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Innovazione e decarbonizzazione possono davvero convivere in Europa?


“L’Europa vuole diventare un faro nel mondo per la ricerca e l’innovazione”. Ha scandito queste parole la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel suo intervento di apertura degli European Research & Innovation Days, una serie di incontri tenutisi a Bruxelles tra il 16 e il 17 settembre. Politici, ricercatori, manager e imprenditori si sono riuniti per discutere di quanto le varie declinazioni dell’innovazione tecnologica, con in testa l’intelligenza artificiale, stiano ridisegnando non solo gli equilibri socio-economici ma addirittura quelli geopolitici.

Negli stessi giorni, il re di Inghilterra Carlo III dall’altra parte della Manica accoglieva Donald Trump in pompa magna al Castello di Windsor, nonostante le divergenze dei due, ad esempio, sulla questione ambientale. Il trattamento regale però era funzionale alla facilitazione di un accordo miliardario tra Stati Uniti e Regno Unito su investimenti high tech, big data e intelligenza artificiale.

I vertici delle istituzioni europee avvertono il senso di urgenza e vogliono mettere il Vecchio Continente in condizione di governare e rendersi protagonista di questi epocali cambiamenti. O almeno dichiarano di volerlo fare, in tre passi.

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Il primo è quello di attirare talenti e competenze. L’iniziativa Choose Science for Europe ad esempio ha stanziato 500 milioni di euro “per rendere l’Europa un magnete per la ricerca” e per attirare ricercatori da fuori dell’Europa, specialmente quelli esuli proprio dagli Stati Uniti che si sono visti tagliare il budget dei propri progetti dall’amministrazione Trump.

Le domande provenienti fuori dall’Europa per l’ERC (European Research Council), lo schema di finanziamento della ricerca più importante e prestigioso in Europa, sono aumentate di 4 volte quest’anno, mentre quelle per i programmi di dottorato e post-dottorato, le borse MSCA (Marie Skłodowska‑Curie Actions), non hanno mai raggiunto un numero di richieste così elevato.

Il secondo passaggio è l’aumento dei finanziamenti. Per sostenere questa nuova domanda di fare ricerca in Europa, la Commissione ha proposto sostanzialmente di raddoppiare il budget del programma quadro Horizon Europe portandolo a 175 miliardi di euro per i prossimi 7 anni, a partire dal 2028.

La ricerca da sola però non basta. Per portare le idee innovative fuori dai laboratori serve trasformarle in prodotti e servizi che hanno ricadute positive per la società. Per questo il terzo passo è sostenere le start up innovative e far crescere quelle già esistenti e la Commissione ha previsto un nuovo fondo dedicato all’ecosistema del trasferimento tecnologico, lo Scale Up Europe Fund, che si inserirà nel contesto della più ampia Start up and scale up Strategy.

Ma è proprio in questo ultimo chilometro che l’Europa finora non è stata al livello degli Stati Uniti o della Cina. 

La fuga delle start-up

Per quanto stia tentando di sfruttare a proprio vantaggio la fuga di cervelli dagli Stati Uniti, offrendo ai ricercatori posizioni nelle università e nei centri di ricerca europei, Bruxelles non è ancora in grado di tamponare l’emorragia delle sue aziende innovative.

Emblematica è la storia di Hajdi Cenan, imprenditrice salita sul palco degli R&I Days. Cenan è co-fondatrice di Airt, azienda nata in Croazia che lavora con l’intelligenza artificiale. Da pochi mesi Airt non è più un’azienda europea: è stata comprata da capitali statunitensi, che le hanno offerto una prospettiva di finanziamento più sicura e continua nel tempo. Uno stato nazionale come la Croazia, la cui economia è incentrata su servizi, soprattutto il turismo, non investe abbastanza in ricerca e innovazione e non dà garanzie a una start-up innovativa che vuole pensare in grande, oltre i confini nazionali.

L’Europa può sopperire in parte a queste carenze nazionali con nuovi fondi dedicati, ma non è ancora in grado di superare altre difficoltà. Ancora non si è concretizzata ad esempio la proposta di quel 28esimo Stato europeo virtuale che consentirebbe di evitare gli incubi burocratici e fiscali che tolgono il sonno a chi deve districarsi tra le regole nazionali, e le lingue, di 27 Stati membri. Quello statunitense è invece un sistema burocratico e fiscale molto più uniforme da uno Stato federale all’altro. È un mercato più unito, più semplice, che risponde meglio alle esigenze di una una start-up come Airt e dove l’adozione della tecnologia digitale, sia tra aziende sia tra consumatori, è molto più diffusa che in Europa.

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È anche per queste ragioni che proprio la mattina del 16 settembre Mario Draghi, ospite a Bruxelles di Ursula von der Leyen a un anno dalla presentazione del rapporto sulla competitività europea (bussola del mandato della Commissione), ha fatto un bilancio impietoso della sua applicazione: l’Europa è troppo lenta, non ha idea di come trovare gli schemi di finanziamento per gli investimenti di cui ha bisogno, accumula vulnerabilità e non sa come affrontarle.

Il rimprovero di Draghi ha aleggiato per entrambi i giorni sugli R&I Days. In quasi tutte le sessioni, i funzionari europei che moderavano gli incontri ricordavano con riverenza che “dobbiamo cambiare e dobbiamo farlo in fretta, come ci ricorda Mario Draghi”.

Un modello di sviluppo statunitense

Il rapporto sul futuro della competitività sostiene che l’Europa non può permettersi di perdere il prossimo grande treno dell’innovazione globale, trainato soprattutto dalla locomotiva dell’intelligenza artificiale, strumento che abilita tante altre innovazioni in tutti i settori, dalla medicina ai materiali, passando naturalmente per quello della difesa.

Draghi però dà anche indicazioni chiare su come salire su quel treno: sostanzialmente, copiare quanto hanno fatto gli Stati Uniti e creare le condizioni per far nascere Big Tech europee.

In Europa le idee non mancano: la ricerca si mantiene ad altissimi livelli e continua a risultare attrattiva (anche se c’è decisamente spazio per migliorare le condizioni e le carriere dei ricercatori europei). Il problema socio-economico però è che sono troppo poche le idee che escono dai laboratori e ancora meno sono le aziende che riescono a crescere e ad affermarsi nel mercato globale, restando aziende europee.

Secondo Draghi la competitività e la produttività, e dunque l’aumento di ricchezza generata, si ottiene con aziende di grandi dimensioni, che fanno grandi margini di guadagno, impossibili per chi rimane troppo piccolo. Per raggiungere grandi dimensioni allora servono più semplificazioni, meno regole, meno costrizioni, più libertà.

Innovazione e decarbonizzazione

Oltre all’innovazione, un altro dei tre pilastri del rapporto Draghi è la decarbonizzazione: l’economia europea dovrà essere sempre più green. La domanda di deregolamentazione che favorirebbe la crescita delle aziende si è però già tradotta in controlli meno stringenti sulle emissioni di gas serra, con il cosiddetto pacchetto omnibus lanciato ad aprile dalla Commissione Europea.

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Se il modello da guardare sono gli Stati Uniti, possiamo vedere qual è la traiettoria già tracciata: le Big Tech hanno tutte annunciato che non rispetteranno gli obiettivi di riduzione delle emissioni che si erano date solo pochi anni fa, in buona parte per l’enorme sete di energia dei data center che vogliono installare per addestrare le proprie intelligenze artificiali.

Questo tipo di innovazione non è compatibile con una vera decarbonizzazione e, nell’ottica della proposta di Draghi, un pilastro sembra minare le fondamenta dell’altro. Snellire la crescita delle start up è sicuramente giusto e necessario, ma è difficile definire confini chiari di cosa significhi meno regole per tutti e il rischio è di darsi la zappa sui piedi.

Per lo meno negli Stati Uniti hanno fatto una chiara scelta di campo: puntare sull’innovazione al prezzo di sacrificare la decarbonizzazione, completamente, arrivando persino al negazionismo climatico di Stato. Da questa parte dell’Atlantico invece non abbiamo lo stesso livello di innovazione e al contempo stiamo smantellando quel poco di decarbonizzazione che avevamo realizzato.

L’intero settore europeo dell’auto ad esempio vede la riduzione delle emissioni come un insopportabile intervento statale che limita la libertà di impresa, non diversamente da come viene vista negli Stati Uniti. L’automotive allora fa fronte compatto e chiede di spostare in avanti nel tempo gli obiettivi di sostenibilità, se non di eliminarli completamente, senza proporre innovazioni alternative, ma solo puntando sulla sopravvivenza del proprio modello di sviluppo.

Nonostante queste frizioni, agli R&I Days sono state ricordate diverse iniziative che la commissaria a ricerca, innovazione e start-up, Ekatarina Zaharieva, intende realizzare entro la fine del suo mandato: non solo aumentare il sostegno finanziario a ricercatori e imprese, ma anche rendere più facile la libera circolazione di ricercatori in Europa, provando a mettere ordine a una European Research Area (area di ricerca europea) che vede ancora troppe disomogeneità tra uno Stato e l’altro. In una società sempre più conflittuale e polarizzata, si asta lavorando per preservare anche la libertà accademica  e con essa le collaborazioni internazionali tra ricercatori, minacciate da confini nazionali che tendono troppo spesso ad alzare barriere anziché rimuoverle.

L’Europa è però ancora lontana dal raggiungere l’obiettivo del 3% del proprio PIL investito in ricerca e sviluppo: se l’era dato più di 20 anni fa quando investiva l’1,8% e oggi è ancora ferma al 2,2%.

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Se almeno sulla carta sembra fattibile consolidare quella che è, nonostante tutto, una posizione di forza, ossia la produzione europea di ricerca di qualità, non appaiono altrettanto convincenti le iniziative volte a trasformare quelle potenziali innovazioni in imprese che producono una ricchezza che non vada solo a beneficio di pochi, ma di tutta la società. Forse il modello di economia dell’innovazione a cui le istituzioni europee hanno immediatamente aderito ha alla sua base delle contraddizioni che andrebbero affrontate e risolte.





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