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Non una scatola dei desideri, ma politiche di sviluppo per la Calabria


di FRANCESCO AIELLO – La Calabria si muove con un passo più corto e più lento del resto del Paese. Non è un problema congiunturale, ma strutturale: quando l’Italia cresce, la regione guadagna poco; quando arrivano gli shock negativi, arretra più degli altri. La distanza dal Centro-Nord non si è ridotta. In alcuni ambiti è addirittura aumentata. Per capire perché, serve uno sguardo che tenga insieme demografia, struttura produttiva e qualità delle istituzioni.

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Il primo segnale è la tenuta fragile del reddito: oggi il PIL pro capite calabrese vale meno della metà di quello del Centro-Nord. Ma il punto non è solo quanto si produce; è come si produce e con chi. La regione si è ristretta: in dieci anni ha perso oltre 162 mila residenti, soprattutto nei piccoli comuni sia delle aree interne sia di quelli meno periferici. La base demografica che dovrebbe alimentare la crescita si assottiglia, e con essa l’offerta di lavoro qualificata. Questa realtà si riflette, evidentemente, nel mercato del lavoro. Nel 2024, quasi la metà della popolazione in età lavorativa è inattiva; il tasso di occupazione resta 17 punti percentuali sotto la media nazionale; la disoccupazione è ancora doppia rispetto all’Italia. Non è un episodio: da decenni la base occupazionale è troppo debole: il sintomo di un sistema di imprese che assorbe pochi occupati.

Questa debolezza del lavoro riflette una struttura produttiva poco esposta ai mercati esterni e a bassa produttività. La Calabria è sbilanciata su comparti a bassa produttività e scarsa esposizione ai mercati esterni; il manifatturiero in senso stretto contribuisce poco nella formazione del valore aggiunto (nel 2022 solo 3,8%), il terziario avanzato impiega meno del 4% degli addetti totali. L’apertura internazionale è minima: l’export regionale vale appena lo 0,1% del totale nazionale e le imprese industriali esportatrici medio-grandi sono meno di 150. In più, gli investimenti privati in R&S sono 0,09% del PIL e gli addetti alla ricerca 0,3%: troppo poco per alimentare salti tecnologici e organizzativi.

Questa fotografia economica ne nasconde un’altra, istituzionale. In una regione piccola e fragile, la spesa pubblica conta molto più che altrove. Eppure, quando autorizzazioni e procedure sono lente, discrezionali e opache, quando la pubblica amministrazione non dispone del capitale umano altamente qualificato e fortemente motivato, quando manca una valutazione sistematica degli interventi, la spesa smette di essere leva e diventa cristallo: frammenta, congela, non trasforma. Non è (solo) un problema di risorse scarse: è un problema di come vengono progettate, selezionate, attuate e verificate le politiche. È necessario che in Calabria (e in Italia…) la spesa torni a essere un mezzo e non un fine, selezionando pochi progetti coerenti con una visione, misurandone gli effetti, correggendo la rotta. Se l’obiettivo diventa “spendere tutto”, l’esito sono micro-interventi privi di massa critica, opere incompiute, incentivi senza impatto, prebende politiche.

Per uscire dalla trappola serve, prima del “come”, un “che cosa” chiaro e condiviso. Il calendario aiuta a capirlo: il 5 e 6 ottobre si vota per Presidente e Consiglio regionale. È l’occasione per impegnare la prossima legislatura su una visione di lungo periodo, centrata sui nodi strutturali qui richiamati.

Da qui discende la priorità: non la sopravvivenza dell’esistente, ma la trasformazione dell’economia calabrese. Questo richiede un afflusso stabile di capitali qualificati – esteri e nazionali – in grado di attivare modernizzazione e integrazione nelle catene globali del valore. La leva decisiva è l’attrattività territoriale, che non si esaurisce negli incentivi fiscali: le decisioni di localizzazione dipendono dalla qualità complessiva del contesto – accessibilità, tempi certi e prevedibilità delle autorizzazioni, certezza del diritto, disponibilità di capitale umano adeguato, infrastrutture logistiche e digitali, un sistema educativo e sanitario affidabili, reputazione istituzionale e fiducia sociale. In assenza di questi elementi, nessuna agevolazione compensa il deficit di credibilità del territorio. Questi fattori sono invece imprescindibili per rendere la Calabria un luogo conveniente in cui investire e trattenere talenti, capace di sostenere ecosistemi in settori ad alta produttività e di generare esternalità durevoli. Ne consegue anche che la politica industriale non può essere “a pioggia”: deve scegliere settori e territori dove esistono vocazioni e potenziale (manifattura evoluta, servizi digitali, bioeconomia, agritech), costruendo ecosistemi e filiere. Una leva trasversale è la logistica avanzata, snodo tra manifattura e mercati esterni.

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Questa traiettoria ha due condizioni abilitanti. La prima è la certezza istituzionale: l’instabilità politico-amministrativa impedisce di fatto qualsiasi percorso di sviluppo, perché interrompe le strategie, frammenta i fondi, aumenta il rischio di disimpegno e logora la reputazione necessaria ad attrarre capitali e talenti. La seconda è il capitale sociale: legalità, trasparenza, contrasto alle infiltrazioni criminali, fiducia nelle istituzioni e rispetto delle regole non sono variabili irrilevanti, ma irrinunciabili pre-condizioni dello sviluppo. Senza tali basi, l’attrazione di nuovi investimenti resta fragile e la sostenibilità di quelli esistenti rimane incerta.

Accanto a istituzioni e capitale sociale, un ulteriore aspetto cruciale riguarda il welfare sociale e le politiche dei sussidi. È legittimo e necessario sostenere i più fragili, ma gli strumenti redistributivi devono essere temporanei e accompagnati da politiche attive e servizi territoriali efficaci: senza una strategia orientata alla crescita, diventano assistenzialismo e producono distorsioni. Lo stesso vale per l’apparato dei sussidi alle imprese: trasferimenti “a pioggia” e/o in settori a bassa produttività, aiuti al mantenimento di imprese improduttive, non solo non trasformano la struttura produttiva, ma cristallizzano inefficienze e sottraggono risorse a interventi ad alto impatto. La redistribuzione – alle famiglie come alle imprese – deve, quindi, compensare i costi delle transizioni (occupazionali, tecnologiche, ambientali), non sostituire la trasformazione: condizionalità chiare, obiettivi misurabili, monitoraggio indipendente e clausole di scadenze automatiche sono indispensabili per evitare derive assistenziali e per orientare le risorse verso crescita e qualità del lavoro.

In questo quadro, il nodo cruciale riguarda la Regione stessa. Sin dalla nascita delle autonomie regionali, l’azione dell’ente è stata troppo spesso frammentata, clientelare, episodica, orientata alla gestione dell’emergenza più che alla definizione di strategie di lungo periodo. Il vero cambiamento di paradigma non consiste nell’aggiungere nuovi strumenti, ma nel ripensare radicalmente il ruolo della Regione come regia dello sviluppo, capace di guidare i processi, selezionare le priorità e garantire continuità istituzionale.

In altre parole, oggi la Calabria non ha bisogno di un catalogo di desideri, ma di una scelta: adottare politiche economiche selettive, non più orizzontali – cioè diffuse e indifferenziate tra settori e territori – ma verticali concentrate su comparti e aree in grado di generare ricchezza. È un cambio di passo culturale: significa accettare che non tutto può essere finanziato, che non tutte le aree crescono allo stesso modo e che la priorità è spendere bene per modernizzare il sistema economico e territoriale nel suo complesso, rafforzandone la competitività.

Queste trasformazioni sono tuttavia difficili per due ragioni. Anzitutto, le condizioni sociali di partenza sono radicate: una diffusa rassegnazione culturale, la ricerca sistematica di sussidi e una prospettiva di benessere più privato che collettivo indeboliscono la domanda sociale di sviluppo e alimentano la dipendenza economica dal settore pubblico. Inoltre, le riforme selettive e le politiche orientate alla produttività producono effetti nel lungo periodo, mentre i decisori politici tendono a privilegiare interventi immediatamente visibili, funzionali alla rielezione. Ne deriva un circolo vizioso: se la domanda di sviluppo è bassa, anche l’offerta di politiche sarà accomodante e di breve respiro; in assenza di classi dirigenti lungimiranti prevalgono soluzioni emergenziali e orizzontali, coerenti con la logica elettorale ma contrarie alla trasformazione. Il bivio è chiaro: o si cambia metodo, o si consolida il declino.

Se questa rivoluzione di metodo prende corpo, entrando nell’agenda della politica regionale e nell’agire delle istituzioni e degli individui e se si compie, la regione può diventare un luogo conveniente in cui investire e vivere, capace di trattenere competenze e di entrare stabilmente nelle catene globali del valore. Se non si compie, i numeri continueranno a raccontare la stessa storia: una Calabria che diventerà ancora più piccola, più povera e più assistita. (fa)

Prof. Ordinario di Politica Economica, DESF “Giovanni Anania”, Unical, Presidente di OpenCalabria)

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