La crisi della natalità continua. Secondo il demografo Alessandro Rosina il nodo è l’occupazione: “Invecchiamento della popolazione e immigrazione sono processi di cambiamento da governare”.
Le nascite continuano a calare, la fecondità resta tra le più basse d’Europa, e la popolazione è sempre più anziana. In Italia il tempo scorre, inesorabile, mentre i numeri che dovrebbero migliorare peggiorano. È un Paese che invecchia senza rigenerarsi, con effetti a catena sul lavoro, sull’economia e sul welfare. Il demografo Alessandro Rosina lancia l’allarme: siamo in un “avvitamento verso il basso” e il rischio è che il processo “diventi irreversibile”.
Nel 2023 lei diceva che avevamo 15 anni per invertire il trend delle nascite e raggiungere i livelli di fecondità di Francia e Svezia. Ora ne abbiamo 13: come stiamo andando?
Male. Continuiamo ad avere una condizione fragile all’interno di un contesto che è andato complicandosi. Negli ultimi due anni le nascite anziché invertire il trend sono andate ulteriormente a diminuire. Il numero medio di figli per donna è sceso sotto 1,2, confermandosi su livelli tra i più bassi in Europa.
Nel frattempo si è ridotta anche la fecondità nel resto d’Europa, compresa la Francia. Ma le differenze rimangono ampie. In Francia il tasso non è mai sceso sotto 1,5 figli, mentre in Italia è sotto tale soglia da oltre 40 anni. Questo sta portando ad una progressiva riduzione delle coppie italiane nell’età in cui si forma una famiglia e si hanno figli, con il rischio di ancor meno nascite e ancor meno potenziali genitori in futuro. Un continuo avvitamento verso il basso che rischia di diventare irreversibile.
L’Italia è uno dei Paesi con il più basso tasso di natalità al mondo. Quali conseguenze economiche concrete comporta una popolazione sempre più anziana e meno numerosa, soprattutto in termini di produttività e sostenibilità del welfare?
L’aumento della popolazione anziana porta ad una crescita di spesa previdenziale e sanitaria. Come potremo rispondere a tale aumento se già oggi il carico è considerato difficile da sostenere? Il rischio è di dover ridurre ulteriormente le condizioni di accesso alla pensione e alle cure sanitarie.
Dall’altro lato diminuisce la popolazione in età lavorativa, di conseguenza, rispetto agli altri Paesi, tenderemo ad avere meno crescita economica e quindi meno risorse non solo per il welfare degli anziani, ma anche per la formazione, le politiche attive, abitative e di conciliazione, fondamentali per migliorare l’occupazione giovanile e femminile.
Questo significa ancor meno crescita economica e condizioni meno favorevoli per una ripresa della natalità.
Sulle politiche per la demografia abbiamo fatto progressi? Cosa dicono i dati?
I nostri dati, in coerenza con quelli di altre ricerche nazionali e comparative internazionali, mostrano che il numero desiderato di figli è in media attorno a due. Se il numero effettivamente realizzato è molto più basso in Italia, significa che le condizioni oggettive per averli sono più deboli.
È aumentata, nelle società moderne avanzate, la necessità di una solida formazione e di politiche efficienti di incontro tra domanda e offerta di lavoro per le nuove generazioni. Se si investe meno su questi fronti, comprese le politiche familiari, prevale l’incertezza sul lavoro, sui salari e sul futuro, che blocca le scelte impegnative e responsabilizzanti che vanno oltre il presente, come l’avere un figlio.
Non basta il sostegno economico, serve un forte potenziamento strutturale che consenta alle giovani coppie di tenere positivamente assieme scelte di vita e di lavoro: servizi per l’infanzia di qualità e accessibili, part-time reversibile, congedi di paternità equivalenti a quelli di maternità per favorire la condivisione oltre alla conciliazione.
Il passaggio generazionale della ricchezza è un tema cruciale. In un Paese con sempre meno giovani, come cambiano le dinamiche del risparmio e quali rischi ci sono per l’equità tra generazioni?
I rapporti tra generazioni sono in profonda trasformazione sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Il nostro Paese ha un elevato debito pubblico ma può contare ancora su una consistente ricchezza privata. Il primo però va a carico di tutti i giovani, la seconda va a vantaggio di chi è nato in una famiglia benestante.
La famiglia come ammortizzatore sociale per i giovani è una caratteristica italiana che si è accentuata nel tempo per l’aumento dell’incertezza nella condizione dei giovani e per la riduzione, nelle famiglie, di figli e nipoti in rapporto a genitori e nonni. Ma condizionare il benessere delle nuove generazioni a quanto riceveranno nel passaggio generazionale porta a vincoli sul come e quando realizzare le proprie scelte, oltre a rendere persistenti le diseguaglianze generazionali.
In un rapporto del Cnel lei ha scritto che i giovani under 35 occupati caleranno di 2,3 milioni in 20 anni: quanto inciderà la fuga di cervelli?
L’Italia rischia di perdere ulteriormente di attrattività se non migliora la formazione, l’investimento in ricerca e sviluppo, la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni. Se non lo fa ora perderà ancor più giovani, sia perché se ne vanno e sia perché chi rimane rivede al ribasso le proprie scelte, compresa quella di avere figli.
Se non cambia nulla l’inerzia demografica ci porta verso lo scenario basso tra quelli delineati dalle previsioni Istat, che corrisponde a un flusso verso l’estero che sale a 200mila uscite l’anno, in combinazione con un saldo migratorio nullo e nascite che crollano sotto le 300mila. Lo scenario di un paese moribondo è quindi già entrato tra gli esiti possibili prospettati dall’Istat.
Che peso hanno gli stipendi in tutto questo? E che qualità della vita stiamo offrendo a chi resta in Italia?
Gli stipendi hanno un doppio impatto: oggettivo e simbolico. Dal punto di vista oggettivo è evidente per ventenni e trentenni l’esistenza di uno squilibrio sia rispetto ai cinquantenni, sia nei confronti dei coetanei degli altri Paesi con cui ci confrontiamo, a parità di competenze e tipologia di lavoro.
Questo indebolimento del reddito da lavoro dei giovani contribuisce a farli dipendere maggiormente dalle famiglie di origine e a posticipare l’autonomia e la formazione di una propria famiglia. C’è poi l’impatto simbolico legato alla percezione di non essere adeguatamente valorizzati, che incentiva a lasciare il Paese e cercare migliori opportunità all’estero.
Il fatto che in Italia i giovani siano di meno rispetto agli altri Paesi, ma anche con più bassi tassi di occupazione e con stipendi mediamente più bassi tra chi lavora, è un paradosso che va risolto prima che diventi semplicemente coerente con un percorso di basso sviluppo, bassa crescita e bassa competitività, del sistema Paese.
La diseguaglianza economica è una questione generazionale?
Sì, ma con ricadute intragenerazionali. La maggior parte dei patrimoni è nelle mani degli over 60, sia per la maggior consistenza demografica sia per maggior possibilità di accumulazione di ricchezza avuta dalle generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando l’economia cresceva e la mobilità sociale era più elevata.
La longevità porta però a far slittare sempre più in avanti il passaggio generazionale, che arriva non più quando si è giovani-adulti ma quando si è già maturi.
Nel frattempo, come abbiamo detto, le condizioni economiche delle nuove generazioni si sono indebolite, quindi il rischio di una ricchezza “bloccata”, anziché leva per l’economia e investimento per le opportunità delle nuove generazioni, c’è. Andrebbe, ad esempio, orientata la silver economy verso voci di consumo e investimento che favoriscono lo sviluppo sostenibile.
Quali settori produttivi rischiano di essere maggiormente penalizzati dalla carenza di giovani lavoratori?
Tutti i settori, sia nel settore privato che nella pubblica amministrazione, sia nel lavoro dipendente che in quello autonomo, stanno sperimentando una carenza di rinnovo generazionale.
I settori che più impiegano il lavoro straniero sono quelli che si trovano meno penalizzati, ma riguardano soprattutto lavori poco remunerati e poco appetibili per i giovani italiani. Proprio perché assorbono maggiormente manodopera immigrata questi settori riescono a mantenere bassi i costi, ma questo abbassa ulteriormente la qualità e contribuisce a rendere il Paese meno competitivo.
Solo migliorando la qualità del lavoro, in generale, l’Italia può diventare più attrattiva per i giovani, qualsiasi sia la loro provenienza, rendendoli leva strategica per lo sviluppo e mettendoli nelle condizioni di realizzare anche i loro progetti di vita.
Il modello familiare italiano è ancora centrato sul supporto intergenerazionale. Sarà per sempre così, o è un modello destinato a implodere?
La solidarietà familiare è un aspetto distintivo di valore del modello familiare dell’Europa mediterranea, Italia compresa. Il problema sta nella carenza di politiche pubbliche efficaci a supporto, con conseguente sovraccarico di costi e responsabilità sulle famiglie che faticano sempre più a gestire.
Si trovano, infatti, ad affrontare un aumento sia della domanda di aiuto da parte dei giovani lungo il loro tortuoso percorso di transizione all’età adulta, sia del numero di familiari anziani non autosufficienti necessitanti di continua cura e assistenza.
Lasciare le famiglie sole porta a rinunce e impoverimento con ovvie ricadute sull’economia e sulla coesione sociale del paese.
Ricetta per il futuro, secondo Alessandro Rosina: cosa va fatto per la sostenibilità del sistema economico e la coesione sociale?
Penso che il nodo principale da cui partire sia quello dei meccanismi di rinnovo nel mondo del lavoro. Se si investe in ciò che migliora l’ingresso delle nuove generazioni e delle donne, si ha un effetto immediato di risposta agli squilibri demografici aumentando la platea degli occupati all’interno della forza lavoro.
La maggiore occupazione, in combinazione con politiche abitative e di conciliazione tra lavoro e famiglia, favorisce la natalità e ha quindi un impatto anche di medio periodo, contenendo la riduzione della forza lavoro futura. La stessa lunghezza della vita attiva in salute comporta la necessità di un buon ingresso nel mondo del lavoro, assieme a misure di formazione continua.
In caso contrario, giovani e donne rischiano di trovarsi con una carriera contributiva debole e discontinua che aumenta il costo sociale dell’invecchiamento. Idem per l’immigrazione, che risponde ad esigenze immediate in molti settori ma, in combinazione con politiche di integrazione sociale, contribuisce al rafforzamento della base demografica.
Invecchiamento della popolazione e immigrazione non sono emergenze, ma processi di cambiamento da governare con approccio sistemico e integrato per costruire una società in cui vivere a lungo e bene in modo sostenibile.
L’articolo originale è stato pubblicato sullo Speciale ‘Giovani e Lavoro’, realizzato in collaborazione con Banca Mediolanum, del numero di Fortune Italia di settembre 2025 (numero 7, anno 8)
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link