di ANTONIO GOZZI
L’Italia è un Paese con un debito pubblico molto alto: 3000 miliardi di euro circa, pari al 135% sul PIL.
Per anni tale situazione ha pesato sulla credibilità internazionale del Paese e ha indebolito le prospettive di crescita.
Negli ultimi anni, quelli post Covid, il Governo della Repubblica ha avviato una azione tendente a contenere il debito con politiche fiscali e di spesa prudenti che sono state apprezzate dagli organismi e dagli operatori internazionali.
Ma talvolta si ha la sensazione che gli organi di informazione, i soggetti economici e le stesse imprese non diano la dovuta importanza al risanamento dei conti pubblici che è in atto, e che è alla base di una migliore considerazione del nostro Paese anche da parte degli investitori stranieri. Miglioramento del rating e riduzione dello spread con i bund tedeschi, riduzione del servizio del debito per la parte interessi, probabile uscita nel 2026 dalla procedura di infrazione comunitaria per deficit eccessivo sono i risultati tangibili di tale politica.
Risanare i conti pubblici significa, come detto, ridurre il debito nel rapporto con il PIL e migliorarne la sostenibilità nel lungo periodo, ridurre il deficit mantenendo l’avanzo primario, migliorare il rating sovrano, avere politiche fiscali credibili.
Il rating sovrano è una valutazione che agenzie come Moody’s, S&P, Fitch fanno per giudicare la capacità dello Stato di rimborsare i suoi debiti.
Questa azione, che ha fatto sì che il Ministro dell’Economia italiano, Giancarlo Giorgetti, sia stato premiato come migliore Ministro delle Finanze dell’anno, ha importanti vantaggi per le imprese che è bene ricordare.
Innanzitutto c’è un minor costo del debito pubblico, che con lo spread di oggi viene valutato in almeno 5/6 miliardi l’anno di minor costo del servizio del debito in conto interessi. Gli investitori ritengono il nostro debito meno rischioso, e questo si traduce in tassi di interesse più bassi sui titoli di Stato. Ciò dovrebbe avere una immediata ripercussione sul costo del denaro per le imprese. Le imprese, anche quelle italiane, si finanziano almeno in parte a debito, e il miglioramento del “rischio Paese” si riflette anche nei tassi che le banche offrono alle imprese. Le condizioni generali di credito migliorano anche in termini di maggiore disponibilità di prestiti.
Si instaura anche una migliore fiducia degli investitori nazionali ed esteri. Un Paese con finanze pubbliche ordinate appare più affidabile come ambiente per fare investimenti. I più importanti Paesi europei stanno perdendo oggi attrattività per gli investimenti esteri, in Italia questa attrattività migliora. Quindi nella nostra economia entrano più capitali stranieri.
La stabilità dei conti pubblici si riflette su una migliore stabilità dell’ambiente economico interno, afflitto in questo momento da una forte turbolenza internazionale; e la stabilità è un elemento molto importante per le imprese che possono programmare meglio il loro futuro decidendo più facilmente di fare investimenti.
Risparmiare sul servizio del debito, inoltre, crea spazio fiscale per politiche favorevoli alle imprese. Se il bilancio pubblico è sano lo Stato ha margini per sostenere, incentivi, sgravi fiscali, investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione.
Vi sono poi effetti positivi sulla competitività e sull’ innovazione. I progetti innovativi, e quindi più rischiosi, in un Paese con finanza pubblica non in controllo pagano un premio per il rischio più elevato. Se lo Stato è credibile finanzia meglio la ricerca, le infrastrutture fisiche e digitali, la formazione: tutti elementi che migliorano la produttività e quindi la competitività delle imprese.
Infine, la maggiore credibilità del Paese, anche sul piano della finanza pubblica, aumenta il peso internazionale dell’Italia nel confronto internazionale ed in particolare nel confronto europeo. Il secondo Paese industriale dell’Unione, forte anche del miglioramento significativo della sua finanza pubblica, può rivendicare con più forza in sede europea una svolta nelle politiche industriali comunitarie, fino ad oggi fallimentari, riportando l’industria al centro.
Come abbiamo ricordato più volte da queste pagine, e come ci dice il più volte citato studio del Centro Studi di Confindustria “Unveiling Italy’s Economic Potential. A Perspective on a Dynamic adn Resilient Economy”, accanto alla migliore performance nei conti pubblici ci sono elementi di grande positività nel sistema industriale del Paese, in particolare la sua capacità di esportazione. Siamo la quarta/quinta nazione del mondo per livello di export (ci giochiamo il quarto posto con il Giappone) e ciò testimonia di un vantaggio competitivo molto importante della nostra manifattura, vantaggio che va analizzato e protetto con politiche industriali ad hoc.
Il vantaggio competitivo infatti non è per sempre: oggi c’è, domani può esaurirsi. Solo con un mix di riforme per la modernizzazione del Paese (semplificazione e sburocratizzazione, digitalizzazione, transizione energetica, infrastrutture materiali e immateriali ecc.) e di politiche industriali volte a favorire la R&S e l’innovazione è possibile mantenere l’Italia nel gruppo dei grandi Paesi industrializzati.
Finora l’intervento del Governo Italiano in tema di politiche industriali è stato debole e incerto, a partire dall’opportunità, in gran parte mancata, del 5.0.
Il liberarsi di risorse per la riduzione del servizio del debito in conto interessi grazie alle politiche di bilancio condotte negli ultimi anni e di cui si è detto dovrebbe consentire la possibilità di recuperare il terreno perduto in tema di politiche industriali. Dopo il 4.0, che ha consentito un enorme balzo in avanti del nostro settore industriale, non c’è stato più niente.
Oggi è possibile cambiare, dando un orizzonte almeno triennale agli interventi previsti a favore della nostra industria e dimostrando che, almeno per l’Italia, l’industria è veramente al centro.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link