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Cresce l’occupazione ma non la produttività: il “peso” dello skill mismatch e della dimensione d’impresa


Nei trent’anni compresi dal 1995 al 2024 la produttività del lavoro in Italia è aumentata a un ritmo medio annuo dello 0,2%, a fronte dell’1,2% della media UE27, dell’1,0% della Germania e dello 0,8% della Francia. E tra il 2022 e il 2024 – gli anni post pandemia in cui pure l’Italia ha mostrato una notevole resilienza, facendo registrare una crescita economica e un lento ma consistente aumento dell’occupazione, il dato sulla produttività è peggiorato.

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Un’ampia e interessante analisi si questa debolezza strutturale è contenuta nel primo Rapporto annuale sulla produttività 2025 elaborato dal Comitato Nazionale Produttività istituito presso il CNEL, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro presieduto da Renato Brunetta, che delinea un quadro nel quale l’espansione quantitativa del lavoro maschera un deficit di efficienza e innovazione.

Il documento, coordinato dal consigliere Carlo Altomonte, evidenzia come il Paese abbia esaurito la spinta propulsiva che tra gli anni Settanta e Novanta gli aveva permesso di convergere con i principali partner europei. Dopo una breve e parziale ripresa nel post-crisi finanziaria (2009-2014), attribuibile a un duro processo di selezione nel tessuto industriale e a una prima ondata di incentivi all’innovazione, la crescita della produttività si è nuovamente arrestata, anche nel recente periodo post-pandemico (2019-2024).

Un motore a due velocità: più posti di lavoro, meno efficienza

L’analisi del CNEL si sofferma sulla recente crescita dell’occupazione. Tra il 2022 e il 2024 l’occupazione è aumentata a un ritmo quasi doppio rispetto alla media europea, ma questa espansione si è concentrata in settori ad alta intensità di lavoro e a basso valore aggiunto, come costruzioni, ristorazione, sanità e assistenza. Un fenomeno che è il risultato di una congiuntura economica precisa: lo shock inflazionistico del 2022-2023, pur avendo eroso il potere d’acquisto, ha contenuto la dinamica salariale reale, rendendo il fattore lavoro relativamente più conveniente rispetto al capitale. Il costo d’uso del capitale, al contrario, è aumentato a causa dell’innalzamento dei tassi di interesse e del prezzo dell’energia.

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Con il costo del lavoro in calo e quello del capitale in aumento le imprese hanno privilegiato l’assunzione di personale rispetto all’acquisto di nuovi macchinari o tecnologie. Il risultato è stato un aumento dell’occupazione (+1,6% nel 2024) pagato però con una riduzione della produttività del lavoro (-0,9% per occupato nello stesso anno).

Se nel breve periodo questa dinamica ha permesso al sistema di assorbire gli shock, nel lungo periodo rischia di innescare un circolo vizioso: salari contenuti deprimono gli incentivi a investire in capitale tecnologico, frenando l’aumento di efficienza necessario a giustificare futuri aumenti salariali.

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Il doppio freno degli investimenti e delle competenze

Il cuore della questione – secondo l’analisi del CNEL – risiede nel duplice problema rappresentato dalla carenza di investimenti in capitale intangibile e dallo skill mismatch, il disallineamento tra le competenze della forza lavoro e quelle richieste dal mercato.

Sul primo punto l’Italia mostra un preoccupante ritardo negli investimenti in beni immateriali come software, ricerca e sviluppo (R&S) e capitale organizzativo. Mentre nelle principali economie avanzate, dal 2014 a oggi, gli investimenti intangibili sono cresciuti a un ritmo tre volte superiore a quelli tangibili, in Italia si è verificata la dinamica opposta. Il tasso medio annuo di crescita degli investimenti intangibili tra il 2013 e il 2023 è stato inferiore al 2,5%, a fronte del +4,7% in Francia e del +5,8% negli Stati Uniti. Di qui il dato – poco sorprendente – secondo il quale il contributo dei beni intangibili alla crescita della produttività del lavoro è inferiore di 0,4 punti percentuali all’anno rispetto alla media UE.

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Questo ritardo è strettamente connesso alla qualità del capitale umano. L’Italia soffre di una carenza strutturale di competenze digitali e tecniche. Secondo i dati dell’OCSE, solo il 16% dei lavoratori possiede competenze ICT elevate (contro il 30% circa in Germania e Francia) e appena il 15% dei laureati proviene da discipline STEM (a fronte di una media europea del 26%). Un dato che il Rapporto Annuale ISTAT 2025 collega all’invecchiamento della forza lavoro: gli over 50 rappresentano oggi oltre il 40% degli occupati.

La carenza di competenze frena la domanda di tecnologie digitali da parte delle imprese e, di conseguenza, comprime il “premio” salariale per le specializzazioni avanzate, scoraggiando l’investimento in formazione. L’analisi OCSE citata nel rapporto permette di stimare l’impatto dello skill mismatch: il disallineamento tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle richieste dalle mansioni spiega da solo il 12% del divario di produttività tra i paesi più performanti e la media.

La “trappola” dimensionale del sistema produttivo

Un altro elemento interessante che emerge dal rapporto del CNEL è che dimensione aziendale, propensione all’export, digitalizzazione e innovazione sono fattori interconnessi e determinanti per la produttività. Le imprese più grandi sono intrinsecamente più produttive: nella manifattura una grande impresa è oltre il 70% più efficiente di una media; nei servizi ICT, dove la scala amplifica i benefici del capitale intangibile, il divario è ancora più marcato.

Come ben sappiamo, la struttura produttiva italiana è estremamente frammentata. Il 94,7% delle imprese ha meno di 10 addetti, una quota che, seppur simile ad altri paesi europei, in Italia genera oltre il 41% dell’occupazione totale, quasi 10 punti sopra la media UE. L’Italia è quindi caratterizzata da una “polverizzazione” che frena la produttività aggregata, perché le microimprese investono meno, innovano con più difficoltà e partecipano solo in misura marginale alle catene globali del valore.

Tra il 2014 e il 2019 la timida riallocazione dell’occupazione verso imprese di maggiori dimensioni aveva contribuito positivamente alla produttività. Il periodo post-pandemico, però, ha visto un rallentamento di questo processo. Con l’eccezione del settore ICT, dove la digitalizzazione ha favorito le grandi aziende, negli altri comparti lo spostamento si è fermato alle medie imprese, limitando i guadagni di efficienza aggregati.

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Il divario territoriale amplifica la debolezza

Le fragilità del sistema Paese vengono amplificate dalle profonde disuguaglianze territoriali. Il Mezzogiorno sconta un ritardo di produttività che, secondo i dati OCSE-Orbis citati nel report, supera il 20% anche a parità di settore e dimensione aziendale.

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Il divario non è legato a una diversa specializzazione produttiva, ma a carenze strutturali del contesto: qualità del capitale umano, dotazione infrastrutturale, efficienza dei servizi pubblici e delle istituzioni locali.

La ripresa post-pandemica ha fatto registrare un PIL pro capite più dinamico nel Mezzogiorno (+1,5% annuo), spinto dagli investimenti del PNRR. Ma questa crescita non basta a colmare il gap accumulato. Si notano segnali incoraggianti, come l’aumento, post-pandemia, del 50% degli occupati nel settore ICT nel Sud, ma la struttura occupazionale resta sbilanciata su comparti a minore tecnologia. Le analisi a livello comunale evidenziano inoltre una forte polarizzazione, con poli urbani dinamici e aree interne a bassissima produttività, prive di economie di agglomerazione.

Le raccomandazioni di policy: un’agenda per la crescita

Il Rapporto CNEL articola anche una serie di raccomandazioni di policy, in linea con gli impegni già presi dal Governo nel Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine (PSBMT). L’agenda proposta muove su tre assi principali.

Il primo è quello relativo a competenze e investimenti. Si raccomanda di potenziare il credito d’imposta in R&S per tecnologie digitali e capitale intangibile, estendendolo in modo omogeneo a tutti i settori, e di creare un credito d’imposta per la formazione 4.0 su competenze certificate. È inoltre fondamentale rendere pienamente operativa la riforma della filiera formativa tecnologico-professionale, potenziando gli ITS Academy e il loro raccordo con i percorsi universitari STEM.

Il secondo asse riguarda la struttura del sistema produttivo. L’annunciata legge quadro sulla Piccola e Media Impresa dovrà facilitare la crescita dimensionale, semplificare la burocrazia, favorire i passaggi generazionali con gestioni manageriali e riformare la fiscalità sulle successioni per non disincentivare l’apertura del capitale. Appare inoltre fondamentale rimodulare le normative che, attraverso soglie dimensionali rigide, creano disincentivi alla crescita.

Il terzo asse è la riduzione dei divari territoriali. A strumenti che funzionano, come la ZES unica per il Mezzogiorno, devono essere affiancate politiche industriali nazionali e un potenziamento della capacità amministrativa della PA locale. Il monitoraggio sistematico degli impatti e il rafforzamento delle reti di innovazione territoriali sono poi passaggi obbligati per garantire che gli investimenti pubblici generino effetti strutturali duraturi.

Il rapporto CNEL sulla Produttività

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