Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità si accumulano. E non esiste un chiaro percorso per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno. Con queste osservazioni Mario Draghi ha aperto il suo intervento a Bruxelles a un anno dalla presentazione del suo rapporto sulla competitività europea.
Il discorso dell’ex presidente della BCE ed ex premier italiano parte dalla fotografia di un’Europa più esposta che mai alle pressioni geopolitiche, alla concorrenza cinese e alla dipendenza dagli Stati Uniti e dalla constatazione che i pilastri storici della crescita europea – commercio internazionale in espansione ed export ad alto valore aggiunto – non garantiscono più né stabilità né prosperità. A questo si aggiunge la dipendenza su difesa ed energia, che limita la capacità dell’Unione di reagire in modo autonomo.
Il dato più allarmante riguarda la capacità di investimento: l’Europa deve trovare una soluzione – che non sembra a portata di mano – per finanziare i quasi 1.200 miliardi di investimenti annuali necessari di qui fino al 2031 in ambiti fondamentali come la difesa, la sostenibilità e l’innovazione digitale. Ma il debito pubblico in aumento e gli spazi fiscali limitati lasciano chiaramente intendere che senza un cambio di paradigma la competitività e la sovranità europea saranno progressivamente erose. Per questo Draghi chiede con urgenza “nuova velocità, nuova scala e nuova intensità” nelle politiche comuni.
La partita dell’AI: “Mettiamo in pausa l’AI Act”
Draghi ha dedicato una parte centrale del suo discorso all’intelligenza artificiale, definendola una tecnologia paragonabile all’elettricità per il suo potere trasformativo. Ma ha avvertito che l’Europa si sta muovendo troppo lentamente: nel 2024 gli Stati Uniti hanno sviluppato 40 modelli fondativi di AI, la Cina 15, l’UE solo 3.
Nonostante le buone intenzioni, come ad esempio il piano per la costruzione di cinque gigafactory dedicate all’AI, il gap con USA e Cina rimane profondo.
Uno dei nodi principale, secondo Draghi, è la bassa adozione di AI nelle piccole e medie imprese, che si trasforma in un “gap” nella trasformazione digitale indispensabile per innovare e competere su scala globale. Draghi sottolinea la necessità di rimuovere barriere regolatorie, snellire il GDPR e dare slancio a strumenti di finanziamento come fondi per startup e scale-up.
Draghi ha puntato il dito contro la complessità del GDPR, che ha aumentato i costi dei dati per le aziende europee di circa il 20% rispetto a quelle americane. Da qui la richiesta di una riforma radicale delle regole sulla privacy e anche la richiesta di una pausa nell’implementazione della fase più rigida dell’AI Act, finché non se ne comprendano appieno gli effetti.
A proposito di AI, Draghi ha anche detto che la filiera europea deve puntare molto di più sull’integrazione verticale dell’AI per trasformare l’industria tradizionale, dove l’Europa detiene un vantaggio competitivo, ad esempio nell’automazione industriale, ancora però poco sfruttato: l’Europa detiene oltre la metà del mercato globale delle soluzioni di automazione industriale, ma solo il 10% delle aziende manifatturiere utilizza l’AI. Il rischio, ha spiegato Draghi, è disperdere un vantaggio competitivo senza trasformarlo in applicazioni proprietarie capaci di rafforzare le catene del valore europee.
Il futuro dell’Automotive
Sul settore Automotive – cartina di tornasole dei fallimenti dell’Europa – Draghi ha ricordato come la scadenza del 2035 per le emissioni zero avrebbe dovuto generare un circolo virtuoso di innovazione, infrastrutture e nuove filiere. Ma le cose, come sappiamo, sono andate in modo un po’ diverso. Le colonnine di ricarica sono poche, il mercato dei veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, le auto elettriche costano troppo e la politica industriale è frammentata. Risultato: il parco auto europeo invecchia, le emissioni non scendono e le catene di approvvigionamento si sviluppano altrove.
Draghi propone quindi un approccio più coerente, tecnologicamente neutrale e integrato che tuteli il comparto ma spinga anche a una tempistica di attuazione più ragionata e pragmatica, adeguata alla realtà industriale e alle nuove innovazioni tecnologiche. Di qui l’invito a una revisione delle regole sulle emissioni e a una strategia unitaria che colleghi infrastrutture, catene di fornitura e carburanti carbon neutral. Il comparto, che impiega oltre 13 milioni di persone, sarà il banco di prova della capacità dell’Europa di tradurre gli obiettivi climatici in politiche industriali coerenti.
La politica industriale come scelta di sopravvivenza
Se nel suo intervento la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha rivendicato le misure già avviate – dalle gigafactory dell’AI al Clean Industrial Deal – Draghi ha insistito sull’inadeguatezza dell’approccio attuale.
Il rischio, ha detto, è rimanere intrappolati tra la lentezza decisionale dell’UE e l’aggressività di Stati Uniti e Cina.
“Troppo spesso si cerca di giustificare questa lentezza. Diciamo che è semplicemente il modo in cui è costruita l’UE, che bisogna rispettare un processo complesso con molti attori. A volte l’inerzia è addirittura presentata come rispetto dello Stato di diritto. Questo è compiacimento”, aggiunge.
L’ex presidente della BCE propone quindi tre leve per evitare la marginalizzazione: coordinamento degli aiuti di Stato su scala europea; uso strategico degli appalti pubblici per creare mercati interni per le tecnologie avanzate; e una revisione della politica della concorrenza per favorire la nascita di campioni continentali nei settori ad alta intensità tecnologica.
Perché servirebbe il debito comune
Se l’UE riuscirà a concentrare i propri sforzi il passo logico successivo sarebbe il debito comune per finanziare progetti comuni, sia a livello dell’Unione che tra coalizioni di Stati membri.
“Un’emissione congiunta non espanderebbe magicamente lo spazio fiscale. Ma consentirebbe all’Europa di finanziare progetti più grandi in aree che aumentano la produttività ‒ innovazione dirompente, tecnologie su scala, R&S per la difesa o reti energetiche ‒ dove la spesa nazionale frammentata non può più bastare”, dice Draghi.
Aumentando la produzione più rapidamente dei costi di interesse, tali progetti ripristinerebbero gradualmente lo spazio fiscale e renderebbero più facile finanziare esigenze di investimento più ampie.
“Il rapporto stimava che anche un modesto aumento del 2% della produttività totale dei fattori in un decennio potrebbe ridurre di un terzo l’onere delle finanze pubbliche. E se abbattiamo le barriere nel mercato unico e consentiamo alle imprese di crescere più rapidamente, accelereremo anche lo sviluppo dei mercati dei capitali europei. Questi possono aiutare a finanziare la quota privata delle esigenze di investimento”.
L’Europa insomma, secondo Draghi, deve accettare di agire “meno come una confederazione e più come una federazione” o rischia di vedere definitivamente compromessa non solo la competitività, ma la sua stessa sovranità economica. Una conclusione che lascia aperta la domanda su quanto i governi nazionali saranno disposti a spingersi oltre i propri tabù per affrontare tempi che Draghi non ha esitato a definire «straordinari».
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