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Ricciardelli sul rapporto CNEL: “Mancano saldatori, posatori di tralicci e operatori di macchine utensili, dobbiamo fare le riforme per formare le persone che mancano”


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Il primo Rapporto sulla Produttività 2025 del CNEL deve scuotere i riformatori dell’istruzione tecnica e professionale”, tuona Valerio Ricciardelli. “Quel documento è incredibile”, aggiunge. “Scrive moltissime cose che ho già scritto, talvolta con maggior profondità. E tra l’altro segnala tutti i gravi pericoli che ho segnalato finora, tra cui la mancanza di un piano nazionale industriale”.

Il Comitato Nazionale Produttività del CNEL – come abbiamo riferito nei giorni scorsi– ha delineato un quadro critico del sistema formativo nel Rapporto Annuale sulla Produttività 2025, presentato lo scorso 10 settembre alla presenza del Presidente Renato Brunetta. E ora? “Ora – ci spiega Ricciardelli in questa intervista – non si può più stare fermi”.

Valerio Ricciardelli, già manager in un importante gruppo internazionale, ha un vissuto professionale profondo nel campo della cultura industriale e della istruzione tecnica, essendo stato anche pioniere delle prime iniziativa in Italia di formazione applicata superiore. Propone la sua visione e le sue analisi secondo un modello originale definito delle tre E, partendo dall’Economy, per passare all’Employability e atterrare infine nell’Education, intendendo la Technical Education, ossia l’istruzione tecnica a tutto campo. È Maestro del lavoro e ha operato in diversi organismi internazionali che si occupano di Education e Employability

È autore del saggio intitolato “Ricostruire l’istruzione tecnica- Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare”. Edizioni Guerini Next. È columnist per alcuni media sui temi dell’integrazione tra le politiche scolastiche le politiche economiche e le politiche del lavoro.

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Ma torniamo al Rapporto del CNEL. L’analisi del Comitato Nazionale Energia e Lavoro, organo previsto dalla Costituzione, dotato peraltro del potere di iniziativa legislativa, evidenzia come le carenze strutturali dell’istruzione italiana rappresentino un freno significativo per la crescita della produttività nazionale, con particolare riferimento al deficit di competenze digitali e al mancato allineamento tra percorsi formativi e richieste del mercato del lavoro. L’analisi del Comitato mette in luce una criticità sistemica che affonda le radici in percorsi scolastici inadeguati alle esigenze produttive contemporanee. La scarsa presenza di orientamento efficace verso percorsi tecnici o professionalizzanti si accompagna a un persistente “stigma sociale” nei confronti degli ITS Academy, determinando una carenza di competenze digitali che limita gravemente la capacità delle imprese italiane di adottare tecnologie innovative.

La dispersione scolastica, particolarmente acuta nel Mezzogiorno, aggrava ulteriormente questo scenario compromettendo la valorizzazione degli investimenti in capitale intangibile e tecnologie digitali. Il Rapporto sottolinea come l’Italia si posizioni “in fondo alla graduatoria europea per livelli d’istruzione”, con una bassa percentuale di diplomati e una quota ridotta di persone con titolo di studio terziario, di cui invece avremmo tantissimo bisogno, fenomeno che nelle aree più deboli coinvolge circa un terzo della popolazione giovanile. E non è nemmeno da sottovalutare l’emigrazione di nostri giovani diplomati e laureati che sta raggiungendo valori molto preoccupanti: quasi 370 mila negli ultimi 10 anni è più del 20 per cento rispetto l’anno scorso.

Il documento esprime apprezzamento per gli impegni del Governo delineati nel Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025-2029, che prevede il potenziamento delle competenze attraverso la continuazione delle azioni avviate con il PNRR.

La Legge n. 121/2024 sulla riforma della Filiera formativa tecnologico-professionale rappresenta il fulcro della strategia, prevedendo percorsi quadriennali di istruzione secondaria integrati con l’istruzione tecnologica superiore attraverso accordi di rete tra istituzioni scolastiche, ITS Academy, università e soggetti pubblici e privati. Particolare rilievo assumono i “Patti educativi territoriali 4.0“, accordi locali finalizzati alla condivisione di risorse materiali e professionali tra laboratori, personale docente e strumentazioni. Tutte cose che però vanno riempite di contenuti.

Il Comitato propone l’identificazione di target quantitativi per l’estensione dei percorsi ITS e il conseguente ampliamento dell’offerta formativa in ambito tecnico e scientifico, non trascurando l’importanza della formazione e del reclutamento del corpo docente della filiera tecnico-professionale.

Ingegnere Valerio Ricciardelli, vogliamo intanto ricordare di che cosa si tratta?

Si tratta del primo rapporto annuale sulla produttività 2025 dal CNEL, redatto in attuazione delle Raccomandazioni del Consiglio della Ue del 2016: non è un’iniziativa estemporanea.

Perché il primo rapporto e perché è così importante?

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Perché il Comitato Nazionale per la Produttività raccomandato dalla CE è stato nominato solo nel luglio 2024. È una occasione in cui il CNEL produce un documento sicuramente importante sulla produttività in Italia, quindi delle nostre imprese, declinata in tutte le sue sfaccettature. Il CNEL è un organo di rilevanza costituzionale, che svolge un’attività di consulenza in materia di economia e lavoro a supporto del Governo, del Parlamento, delle Regioni. Poiché secondo la Costituzione esercita anche l’iniziativa legislativa, il CNEL può contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale. Ecco perché il rapporto ha una propria autorevolezza

Perché ci interessa il rapporto del CNEL sulle politiche scolastiche legate alle riforme dell’istruzione tecnica?

Per un semplice motivo: perché questa parte dell’ordinamento scolastico oggetto di riforme – e mi riferisco all’istruzione tecnica e professionale – è fortemente funzionale a creare saperi e competenze che servono all’economia e al mercato del lavoro e a mantenere il nostro welfare: tutti argomenti che hanno a che fare con le attribuzioni del CNEL. Per cui è chiaro che la conoscenza del quadro sulla produttività del sistema Paese, e delle sue criticità evidenziati dal rapporto, dovrebbe essere imprescindibile per chi ha la responsabilità di creare i saperi e le competenze necessarie al sistema economico e alle sue necessità. Per me è anche un po’ imbarazzante tornare di nuovo al mio libro e agli altri scritti, dove queste cose le ho rappresentate con ampia argomentazione in maniera molto approfondita. Teniamo presente che l’origine delle riforme scolastiche – quella in atto, cioè la 4+2 e quella degli ITS Academy, così come quelle ancora da attivare, come la riforma dei percorsi quinquennali – trovano la loro genesi dal grande fabbisogno di tecnici e di competenze mancanti alle nostre imprese, soprattutto del settore industriale. Si parlava e forse si parla ancora di circa 100.000 tecnici all’anno mancanti, almeno per i prossimi 5 anni. Un numero enorme che incide negativamente in vari modi sul nostro PIL e sul sistema previdenziale.

È per far fronte a queste emergenze di mancanza di personale e di competenze che si sono attivate le riforme?

Penso di sì. In un modo un po’ particolare si è detto: mancano i “saldatori”, mancano gli “operatori delle macchine utensili”, mancano i “posatori dei tralicci dell’energia elettrica”, mancano altri specialisti, allora dobbiamo fare le riforme, cioè i corsi per formare le persone che mancano. Ho esemplificato con questo esempio, che però è reale, l’identificazione di un approccio che merita qualche osservazione, perché è una metodologia di risposta ai bisogni da usarsi più per orientare il rafforzamento dell’addestramento professionale – che è solo una parte dell’istruzione tecnica –, di cui abbiamo sicuramente bisogno, anziché per costruire una completa riforma di sistema che abbia anche una funzione push quindi proattiva e non solo pull, quindi reattiva e che incida su tutto il sistema economico e del mercato del lavoro, portando benefici concreti anche al welfare. Rincaro l’enfatizzazione con un esempio semplice sulla sanità. Se devo mettere le mani sul sistema sanitario, con una riforma, per renderlo più performante rispetto alle esigenze dei cittadini non parto certo dal fatto che magari mancano i “gessisti” o gli “ortottici” o i “fisioterapisti” tanto da mettermi a costruire i corsi per ortottici, gessisti e fisioterapisti che certamente saranno anche necessari se sono mancanti. Se devo riformare il sistema sanitario devo invece avere un approccio completamente diverso: devo capire come funziona tutto il sistema e non un solo pezzettino.

Fuor di metafora…?

Tornando alla riforma dell’istruzione tecnica, che dovrebbe essere legata strettamente allo stato dell’economia, la domanda da farsi o che doveva essere fatta, era ed è ancora: dobbiamo fare la riforma dell’addestramento professionale perché mancano gli operatori, cosa che ovviamente serve, o dobbiamo partire dal complessivo stato dell’economia, con un’unica visione sistemica che ci porta a considerare tutta l’istruzione tecnica, da quella terziaria, per scendere alla secondaria e per finire alla formazione professionale anche nella sua articolazione dell’addestramento professionale, uscendo dalla frammentazione delle riforme attuali? Questo perché, per fare le riforme che incidono su tutto il sistema economico, occorre partire innanzitutto dalla conoscenza del sistema economico e del mercato del lavoro nel loro complesso, ma bisogna saperlo rappresentare bene per dare le giuste informazioni a chi deve costruire e aggiornare i nuovi saperi, le nuove competenze e tutta la nuova cultura generale, umanistica, professionale e quel che ne consegue: tutto ciò lo ho approfondito nella seconda parte del mio libro, dove ho indicato le “grammatiche” necessarie per occuparsi con metodo di queste cose. Poi, con riguardo al nostro sistema economico e per capire come l’istruzione tecnica possa essere la leva strategica per sostenerlo rendendolo più competitivo incrementando i fattori della produttività – che il rapporto del CNEL dice essere molto bassi – chi si è occupato o si sta occupando delle riforme doveva e dovrebbe leggere con molta attenzione il rapporto Draghi, ricco di informazioni importantissime, e soprattutto analizzare e attivare le misure riguardanti le politiche scolastiche che erano indicate.

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È stato fatto?

Penso non sia stato fatto, anzi non è stato fatto. Non solo, ma lo stesso Draghi i giorni scorsi a Bruxelles, a un anno dalla pubblicazione del Rapporto sulla competitività europea, dove noi da seconda manifattura dopo la Germania dovremmo giocare un ruolo cruciale, prendendo atto di tutto il “non fatto” e facendo il punto della situazione, ha detto: “Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno. L’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma la nostra stessa sovranità”. Più chiaro di così…Peraltro, il Ministero delle imprese e del made in Italy, tempo fa, si era reso conto che per sostenere e rendere competitivo il nostro sistema delle imprese, quindi per renderle più produttive, serviva un Piano nazionale industriale che indicasse chiaramente la strada della politica industriale del Paese, anzi ancor di più il Ministero delle imprese nel suo documento chiamato Libro verde aveva scritto che se l’Italia non si fosse dotata in fretta di un piano industriale le sue imprese sarebbero state destinate a sparire. Ora è evidente che il piano industriale del Paese deve indicare la direzione che si vuol dare alla nostra economia e questo è ovviamente la base da cui partire anche per costruire tutte le riforme scolastiche che servono proprio per produrre i saperi, le competenze, i contenuti e quindi una complessiva nuova cultura, che sono necessari e funzionali a sostenere la politica economica e il mercato del lavoro. Dopo il Libro verde del Ministero delle imprese che doveva essere prodromico al definitivo Libro bianco, che sarebbe dovuto uscire lo scorso febbraio, nulla è più successo e quindi non ne sappiamo più niente. Nel frattempo, però siamo stati “vittime”, senza conoscerne a fondo le vere conseguenze, delle politiche trumpiane dei dazi che sicuramente metteranno in grave crisi il nostro export. Anche per affrontare questa crisi, una adeguata istruzione tecnica potrebbe dare una significativa mano, ma ne possiamo discutere in un’altra occasione.

Nel frattempo?

Dopo qualche mese di sonnolenza e intanto che le riforme per l’istruzione tecnica andavano avanti – ma ci sarebbe da chiedersi come – è comparso inaspettatamente il rapporto del CNEL sulla produttività della nostra economia; quindi, un altro documento che, ancora una volta, ci dice come stanno le cose.

E come stanno le cose?

Al di là dei contenuti importantissimi del Rapporto, esso ci serve per renderci edotti di come sia fatta la nostra economia e lo stato della produttività del sistema delle nostre aziende e quindi anche per capire se le riforme approvate e l’istruzione tecnica e professionale che ne consegue sono coerenti con quanto serve al Paese o se ci sono invece dei disallineamenti con quanto indica il Rapporto. Quindi, al di là dei contenuti, il messaggio da cogliere è se questo Rapporto è solo un ennesimo promemoria oppure un alert o, peggio ancora, un’ultima chiamata per darci una sveglia e per dirci: cari signori, questa è la nostra economia, sofferente nella sua produttività, come noi indichiamo, e con i suoi bassi salari e pertanto bisognosa di tutta una serie di misure anche provenienti dall’aiuto di un sistema di istruzione tecnica di eccellenza. Bene, vi chiediamo: avete progettato le vostre riforme in modo che possono costruire quella cultura che consenta di incrementare i fattori della produttività e di generare un processo di continua innovazione per innalzare la competitività di tutto il nostro sistema economico, migliorando così anche le nostre politiche salariali? È una domanda di buonsenso.

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Quali sono le risposte?

Basta leggere solo il titolo – e per ora lo prendiamo a prestito – di un vostro articolo di Orizzonte Scuola che recita “Il CNEL boccia la scuola italiana”: carenze digitali – e io aggiungo non solo e “stigma sociale verso gli ITS” – e io aggiungo ancora una volta: non solo – frenano la produttività nazionale. È da approfondire e poi da commentare quanto avete scritto.

E secondo lei che cosa servirebbe?

Lo scrivete ancora voi nell’articolo: seve una rivoluzione della filiera tecnico professionale e io aggiungo ancora che non può essere quella della Riforma del 4+2, che semmai è una piccola parte, ma occorre quella rivoluzione copernicana nella forma, in gergo organizzativo, di un grande progetto di turnaround rivoluzionario, di cui ho scritto ampiamente nel libro. Ma tutte queste cose le sto ripetendo da tempo anche in articoli e interviste, e ricorderà che ho segnalato l’importanza che al tavolo delle riforme siano seduti altri soggetti, assolutamente necessari, come la società della conoscenza. Quindi, il Rapporto del CNEL, se ben letto, mette in evidenza i disallineamenti che ci sono con le riforme in atto o perlomeno evidenzia i bisogni a cui occorre far fronte, che vanno ben al di là della mancanza di alcuni operatori specialistici. Se noi leggiamo con attenzione il Rapporto potremmo individuare tre messaggi chiari. Il primo punto è la rappresentazione del sistema delle nostre imprese che evidenzia la criticità della preponderanza delle loro dimensioni piccole e micro e le conseguenze che ne derivano sulle loro performance: scarsa innovazione, bassa produttività, poca propensione all’export, insomma c’è la descrizione di un sistema ad alta presenza di fragilità e con questo sistema di aziende fragili è legittimo chiedersi per quale ragione si continua ad affermare che al tavolo delle riforme devono stare solo la scuola e le aziende? Mi vien da dire, con un po’ di provocazione, che due zoppi non fanno uno che cammina bene. E poi quali aziende ci mettiamo al tavolo che siano sufficientemente rappresentative del sistema economico e attrezzate per dare dei contributi per costruire una riforma scolastica nazionale, e non solo una sommatoria di interventi locali territoriali, che guardi non solo al presente ma anche al futuro del Paese? Al più, ai tavoli locali ci possiamo mettere aziende che esprimono bisogni on demand con orizzonti circoscritti, territoriali, settoriali, temporali, ma abbiamo bisogno di ben altro. Allora è necessario che al tavolo delle riforme ci devono essere ben altri soggetti, come ripeto da tempo: è un fatto oggettivo. E a proposito degli altri soggetti, il secondo punto fondamentale che emerge dal Rapporto è la questione salariale

Cioè?

I nostri salari sono bassi e non crescono perché molte aziende sono improduttive. Da tempo osservo che al tavolo delle riforme occorre parlare di employability, che è un concetto importantissimo e mai preso in considerazione, e se il sistema delle imprese è poco produttivo e questa bassa produttività mantiene i salari bassi, c’è da chiedersi come si può pretendere che l’economia industriale possa attrarre i giovani per l’esercizio delle professioni richieste? Noi abbiamo il grosso problema di attrarre i giovani verso le professioni tecniche e quindi verso le scuole tecniche e professionali che, come ho segnalato più volte, sono considerate di serie B e di serie C rispetto ai percorsi liceali. Capisce che un’economia con una politica salariale bassa non dà nessuna prospettiva di futuro ai giovani, e quindi come possono essere attratti da questo sistema di aziende che rappresentiamo? Noi diciamo: mancano 100.000 tecnici, ma i giovani non vogliono svolgere queste professioni e ci sarà bene una ragione. Se le aziende offrono dei salari bassi per quale motivo un giovane deve accettare di svolgere questi mestieri? È l’evidenza. Allora capisce che queste cose le dobbiamo sapere prima di metterci a fare le riforme; le dinamiche salariali e contrattuali sono dei dati di input importantissimi. Ecco perché servono dei soggetti diversi al tavolo. E poi mi chiedo: se le riforme non funzionano che cosa succede? Quale è il sistema di monitoraggio e gli indicatori che si vanno a monitorare? Ma aggiungo un’altra domanda: le riforme precedenti dell’istruzione tecnica hanno funzionato? Cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato?

Hanno funzionato?

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Se siamo in questa situazione è evidente che non hanno funzionato, indipendentemente dall’aver fatto o meno la fisiologica attività di aggiornamento dei contenuti. Allora, quando ci si mette al tavolo per fare le riforme, ci si chiede almeno se quelle di prima hanno funzionato, cercando di evitare di rifare gli errori precedentemente commessi. Insisto: non si trovano i tecnici, si dice, ne mancano 100.000 all’anno, le aziende sono in difficoltà, abbiamo una sottoccupazione improduttiva e tante altre cose ancora: ma ai giovani, di cui abbiamo bisogno, che cosa effettivamente offriamo? Che tipologia di employability offriamo? Che tipologia contrattuale? Precari o no? Quali salari? E con quali prospettive di crescita? Allora questa dimensione dell’employability, che peraltro ha delle importanti ripercussioni sul welfare – poiché se non crescono i salari non cresce la base contributiva che finanzia il sistema pensionistico – non può non essere oggetto di discussione al tavolo delle riforme. E chi ne discute? A meno che la Riforma, indipendentemente dalla sua architettura (4+2), non sia da intendersi solo l’aggiustamento dei contenuti delle materie scolastiche. Poiché se così fosse, allora non sarebbe una riforma, sarebbe solo la revisione dei contenuti delle materie e sono due cose completamente diverse.

Spieghi meglio questo passaggio, per favore

E qui siamo al terzo punto di disallineamento che traspare dal Rapporto del CNEL. Se andiamo a leggere a pag. 26 vi è scritto, a proposito della riforma della filiera 4+2: “tuttavia non sono stati ancora definiti gli indirizzi e le articolazioni specifiche dei nuovi percorsi né i quadri orari di dettaglio Se questo fosse vero e non c’è ragione per dubitarne – lo ha scritto il CNEL – vorrebbe dire che i giorni scorsi il Consiglio dei ministri ha approvato la trasformazione della riforma dallo stato sperimentale in ordinamento definitivo senza avere ancora definiti gli indirizzi, le articolazioni, i quadri orari che sono il vero contenuto della riforma. Quindi la Riforma è ancora vuota e perché, e quando e chi la riempie? Sono due anni che se ne parla. A questi tre punti fondamentali il Rapporto del CNEL aggiunge altri disallineamenti.

Quali?

Parla di stigma sociale verso gli ITS. Come ho già ripetuto altre volte, il nostro Paese ha bisogno di tanti diplomati di istruzione terziaria, molti di più di quanti sono stimati o lontanamente ipotizzati dal Governo. Ma gli ITS per essere attrattivi e riconosciuti dalla potenziale utenza devono assolutamente avere pari dignità con i percorsi universitari.

Pari dignità” che cosa significa nei fatti, secondo lei?

Devono essere a tutti gli effetti considerati come una laurea breve, perché si tratta di un percorso professionalizzante di formazione applicata superiore, che dovrebbe fare acquisire il titolo di diploma in ingegneria, semmai diversificato per ulteriori indirizzi. In Svizzera, per esempio, i percorsi delle scuole universitarie professionali, che di fatto sono percorsi professionalizzanti di formazione applicata, hanno pari dignità con i percorsi universitari.

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Altrimenti?

Altrimenti questi corsi ITS rischiano di rimanere solo una sommatoria spaiata di corsi post diploma, paragonabili a quelli del Fondo Sociale Europeo Obiettivo 3 di un lontano passato, e quindi a rischio di un progressivo calo di attrattività. E attenzione: la pari dignità è solo un prerequisito o, meglio, una condizione necessaria: poi bisogna costruire la giusta offerta formativa, disporre di tutte le competenze necessarie per realizzarla e inserirla in una politica di employability adeguata, con sbocchi occupazionali con contratti non precari e immediati alla fine dei percorsi e coerenti con il profilo raggiunto, con salari adeguati ed effettive prospettive di crescita e sviluppo professionale. Ma c’è di più ancora. L’istruzione terziaria degli ITS deve essere incardinata in un sistema stabile e riconosciuto e strettamente legato con l’istruzione secondaria. Pertanto, per tali ragioni va assolutamente rivalutata la possibilità di introdurre l’istruzione terziaria degli ITS negli istituti tecnici più performanti, dotandoli di tutte le expertise e le condizioni di autonomia necessarie, perché istruzione secondaria e istruzione terziaria devono stare assieme. Già c’era stata la proposta di una soluzione del genere, tra l’altro ben congegnata dagli esperti, con la Ministra Moratti, ma fu affossata dall’opposizione dell’università. Ma ci sarebbe dell’altro nel Rapporto del CNEL a riguardo delle indicazioni per indirizzare le politiche scolastiche.

Per esempio?

Per esempio, l’importanza nella nostra economia dell’export, quindi del made in Italy, la cui componente fondamentale è il cosiddetto machinery industriale a media e alta tecnologia. E questo machinery italiano, inteso come l’insieme di vari macchinari per differenti settori produttivi dove la nostra meccanica strumentale è molto apprezzata, deve consentire, per far fronte all’imposizione dei dazi, di aprire nuovi mercati che non possono che essere quelli dei Paesi con alta crescita demografica: per esempio, quelli di alcuni paesi africani. Ciò richiederebbe ai riformatori scolastici, soprattutto a quelli che si devono occupare della riforma degli istituti tecnici quinquennali, di pensare all’istituzione di una rete di istituti tecnici del machinery del made in Italy comprendente anche i percorsi ITS. Poi, sempre il Rapporto CNEL cita l’importanza dell’innovazione per incrementare la produttività delle nostre imprese. In tal caso ci dobbiamo chiedere: come si costruisce un sistema di istruzione tecnica orientato a costruire saperi e competenze per l’innovazione?

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Allora, la Riforma o le riforme scolastiche che hanno avuto come punto di partenza la mancanza di alcuni tecnici o operatori o la carenza di un addestramento professionale non colgono nel segno, e non a caso il CNEL, ma lo aveva già scritto Draghi nel suo rapporto, indica che export, digitalizzazione e innovazione sono fattori determinanti della produttività che dobbiamo assolutamente aumentare e che spesso sono interconnessi tra di loro. Poi, ancora, il Rapporto sulla produttività confronta le performance dell’economia industriale del Paese con quelle degli altri Paesi e noi siamo sempre sotto la media europea. La stessa cosa emerge, come già sappiamo, dal divario sul lato delle conoscenze e delle competenze.

Scusi, ma allora come facciamo a rimanere la seconda manifattura in Europa?

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Non lo so, ma dobbiamo trovare il modo, come ho già suggerito con alcuni spunti del mio libro ed altri articoli, incominciando ad allargare gli orizzonti odierni. Riguardo alle Raccomandazioni per il sostegno alla produttività, il CNEL invita ad avere dei piani di azione coerenti e misurabili con un monitoraggio temporale da qui al 2029, e per le riforme scolastiche di avere dei target quantitativi precisi e misurabili. Ciò significa che ci sono sì le riforme, forse ancora da riempire con i contenuti, ai quali andrebbero aggiunti dei target quantitativi ed anche qualitativi precisi e misurabili e magari tra questi target sarebbe opportuno inserire l’obiettivo di una drastica riduzione degli indici di non raggiungimento degli obiettivi minimi di apprendimento, che soprattutto nelle scuole tecniche e professionali sono altissimi, come peraltro è citato nell’ultimo Rapporto del Censis, e senza il raggiungimento degli obiettivi minimi di apprendimento è utopico pensare di creare quei saperi nuovi di cui si dovrebbero occupare le riforme. Questo è un argomento da non sottovalutare

E perché, con un gesto di coraggio, vista l’enorme quantità di fondi impegnati, che dovrebbero essere tutti debito buono come sempre indicato da Draghi, non introdurre finalmente una rendicontazione con il calcolo del ROQ, ossia il return on qualification, inteso come il ritorno calcolato su diverse dimensioni di tutto l’investimento fatto nelle riforme scolastiche? Ne ho scritto ampiamente nel libro.

Ingegner Ricciardelli, ma come uscirne?

Una riforma con un approccio top down, come più volte avevo ipotizzato, che necessiterebbe di essere preceduta dagli Stati Generali, è ancora prematura e non c’è la giusta sensibilità e mancano le competenze. Essendo poi un argomento no partisan sarebbe opportuno e anche doveroso che tutti gli uffici scuola dei partiti si impegnassero per tirare fuori delle concrete e valide idee su cui innescare dei qualificati dibattiti, ma l’argomento non è nella priorità delle agende e l’idea è forse pura utopia. Bisogna allora partire dal basso, in modo bottom up, cercando di superare i vincoli di sistema che in qualche modo si incontreranno e accettando anche dei compromessi. Sicuramente va creata una grande consapevolezza in tutti gli attori, a partire dai dirigenti scolastici e dai docenti delle scuole di settore, per comprendere quanto un sistema di istruzione tecnica di eccellenza sia, a tutti gli effetti una leva strategica per il sostegno e la crescita dell’economia, in mezzo alle complesse sfide che dobbiamo affrontare, e uno strumento essenziale per il mantenimento del nostro welfare. E questa importante funzione dell’istruzione tecnica, non va derubricata dicendo acriticamente, come talvolta avviene con la solita frase: “la scuola non ha il compito di formare le persone per le aziende”.

Non sarebbe, tuttavia, nemmeno un concetto del tutto astruso, non le pare?

La scuola ha però il compito di creare la cultura generale e professionale che serve al Paese e che metta in condizione i nostri giovani di essere protagonisti attivi della loro vita e del loro futuro. Ma tutte queste cose si misurano concretamente nei contenuti delle riforme e poi nell’attrattività che questi nuovi contenuti nel loro confezionamento organizzativo, sanno generare sulla potenziale utenza. Portare anche queste discussioni all’interno di una istituzione importante come il CNEL può favorire la crescita della consapevolezza e lo stimolo per ulteriori raccomandazioni. E chissà mai che prima o dopo non si possa arrivare agli Stati Generali ed anche al libro bianco sull’istruzione tecnica. Accontentiamoci, per ora, di sognare e aspettiamo il libro bianco sull’industria.

Ma la Riforma 4+2 non sembra così campata in aria. Che cosa non la convince?

Mi chiedo come mai non si sia partiti dalla riforma, anche architetturale, degli istituti quinquennali, che avrebbe permesso una visione molto più ampia e se poi fosse emersa la necessità di inventare un’architettura come quella del 4+2, dove sul +2 ci sono non poche perplessità di cui potremmo parlare in una prossima occasione, poteva avere una sua giustificazione. Invece, a mio parere, spinti dalla mancanza di operatori specialistici – noti che non ho usato il temine “tecnici” – e soprattutto dall’obiettivo di spendere i soldi del PNRR ci si è fatti condurre da altre priorità e per altre scorciatoie. E ne è uscita, come sostiene qualche esperienziato dirigente scolastico una riforma fatta a “impulsi”. In ogni caso, per valutare con una certa oggettività la 4+2, anche se i risultati li vedremo tra qualche anno, non sarebbe male realizzare una prima approfondita SWOT analisi. Si tratterebbe, facendo uso delle tecniche giuste, di rappresentare con molta accortezza i suoi punti di forza, quelli di debolezza, le opportunità che offre e i rischi che ci sono. Per ragionare con più oggettività sarebbe certamente uno strumento che potrebbe ispirare qualche buona riflessione in più.



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