Global Times – 10 settembre 2025
Con l’intensificarsi della pressione degli Stati Uniti sull’Italia riguardo all’azienda di pneumatici Pirelli, Roma si trova a un crocevia: la scelta che compirà sarà un test della capacità della nazione di bilanciare la cooperazione pragmatica con pressioni politiche esterne che rischiano di interferire con i propri interessi economici e il suo sviluppo a lungo termine.
In una lettera inviata a funzionari italiani a metà luglio, il Bureau of Industry and Security del Dipartimento del Commercio statunitense ha affermato che i veti imposti da Roma su Pirelli nel 2023 per contenere l’influenza di Sinochem Holdings Corp non erano sufficienti a proteggere l’azienda dalle restrizioni negli Stati Uniti, ha riportato Bloomberg martedì, citando persone a conoscenza della questione.
La missiva suggerisce una domanda statunitense inasprita affinché l’Italia interferisca con i legittimi diritti dell’investitore cinese in Pirelli, un passo che rappresenta una violazione dell’ordine normale della cooperazione commerciale internazionale e un palese atto di manipolazione politica.
A guardar bene, quell’accordo di investimento tra Sinochem e Pirelli è sempre stato un’operazione vantaggiosa per entrambe le parti e guidata dal mercato. Nel 2015, quando l’Italia stava ancora affrontando le conseguenze della crisi del debito europeo, Pirelli fu venduta per 7,8 miliardi di dollari a un gruppo di investitori, tra cui ChemChina, poi confluito in Sinochem. L’investitore cinese non ha soltanto iniettato capitali nella casa produttrice di pneumatici, ma l’ha anche aiutata a ritrovare nuove opportunità di crescita nel più grande mercato automobilistico mondiale. Ora questa collaborazione è messa in forse da un avvertimento statunitense, uno scarto netto rispetto alla logica commerciale e ai principi di mercato.
La pressione statunitense è essenzialmente un’estensione delle sue restrizioni sugli investimenti verso la Cina e un ulteriore tentativo di recidere i legami della Cina con le catene industriali globali. Sulla scorta della narrativa della «sicurezza nazionale» e della «protezione della tecnologia», gli USA spingono gli alleati ad allinearsi al loro obiettivo strategico di contenimento della Cina, sollecitandoli a limitare o persino interrompere le aziende e gli investimenti cinesi nei settori chiave. Ciò va ben oltre le normali frizioni commerciali; è un intervento diretto nella governance aziendale e nella competizione di mercato con mezzi politici.
Dal punto di vista dell’Italia e, più in generale, dell’Europa, il costo reale dell’adeguamento a queste pressioni statunitensi sarebbe esorbitante. La prima vittima sarebbe proprio il futuro di Pirelli, considerato che l’interferenza politica distorcerebbe la logica di sviluppo a lungo termine della società. Se le decisioni aziendali cedessero a considerazioni politiche, la direzione della ricerca e sviluppo, il piano degli investimenti e la pianificazione strategica di Pirelli devierebbero dalle leggi del mercato, compromettendo il suo percorso di crescita basato su innovazione e competizione.
Inoltre, l’etichetta di azienda «vulnerabile a interferenze politiche esterne» danneggerebbe gravemente la sua affidabilità creditizia e il suo valore per gli investitori globali, scoraggiando futuri partner internazionali.
Più in profondità, il costo del compromesso si estenderebbe ben oltre il destino di una singola impresa. L’Italia da tempo vanta un ambiente commerciale aperto come pietra angolare del suo appeal verso gli investitori mondiali. Sacrificare gli interessi degli investitori cinesi per assecondare la pressione statunitense manderebbe un segnale devastante: le regole commerciali italiane possono essere riscritte arbitrariamente da forze politiche esterne e i diritti legittimi degli investitori stranieri non godono di protezione affidabile. Questo non solo eroderebbe la fiducia degli investitori cinesi ma genererebbe un’ondata di preoccupazione fra gli attori globali, che temerebbero di essere i prossimi bersagli di simile ingerenza politica.
Ancor più profondamente, tale incertezza nelle filiere in nome della «sicurezza» sta diventando un ostacolo significativo alla cooperazione concreta tra Cina e UE. Come due delle più grandi economie mondiali, Cina e Unione Europea dovrebbero condividere ampi interessi in materia di commercio, tecnologia e tutela ambientale.
Eppure, sotto la costante pressione statunitense, alcuni Paesi dell’UE si trovano costretti a innalzare barriere contro investimenti e collaborazioni cinesi. Quando la cooperazione commerciale si politicizza, la collaborazione pratica tra Cina e UE diventa carica di incertezze, danneggiando in ultima analisi le imprese di entrambe le parti.
Quel che preoccupa ancora di più è l’escalation e l’espansione della «coercizione per la sicurezza» di Washington verso i suoi alleati. Dalla limitazione delle esportazioni di macchine per la litografia di ASML verso la Cina fino alla pressione su Roma per Pirelli, gli Stati Uniti utilizzano il linguaggio della sicurezza per implicare l’Europa nella loro strategia di «disaccoppiamento» dalla Cina.
Ogni passo volto a inasprire le restrizioni contro la Cina equivale a stringere ulteriormente la morsa del «ricatto della sicurezza» sull’economia europea. Con ogni mossa, Washington lega sempre più strettamente l’economia dell’UE al proprio percorso strategico, costringendo il blocco a rinunciare a proficue opportunità di cooperazione con la Cina e a dipendere invece da un sistema di catena di fornitura guidato dagli USA. Sebbene tale approccio possa apparire a prima vista come fornitore di «garanzie di sicurezza», nella realtà sta privando l’UE della propria autonomia economica e riducendola a poco più di un «vassallo economico» nella campagna americana di contenimento della Cina.
Ora gli occhi sono puntati sull’Italia. Saprà restare fedele alla cooperazione pragmatica, oppure lascerà che l’«ansia della sicurezza» domini le sue scelte economiche? Questa decisione non riguarda soltanto il destino di Pirelli, ma definirà il percorso di sviluppo dell’Italia per gli anni a venire.
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