere e, al tempo stesso, generare flussi di entrate stabili per il bilancio federale.
I calcoli delle imprese e la reazione di Lutnick
Per le grandi aziende tecnologiche, abituate a importare interi team di programmatori con il supporto di quote e lotterie, il nuovo balzello impone una revisione integrale dei budget. Ogni rinnovo pluriennale rischia di tramutarsi in centinaia di migliaia di dollari, con un effetto diretto sulla redditività dei progetti che dipendono da competenze specialistiche. Start-up e medie imprese, che spesso puntano sullo stesso bacino di talenti per crescere rapidamente, temono di trovarsi schiacciate fra l’esigenza di attrarre know-how e la concretezza di un conto sempre più salato. La Casa Bianca risponde che una selezione economica, per quanto severa, finirà per premiare soltanto la vera eccellenza.
Lutnick, informato sui timori delle imprese, ha rilanciato con toni apparentemente concilianti ma decisi: il provvedimento spingerà verso una competitività autentica, scoraggiando quella che definisce la «dipendenza da codici esterni» e incentivando corsi di aggiornamento in loco. Secondo il Dipartimento del Commercio, la tassa annuale su ogni H1B potrebbe convogliare miliardi nelle casse federali nel giro di pochi anni. Resta da capire se la stretta produrrà un rimbalzo negativo sull’innovazione o se, come spera l’amministrazione, aprirà nuovi orizzonti occupazionali per i cittadini statunitensi.
Il passaporto dorato da un milione di dollari
Se la tassa sui visti aziendali scoraggia, il capitolo successivo apre le porte a chi può permettersi un ingresso in grande stile. Con la Gold Card, chi arriva con un investimento minimo di un milione di dollari ottiene l’immediato diritto di vivere, lavorare e far crescere la propria attività negli Stati Uniti. Il documento non sostituisce la green card, ma ne riprende molte prerogative essenziali: libertà di impiego, ridotto iter burocratico, possibilità di includere coniuge e figli. La differenza, eclatante, è nella formula “paghi subito, entri subito” che l’esecutivo rivendica come volano per l’economia.
Donald Trump ha presentato la Gold Card come risposta pragmatica a un sistema che, a suo dire, premiava le qualifiche formali più che l’apporto concreto. Il principio ribadito alla firma dell’ordine è lineare, quasi contabile: chi vuole il sogno americano versi in anticipo la propria quota al sogno stesso. Il capitale raccolto punta a nutrire programmi infrastrutturali e, nelle intenzioni presidenziali, a ridurre pressione fiscale e deficit. Un messaggio che risuona forte tra elettori attenti ai conti pubblici, ma che solleva interrogativi sul ruolo, ormai secondario, del merito accademico.
Homeland Security e i tempi di rilascio
L’esecutivo, entrato in vigore con la firma presidenziale, affida al Dipartimento della Homeland Security il compito di organizzare le prime emissioni entro sei mesi. Ciò significa creare procedure, sportelli dedicati e sistemi di verifica in tempo record, considerando che la nuova categoria si affianca alle tradizionali classi di visti. Gli uffici, secondo fonti interne, stanno predisponendo controlli ulteriormente snelli rispetto ai canali standard, proprio perché il requisito economico rende superflue molte delle verifiche ordinarie su qualifiche e contratti. Gli analisti prevedono una corsa iniziale agli sportelli, con particolare interesse da parte di magnati del settore tecnologico e imprenditori emergenti dei mercati asiatici.
Non mancano, tuttavia, le cautele tecniche: il milione di dollari dovrà provenire da fonti trasparenti e legittime, con tracciabilità totale per scoraggiare riciclaggio e frodi. Un team congiunto di Treasury e Homeland Security monitorerà i flussi prima del rilascio definitivo. L’amministrazione sottolinea che velocità non significa leggerezza; resta fermo l’impegno a tutelare sicurezza nazionale e integrità finanziaria, pur risparmiando al richiedente le consuete maratone burocratiche. Qualora emergessero anomalie, la domanda sarà respinta senza appello e le somme trattenute fino a chiarimento, misura che, secondo gli esperti, servirà da deterrente a eventuali speculatori.
Verso la Platinum Card e l’opzione Corporate
Mentre la Gold Card muove i primi passi, negli uffici dell’ala ovest prende forma una proposta ancor più esclusiva: la Platinum Card. La bozza, non ancora firmata, prevede un contributo minimo di cinque milioni di dollari in cambio di un soggiorno annuale di 270 giorni per cinque anni, senza imposizione sui redditi generati all’estero. Pochi dettagli trapelano, ma la scelta di separare tassazione e presenza fisica indica la volontà di attrarre capitali senza alterare basi fiscali personali esistenti domestiche complessive.
In parallelo, è già operativa la Corporate Gold Card, pensata per le imprese desiderose di bypassare quote e lotterie individuali. Con un versamento di due milioni di dollari, una società ottiene un pacchetto di sponsorizzazioni da distribuire ai propri dipendenti più strategici. Trump ha assicurato che «le aziende saranno molto felici», convinto che l’esborso, pur oneroso, offra certezze temporali e regolamentari finora inesistenti. Il dibattito, dentro e fuori Capitol Hill, si concentra sul rischio di creare corsie privilegiate solo per le realtà con liquidità abbondante.
Le promesse fiscali e le domande aperte
Contributi da un milione qui, cento mila lì, cinque milioni là: la somma potenziale, stando ai calcoli dell’Ufficio di Bilancio, potrebbe coprire una fetta non trascurabile di investimenti in infrastrutture e ricerca. L’amministrazione punta a usare quei fondi come leva per ridurre il prelievo su famiglie e piccole imprese. L’equazione, però, resta da verificare: il successo presuppone che un numero significativo di investitori stranieri scelga effettivamente di pagare il biglietto d’ingresso. Un report preliminare di Treasury ipotizza circa ventimila richieste nel primo anno, ma il dato è, per ora, soltanto un esercizio statistico.
Gli osservatori, pur riconoscendo la coerenza del progetto con il mantra «America First», temono squilibri nel mercato del lavoro e un’ulteriore spaccatura tra competenze di élite e fabbisogni locali. I sostenitori replicano che l’iniezione di denaro liquido e l’obbligo per le aziende di valutare l’utilità reale di ogni dipendente straniero saranno tonicità per il tessuto economico interno. Il verdetto finale, come sempre, arriverà dai numeri: assunzioni effettive, tasse ridotte o, al contrario, eventuale fuga di cervelli verso altre destinazioni più accomodanti.
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