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Africa: il Piano Mattei e la sfida del debito da mille miliardi


La ristrutturazione del debito africano rappresenta una delle sfide più complesse del panorama economico internazionale contemporaneo. Il continente si trova a gestire un indebitamento che supera i mille miliardi di dollari, mentre nuovi attori globali hanno modificato profondamente le dinamiche creditizie tradizionali.

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Lo scenario del debito africano e il Piano Mattei

In termini ricorrenti, si affaccia nel dibattito sull’Africa la questione del debito contratto in modo abnorme da molti paesi e sulla opportunità, se non anche necessità, di un intervento da parte della comunità internazionale, volto a sollevarli dal relativo onere, con argomenti e anche rimedi che spesso sono descritti come innovativi, salvo poi svelarsi nuovi solo nel nome.

Nell’anno del Giubileo, il tema non poteva che riproporsi almeno in Italia, e di fatto è stato considerato anche all’interno del Piano Mattei con le dichiarazioni rilasciate dalla Premier Meloni durante gli incontri di Roma dello scorso giugno. Nel concreto l’intervento da realizzarsi prevede la conversione di circa 235 milioni di euro di debiti in progetti di sviluppo, “da attuare in loco” entro un periodo di 10 anni. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalla premier Meloni, il progetto darebbe priorità alle nazioni meno sviluppate (da individuarsi secondo l’elenco steso dalla Banca Mondiale e composto da 46 nazioni), con una conversione totale del debito, e quindi a quelle con redditi pro capite medio bassi, con una conversione del 50%. L’iniziativa si presenta di per sé lodevole, soprattutto se come sembra sarà supportata dall’Unione Europeo, magari ampliandone l’impatto totale, considerato che i 235 milioni di euro del piano sono davvero una goccia nel mare, rispetto all’indebitamento complessivo che supera i mille miliari di dollari USA.

Nuovi creditori e regole del gioco cambiate

A prescindere comunque dall’impatto concreto e fermo restando che la dichiarazione d’intenti è valida, rimane da valutare come essa possa essere implementata, considerato che il tema è annoso mentre il contesto sottostante è in continua evoluzione.

Considerando segnatamente il contesto, si pensi infatti che se sino ai primi anni duemila, il debito africano, considerato nel complesso degli stati del Continente, era in mani strettamente occidentali, guidate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Il quadro però è decisamente cambiato a partire dagli anni 2000 con il presentarsi di nuovi protagonisti, quali la Cina ma anche paesi quali l’India e la Turchia, con un cambiamento significativo delle regole del gioco e le possibilità d’intervento.

Serve, infatti, a poco tagliare il debito unilateralmente, se poi lo spazio d’indebitamento generato dal taglio è immediatamente colmato con prestiti contratti con altri soggetti: in questo senso, lo spirito pratico trumpiano che sta caratterizzando l’amministrazione statunitense anche in Africa e che sostanzialmente può ricondursi a evidenziare che non ha senso rispettare le regole del gioco se gli altri non le rispettano, può lasciare attoniti, ma un senso di fondo lo possiede e appare innegabile. E a poco servono regole e condizioni draconiane, quali quelle imposte, anche in modo scellerato alla Grecia per la crisi del debito, se non si è certi di essere gli unici player a dare le carte (tanto per rimanere nella metafora trumpiana di triste memoria nel colloquio alla Casa Bianca con il premier ucraino Zelensky).

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Europa e Africa: prossimità geografica e distanza decisionale

Di questo dovremmo soprattutto essere coscienti noi europei, almeno coloro che temono le migrazioni africane, se consideriamo che coloro che stanno determinando le politiche e le scelte, anche ambientali degli stati africani, sono poi separati da oceani, quando tra Africa e Europa vi è solo un mare, che più che separare unisce i due continenti (in questo contesto deve essere riconosciuto alla Presidente del consiglio di avere le idee molto più chiare di tanti politici e governanti italiani).

Identità africana e rischi di nuove spese improduttive

Un’altra considerazione che rileva è il crescente orgoglio africano, che da un lato ascrive all’Occidente (particolarmente agli europei) ogni suo male e che dall’altro tende a svincolarsi da tutte quelle valutazioni che non corrispondono al proprio, forse smisurato, ego: ne è un esempio il dibattito sulla necessità della creazione di agenzie di rating africane, perché quelle occidentali e in particolare le tre statunitensi non sarebbero in grado di conoscere la realtà africane, se non quando sarebbero addirittura lo strumento di una pervicace volontà di sottostimare le realtà per fare gli interessi degli speculatori occidentali.

In tale contesto è chiaro che tagliare il debito pubblico può concretizzarsi in una mera dichiarazione d’intenti che, laddove eseguita, potrebbe rivelarsi inutile se non quando dannosa, dal momento che potrebbe liberare nuove risorse finanziarie per scopi alquanto discutibili (si pensi al progetto recentemente promosso dal Presidente Keniano Ruto di realizzare – non si sa con quali risorse – una mastodontica chiesa cristiana in un paese in cui numerose sono le religioni professate).

Strumenti di ristrutturazione e difficoltà di applicazione

Tornando quindi alla questione del debito e le modalità d’intervento, il tema non appare semplice.

Negli anni l’indebitamento di molti stati si è modificato quanto a composizione dei concedenti, non più e solo banche multilaterali, ma anche investitori privati, anche locali. Il tema che si pone è come giungere al taglio e – come anticipato – quali cautele adottare per evitare che i tagli si tramutino in nuovi debiti o in spese che non giustifichino il sacrificio dei creditori accettato con il taglio.

Si pensi ad esempio ai molti project finance spesso promossi in varie parti d’Africa, che dovrebbero di fatto autoalimentarsi con i proventi dello sfruttamento economico delle infrastrutture realizzate e che poi si risolvono in richieste d’indennizzi nei confronti dei governi, così svelando la vera natura di strumenti di debito (sempre rimanendo in Kenya gli esempi vanno dalla realizzazione dei porti a quello delle ferrovie): attraverso tali strumenti si potrebbero facilmente aggirare i divieti a contrarre nuovo indebitamento, che fossero posti quale condizioni delle ristrutturazioni.

Del resto la stessa vicenda greca ci ha insegnato che con l’aiuto di banche il debito può essere mascherato attraverso l’utilizzo dei derivati.

Strumenti e modalità di intervento sul debito

Quanto agli interventi, le soluzioni possono essere varie e vanno dalla creazione di fondi nei quali le rate, di fatto non tagliate ma semmai ridotte nell’ammontare e allungate nelle scadenze, sono versate per eseguire investimenti di sviluppo sostenibili (tra tali specie di soluzione rientrano i “debt for nature swap” eseguiti in alcuni paesi, dove parte del debito è stato rinunciato dai creditori per fare utilizzare i relativi importi per opere di adattamento climatico) alla rinuncia da parte dei creditori di rate in conto capitale e interessi.

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Nel caso dei tagli, un recente studio della Banque de France dal significativo titolo “From debt reset to growth onset?”, ha evidenziato che essi possono effettivamente condurre a un rilancio dell’economia della nazione che ne è beneficiaria, laddove la stessa economia si basi su forti commesse statali: la liberazione di risorse infatti conduce a maggiori ingaggi per le società private e conseguentemente allo sviluppo del prodotto interno lordo. Lo studio comunque riporta risultati positivi limitati alle negoziazioni che avvengono nel c.d. “club di Parigi”, ovvero quelle in cui si negozia il debito in capo a enti multilaterali e stati che possiedono, almeno in linea di principio, adeguati strumenti di monitoraggio e d’intervento.

Monitoraggio e sfide geopolitiche

La rinegoziazione richiede, infatti, un monitoraggio continuo e capacità di valutazione e d’intervento per assicurare che gli scopi della riduzione o rinegoziazione siano rispettati: una capacità che può essere facilmente interpretata quale ingerenza straniera (non occorre andare in Africa per conoscere il pensiero di tanti sovranisti, anche nostrani, sul tema) e dove basta un golpe per avere un completo rovesciamento delle politiche nazionali (un esempio ne è il Mali, che tra l’altro rientra tra i 46 paesi meno sviluppati, ovvero tra quelli che secondo il Piano Mattei, se fosse indebitato con l’Italia – dovrebbero avere la piena conversione del debito in piani di sviluppo).

Verso un approccio coordinato internazionale

Rimane quindi di fondo il dubbio se in effetti questi tagli diano respiro ai paesi indebitati e se e in quali termini le riconversioni in altri progetti non siano percepite come interferenze nelle scelte nazionali che sappiano di white savior (frutto del paternalismo degli ex colonialisti). A ciò si aggiunge il rischio che il riscadenzamento del debito vada ancor più ad aggravare il peso sulle future generazioni, che non godono degli investimenti già eseguiti e si trovano un pesante fardello al momento stesso della nascita.

Non solo, appare chiaro che le scelte sul debito hanno un senso se assunte all’interno di un quadro generale in cui partecipino tutte le nazioni più sviluppate con una condivisione delle scelte di fondo, che impediscano che oggi qualcuno rinunci ai propri crediti per vedere frustrata la finalità di alleviare le finanze del debitore con la concessione dal nuovo credito concesso da parte di altri, magari sotto le forme di un promettente quanto illusorio project finance.



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