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Garanzie pubbliche, avanti (con giudizio)


Il ministro Giorgetti ci ha anticipato che stiamo andando verso una revisione al ribasso degli aiuti che il Fondo Centrale di Garanzia ha attualmente in essere a favore delle Pmi. Il cambiamento potrebbe materializzarsi in occasione del varo della prossima finanziaria. La cosa ha preoccupato non poco l’intera platea sia delle imprese che delle banche, che in passato hanno attinto a piene mani importanti garanzie creditizie dal Fondo: fino all’80% di garanzia alla banca concedente credito alle Pmi su temi di investimento, il 50% su temi di semplice necessità di liquidità.

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Senza una così generosa garanzia diventa tutto più difficile. Il tema è che cosa fare perché non crolli tutto un castello di affidamenti bancari costruiti sinora utilizzando ampiamente le garanzie dello Stato e al tempo stesso il costo per lo Stato di eventuali garanzie prestate in futuro sia compatibile con gli obiettivi di finanza pubblica dei prossimi anni. 

Il ministro Giorgetti non ha torto: il bilancio dello Stato ha visto la morte in faccia nella crisi del dopo-Covid (durante il Covid le garanzie dello Stato a favore delle Pmi furono aumentate a dismisura), il rischio di default generalizzati non si è verificato e oggi si può dire, circa le garanzie concesse in passato, “scampato pericolo”. Il ministro Giorgetti a questo punto però desidera a buona ragione diminuire, da qui in avanti, l’impegno dello Stato. 

Dall’altra parte le Pmi e le banche sono ormai da tempo abituate alla dolce droga delle garanzie dello Stato: le prime non sentono o non sembrano sentire il dovere di presentare bilanci finanziabili dal sistema bancario (mancano redditività, forse per un malcelato desiderio di minore imposizione fiscale, mancano mezzi propri, mancano business plan ben fatti e prodotti dall’azienda, mancano tempistiche strette e frequenti di presentazione dei risultati economico-patrimoniali); le seconde da una parte giurano a Bankitalia che la concessione del proprio credito non dipende dalle garanzie dello Stato, ma in cuor loro sanno che senza le garanzie il loro bilancio sarebbe più corto. E meno redditizio. 

Come uscire da questa impasse non è ovvio. Però, qualche ragionamentoinpositivosipuòfare. Tra questi:

1. Gli aiuti alle Pmi non sono solo una caratteristica italiana. Tutti li fanno. Per ovvii motivi , quindi, non si può scendere a zero. 

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2. Volendo (o dovendo) concedere qualcosa, si pone un tema di equità che suggerisce di non esagerare nella generosità della  concessione. Gli aiuti di Stato alle Pmi si inseriscono, tra le spese dello Stato, nella categoria dei “nice to have“, che obbediscono a regole ben diverse rispetto alle spese “must do“, come sono quelle per la giustizia, la difesa, la sanità, l’educazione, le infrastrutture, la tutela del lavoro. Nelle spese “must do“ l’obbligo prioritario è l’efficienza della spesa, nelle spese “nice to have“ la regola prioritaria è bilanciare l’utilità marginale di una spesa aggiuntiva con la disutilità marginale del denaro sottratto al contribuente per finanziare la spesa.

Per fare un esempio: non è chiaro se la pensionata anziana alla quale si richiede di pagare l’Iva sul pane e sul latte sia felice di sapere che il suo denaro serva a finanziare acquisti di elettrodomestici – anche di lusso – o ristrutturazioni di immobili di lusso di famiglie patrizie o l’acquisto di seconde auto per famiglie agiate.

Quando lo Stato si  avvia sulla strada delle spese “nice to have“ è giusto stare molto attenti, prudenti, consci che il denaro che si spende è costato molta fatica a percentuali non minori di contribuenti. In tema di garanzie sui prestiti alle Pmi occorrerà quindi frenare un po’. Il dilemma di “quanto” lo lasciamo al ministro. Il dilemma del “dove” ha una facile risposta: sostegno all’export e alle nuove opere, in Italia e fuori. 

3. Se le garanzie del Fondo Centrale di Garanzia si accorciano, occorre avviare, anche da subito, un’azione a largo raggio per assicurarsi che le nostre possano comunque gestire la nuova situazione. De facto, occorre rimuovere i principali motivi di difficoltà di accesso al credito per le Pmi. Di seguito le direttrici che vengono in mente per prime. 

4. La (apparente) mancanza di redditività e patrimonialità delle Pmi può essere in parte rimossa da una drastica riduzione della tassazione sui redditi non distribuiti delle imprese. Occorrerà scegliere se mantenere invariata la situazione di oggi o piuttosto rimuovere o ridurre la tassazione sui redditi delle imprese a favore di un innalzamento del gettito Iva, anche ricorrendo a misure eccezionali, del tipo incentivi alla delazione. E tassazione del reddito agricolo. Quanto perso sulla tassazione dei redditi delle aziende grandissime contribuenti può essere ripreso con misure ad hoc. 

5. Il numero di banche è ormai scarsissimo. Non vi sono molte possibilità di colloquiare con tante banche se non si opera nella cerchia delle grandi metropoli. Con tutte le concentrazioni degli ultimi anni il cost/income delle banche rimaste è a livelli più che ottimali, anche sotto il 40%. Non servono nuove concentrazioni che accentuino ulteriormente il potenziale oligopolistico dell’offerta, salvo che tra qualche Bcc, soprattutto con l’obiettivo di creare più operatori di media taglia. 

6. Occorre dare la striglia alle tempistiche e prescrivere frequenza di reporting alle imprese. I bilanci del passato 2024 saranno disponibili per le banche affidanti solo a partire da questi mesi, ma i tempi effettivi si possono allungare ancora di molto. Così è difficile fare credito. Le grandi aziende americane quotate producono le loro situazioni economico-patrimoniali ogni trimestre e già dalla terza settimana dalla data di chiusura. Occorre un provvedimento di legge. Comunque, meno tempo disponibile per il reporting e maggiore frequenza conducono a minore evasione…

7. In ultimo, ma per nulla ultimo in ordine di importanza, occorre ci sia un controllo sui tempi di risposta delle banche alle richieste di credito delle aziende. L’attuale Far West nel quale i tempi di risposta alle domande di credito si possono allungare quasi all’infinito non è accettabile. Una impresa deve contare su tempi ragionevoli per ottenere risposta. Il controllo del livello di servizio erogato sul credito fa parte del valore aggiunto di base del sistema bancario. Senza questo controllo le imprese possono morire di asfissia. Qualcosa, rapidamente, deve essere fatto. Non ci si può capacitare che con l’introduzione dei rating i tempi siano così lunghi come oggi. Il privilegio di raccogliere risparmio deve avere qualche compenso nel livello di servizio erogato, che deve essere conosciuto.

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