Al CNEL, alla presenza del suo Presidente Renato Brunetta, è stato presentato il Rapporto annuale sulla produttività 2025. un documento che risponde all’esigenza di monitorare e analizzare l’andamento della produttività, in attuazione della Raccomandazione 2016/C 349/01 del Consiglio dell’Unione europea. La Raccomandazione, infatti, invita gli Stati membri a istituire Comitati nazionali per la Produttività, con il compito di indagare i principali fattori che incidono sull’andamento della produttività e di formulare raccomandazioni per il suo rafforzamento.
In Italia, il Comitato è stato istituito con determinazione del Presidente del CNEL n. 69 del 10 luglio 2024 ed è composto da esperti indipendenti che possono avvalersi del contributo di ulteriori figure autorevoli per garantire un supporto amministrativo, operativo e tecnico più efficace.
A offrire una lettura e una sintesi dei dati è l’Area Relazioni Industriali di Conflavoro, che ne evidenzia le implicazioni per il mondo delle imprese e per le politiche di crescita del Paese.
Lo scenario italiano sulla produttività
L’analisi ha evidenziato come, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’Italia si sia distinta per un ritardo strutturale nella crescita della produttività, con un incremento medio annuo fermo intorno allo 0,2% nel periodo 1995-2024. La stagnazione è il risultato di un intreccio di fattori: scarsi investimenti nelle competenze della forza lavoro e nel capitale intangibile, ridotte dimensioni aziendali, persistenti divari territoriali.
Benché tra il 2022 e il 2024 l’occupazione sia cresciuta a un ritmo quasi doppio rispetto alla media europea, questo aumento non si è tradotto in un miglioramento dell’efficienza complessiva del sistema produttivo. La nuova occupazione, infatti, si è concentrata in comparti a basso valore aggiunto come costruzioni, ristorazione, sanità e assistenza, con un impatto limitato sulla produttività. A ciò si aggiunge il cronico ritardo negli investimenti legati all’innovazione: l’Italia continua a destinare la maggior parte delle risorse al capitale tangibile, rimanendo indietro rispetto alla media europea negli investimenti in beni immateriali – software, ricerca e sviluppo, capitale organizzativo.
A confermarlo sono i dati: tra il 2021 e il 2024 soltanto il 32% delle imprese italiane ha realizzato investimenti in questo ambito e, guardando al biennio 2025-2026, solo 33,5% ha in programma di farlo.
La limitata propensione all’innovazione si collega a un ulteriore fattore critico, la bassa diffusione di competenze digitali: soltanto il 16% dei lavoratori possiede competenze ICT di elevata qualità, anche per effetto di percorsi scolastici non sempre coerenti con la domanda del mercato del lavoro e di una dispersione scolastica ancora troppo elevata, soprattutto nel Mezzogiorno.
A ciò si sommano l’invecchiamento della forza lavoro – con gli over 50 che rappresentano ormai il 40% degli occupati – e il disallineamento tra mansioni e competenze, il cosiddetto skill mismatch, che contribuisce a ridurre l’efficienza del lavoro. È proprio il Mezzogiorno a risentire maggiormente di questo scenario, con una minore incidenza di occupati nei settori ad alta tecnologia, nonostante la crescita registrata nella fase post-pandemica.
La dimensione aziendale e la produttività
Un fattore che incide in maniera determinante sulla produttività, e che merita un’analisi specifica, è la dimensione aziendale. In Italia il 94,7% delle imprese occupa meno di dieci addetti, mentre quelle con oltre 250 dipendenti sono poco meno di cinquemila e rappresentano appena lo 0,1% del totale. Questa struttura determina una prevalenza di microimprese che contribuiscono a più del 41% dell’occupazione e a oltre il 22% del fatturato complessivo, a fronte di grandi imprese che impiegano circa un quarto dei lavoratori e generano poco meno del 37% del fatturato.
La dimensione aziendale è strettamente correlata a variabili decisive per il livello di produttività: maggiore è la scala, più ampie risultano la capacità di investimento in capitale fisico e immateriale, lo sfruttamento delle economie di scala, l’adozione di tecnologie avanzate e l’efficienza dei modelli organizzativi. Non sorprende dunque che, in media, le imprese di piccola dimensione registrino livelli di produttività inferiori rispetto a quelle medio-grandi, con un divario particolarmente marcato nei settori a maggiore intensità tecnologica e di conoscenza, come l’informazione, la comunicazione e la manifattura.
Questo perché le aziende di maggiori dimensioni hanno la possibilità di investire in modo più consistente in capitale umano, ricerca e sviluppo e processi innovativi. Al contrario, micro e piccole imprese tendono a limitare gli investimenti in capitale fisico e tecnologico, con una presenza marginale nelle catene globali del valore e una ridotta propensione all’export in volumi significativi.
Dinamiche settoriali e internazionali
Dopo la lieve ripresa del periodo post-pandemico, l’Italia è tornata a sperimentare una fase di stagnazione, segnata da bassi salari e bassa produttività che si riflettono in un potere d’acquisto ridotto. L’aumento delle retribuzioni registrato nel 2024 non è stato sufficiente a colmare il divario: i salari reali nel 2025 risultano infatti ancora inferiori del 7,5% rispetto al 2021 (OECD – Employment Outlook 2025). Parallelamente, la crescita occupazionale non ha generato un rafforzamento della produttività, poiché il 63% dell’incremento netto dei posti di lavoro si è concentrato in settori a basso valore aggiunto come costruzioni, sanità, assistenza sociale e ristorazione (Rapporto Annuale Istat 2025).
La manifattura rimane negli anni il settore più produttivo, con una crescita media annua dello 0,9% tra il 1995 e il 2023, interrotta però da una contrazione del -2,4% nel 2023. Le costruzioni, al contrario, hanno mostrato una dinamica positiva: nel periodo 2019-2023 la produttività è cresciuta del 3,3% annuo, trainata dai bonus edilizi e dal PNRR, con picchi del +6,3% nel 2022 e del +4,3% nel 2023. Altri settori, come commercio, trasporti, alloggio e ristorazione, hanno mantenuto tassi modesti (+1% nel periodo 2019-2023), subendo però un calo del -2,7% nel 2023.
Ancora più critica la performance delle attività professionali e dei servizi di supporto: pur caratterizzati da capitale umano ad alta intensità di conoscenze, hanno segnato un tasso medio del -1,3% tra il 1995 e il 2023 e un ulteriore -3% nel 2023, penalizzati dall’invecchiamento della forza lavoro e da un lento adeguamento tecnologico.
A livello territoriale, tra il 2019 e il 2023 il PIL pro capite è aumentato grazie al contributo del tasso di occupazione, mentre la produttività del lavoro ha inciso negativamente, in particolare al Centro, e la struttura demografica ha pesato su tutte le aree.
Un elemento distintivo resta l’orientamento ai mercati esteri: le imprese esportatrici sono mediamente più produttive del 125% rispetto a quelle orientate al mercato interno, grazie anche al fenomeno del learning by exporting, che permette loro un miglioramento e un apprendimento continuo che le porta a consolidare un vantaggio competitivo. Tuttavia, soltanto il 17% delle manifatturiere italiane esporta e, tra queste, l’81% ha oltre 50 dipendenti, confermando il legame tra dimensione, apertura internazionale e produttività.
Conclusioni
Il Rapporto annuale sulla produttività 2025 evidenzia come, nonostante segnali di ripresa, la crescita italiana resti fragile. Negli ultimi trent’anni il PIL è aumentato in media dello 0,9% annuo, meno della metà rispetto all’UE27, trainato soprattutto dall’aumento delle ore lavorate e da comparti tradizionali a bassa produttività, mentre l’uso inefficiente dei fattori produttivi e la scarsa propensione agli investimenti immateriali hanno rallentato l’innovazione.
In questo contesto, emerge con forza la necessità di un approccio coordinato che incida sui nodi strutturali del sistema economico. Le priorità riguardano il rafforzamento delle competenze e degli investimenti, con incentivi mirati all’adozione di tecnologie digitali e alla formazione 4.0 nei settori più dinamici; la crescita dimensionale e l’internazionalizzazione delle imprese, da sostenere con riforme fiscali, semplificazione amministrativa e managerializzazione; la riduzione dei divari territoriali, attraverso il potenziamento delle reti di innovazione e un maggiore sostegno ai progetti tecnologici nelle aree più deboli.
È dunque su queste direttrici che si giocherà la possibilità di trasformare l’attuale stagnazione in un percorso di crescita sostenibile e inclusiva. Il PNRR, con le sue misure già in attuazione, potrà rappresentare un banco di prova decisivo, i cui effetti saranno valutabili nei prossimi rapporti. Solo con politiche coerenti e di lungo respiro sarà possibile restituire centralità alla produttività come motore di competitività e di benessere diffuso.
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