Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate sui crediti d’imposta per l’energia? Questi benefici, introdotti per sostenere le imprese nei costi di gas ed elettricità, sono stati oggetto di numerosi controlli. L’Ufficio può contestarne la spettanza per mancanza di requisiti, errori di calcolo o carenze documentali, chiedendo la restituzione delle somme con sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa mirata è possibile dimostrare la correttezza del credito e tutelare l’azienda.
Quando l’Agenzia contesta i crediti d’imposta energia
– Se l’impresa non rientra tra quelle aventi diritto (imprese energivore o gasivore, requisiti soggettivi mancanti)
– Se i consumi non raggiungono le soglie minime previste dalla normativa
– Se il calcolo del credito è ritenuto errato o basato su dati incompleti
– Se manca la documentazione giustificativa (fatture di energia e gas, prospetti dei consumi, certificazioni)
– Se i crediti sono stati utilizzati in compensazione senza corretta indicazione in dichiarazione
Conseguenze della contestazione
– Recupero del credito d’imposta già utilizzato o compensato
– Applicazione di sanzioni per indebita fruizione di agevolazioni fiscali
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile esclusione da altri benefici fiscali e ulteriori controlli sull’impresa
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la spettanza del credito con documenti contabili e bollette energetiche complete
– Correggere eventuali errori di calcolo con perizie e relazioni tecniche
– Contestare valutazioni errate dell’Agenzia delle Entrate sui requisiti soggettivi o oggettivi
– Evidenziare vizi formali, difetti di motivazione o decadenza dei termini dell’accertamento
– Impugnare l’atto davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenerne l’annullamento
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la normativa applicabile e i requisiti richiesti per il credito d’imposta
– Verificare la correttezza della documentazione aziendale e delle modalità di utilizzo del credito
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi dell’accertamento fiscale
– Difendere l’impresa in giudizio contro richieste indebite
– Salvaguardare i benefici fiscali spettanti e proteggere la continuità aziendale
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento del diritto a mantenere il credito d’imposta fruito
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– La tutela degli investimenti aziendali in efficienza e costi energetici
– La certezza di usufruire degli incentivi senza aggravi fiscali ingiusti
⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Trascorso questo termine, la pretesa diventa definitiva e non sarà più possibile difendersi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e agevolazioni d’impresa – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui crediti d’imposta energia e come proteggere i tuoi diritti.
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Introduzione
I crediti d’imposta sono incentivi fiscali che consentono al contribuente di ridurre o azzerare debiti verso l’Erario. A differenza delle detrazioni (che abbattono l’imposta dovuta), i crediti d’imposta spesso possono essere compensati in F24, cioè utilizzati direttamente per pagare tributi o contributi. In Italia molti crediti fiscali sono “a fruizione automatica”: il contribuente li calcola autonomamente (in base a spese agevolabili, investimenti effettuati, ecc.) e li utilizza senza una previa approvazione formale dell’Agenzia delle Entrate. Questa procedura semplificata, pensata per favorire l’uso immediato delle agevolazioni, ha però un rovescio della medaglia: errori, abusi o frodi emergono solo a posteriori, in sede di controllo fiscale. In pratica, è il contribuente stesso a doversi assicurare di rispettare tutti i requisiti di legge quando si “autodetermina” il credito spettante; solo successivamente il Fisco potrà verificarne la legittimità.
Negli ultimi anni si è assistito a un proliferare di crediti d’imposta in ambito energetico. Da un lato i “bonus edilizi” (come Ecobonus e Superbonus 110%) hanno generato enormi crediti per interventi di riqualificazione energetica degli edifici (isolamenti, fotovoltaico, ecc.), spesso cedibili a terzi; dall’altro, per fronteggiare il caro-bollette del 2022, il legislatore ha introdotto crediti straordinari su energia elettrica, gas e carburanti a favore di imprese. Queste misure – pensate per alleggerire i costi energetici di aziende e attività produttive – avevano natura temporanea e requisiti specifici (es. percentuali di credito variabili e condizioni come l’aumento del costo dell’energia oltre un certo limite). Purtroppo, proprio l’elevato volume di benefici fiscali e la possibilità di cessione dei crediti hanno attirato comportamenti illeciti: sono emerse frodi sistemiche, con crediti fittizi creati mediante fatture false per lavori mai eseguiti. Anche senza arrivare all’ipotesi di frode, molti contribuenti hanno commesso errori formali o interpretativi nell’utilizzo di questi crediti, ritrovandosi contestati dal Fisco per crediti d’imposta “indebiti” (cioè non dovuti in tutto o in parte).
Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi avanzata ma dal taglio pratico su come difendersi di fronte a contestazioni dell’Agenzia delle Entrate relative a crediti d’imposta in ambito energetico. Ci concentreremo in particolare sui crediti legati a energia elettrica, gas, carburanti e fotovoltaico, esaminando la normativa italiana vigente, le sentenze più recenti (civili, penali tributarie, amministrative) dei giudici e gli orientamenti di prassi. Saranno illustrati i casi tipici di contestazione (ad es. crediti contestati per cessione del credito, utilizzo in compensazione oltre i limiti o documentazione incompleta), le sanzioni applicabili e le differenze tra violazioni formali e fraudolente. Inoltre, dal punto di vista del contribuente (debitore), vedremo quali strumenti di difesa mettere in campo: procedure deflative (come il ravvedimento operoso o l’adesione), ricorsi davanti alle Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie) e strategie difensive anche sul piano penale. Il tutto con un linguaggio giuridico ma chiaro e divulgativo, arricchito da tabelle riepilogative, esempi concreti, domande e risposte frequenti, per essere utile sia ai professionisti del settore (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) sia a privati e imprenditori coinvolti in queste problematiche.
Normativa e tipologie di crediti d’imposta in ambito energia
Il panorama dei crediti d’imposta legati all’energia comprende sia crediti strutturali (di carattere agevolativo generale) sia misure straordinarie introdotte in tempi recenti. Prima di addentrarci nelle contestazioni, è utile delineare brevemente quali sono i principali crediti fiscali “energetici” e le relative condizioni, perché spesso le contestazioni nascono proprio dal mancato rispetto di tali condizioni specifiche.
1. Bonus energia elettrica e gas (imprese “energivore” e non energivore, 2022-2023): nel 2022, a seguito dell’aumento eccezionale dei costi dell’energia, sono stati introdotti diversi crediti d’imposta per le imprese: ad esempio, il credito d’imposta per imprese a forte consumo di energia elettrica (“imprese energivore”) e quello per imprese non energivore, inizialmente pari a una percentuale (20-25%) della spesa elettrica del 1°-2° trimestre 2022, poi potenziati nei trimestri successivi (fino al 40-45% nell’ultimo trimestre 2022 e primo 2023). Analoghi crediti sono stati previsti per le imprese gasivore (ad alto consumo di gas naturale) e non gasivore, con percentuali simili. Un requisito fondamentale era che il costo medio per kWh (o Smc di gas) avesse subito un incremento di almeno il 30% rispetto al 2019 (per il 2022) o al 2021 (per il 2023). Questi crediti potevano essere utilizzati esclusivamente in compensazione entro date prefissate (es.: i crediti 2022 entro il 30/09/2023) e, per alcuni periodi, ne è stata consentita la cessione a terzi comunicandola all’Agenzia. Ad esempio, i crediti maturati nei mesi di ottobre-novembre 2022 (decreto Aiuti-ter) potevano essere ceduti, con obbligo di comunicare la cessione entro il 21 giugno 2023 (e utilizzo da parte del cessionario entro il 30/06/2023). In generale, i beneficiari che non utilizzavano interamente il credito energia/gas entro il 2022 dovevano inviare una comunicazione telematica all’Agenzia delle Entrate entro il 16 marzo 2023, dichiarando l’importo non ancora fruito, a pena di decadenza dal diritto residuo. La ratio di questa comunicazione era consentire un monitoraggio dei crediti rimasti: infatti, dal 17/03/2023 in poi, qualsiasi utilizzo in F24 di un credito energia oltre l’importo comunicato veniva scartato come indebito. Molte contestazioni sorgono proprio in questo ambito, ad esempio: imprese che non hanno presentato la comunicazione nei termini (perdendo il diritto al credito residuo) ma hanno comunque compensato l’importo nel 2023; oppure imprese che non soddisfacevano il requisito del +30% di aumento ma hanno fruito del credito ugualmente; o ancora errori di calcolo nella quantificazione della spesa agevolata. In questi casi, l’Agenzia delle Entrate procede al recupero del credito ritenuto non spettante, applicando sanzioni e interessi.
2. Credito d’imposta carburanti (settori agricoltura e pesca, 2022): per mitigare l’impatto del caro-carburanti, nel 2022 il Governo ha introdotto un credito d’imposta a favore delle imprese agricole, della pesca e conto terzi sull’acquisto di gasolio e benzina utilizzati per la trazione dei mezzi agricoli o dei pescherecci. Inizialmente fissato al 20% delle spese del primo trimestre 2022, è stato poi rifinanziato e prorogato (20% anche per il secondo trimestre e quarto trimestre 2022). Ad esempio, il credito carburante 4° trimestre 2022 (introdotto dal DL Aiuti-ter, art. 2) spettava nella misura del 20% della spesa di ottobre-dicembre per carburanti agricoli. Tali crediti erano utilizzabili in compensazione entro giugno 2023 (per il Q4 agricoltura) e anch’essi soggetti all’obbligo di comunicazione al 16/3/2023 se non interamente fruiti. La cessione a terzi era ammessa (con comunicazione all’AdE entro il 22 marzo 2023 per il credito agricoltura Q4). Nella pratica, alcune imprese non hanno rispettato le condizioni formali: ad esempio, hanno tentato di compensare il credito oltre la scadenza (oltre il 30/06/2023), oppure senza aver inviato la comunicazione nei termini, incorrendo così in contestazioni per credito indebitamente utilizzato. È importante notare che questi crediti sono strettamente vincolati all’utilizzo di carburante documentato da fatture: se manca la prova dell’effettivo acquisto del carburante agevolato (es. documentazione incompleta), il credito verrà disconosciuto come inesistente.
3. Bonus edilizi e fotovoltaico: in questa categoria rientrano le detrazioni e i crediti d’imposta collegati a interventi edilizi con valenza energetica, tra cui l’Ecobonus (riqualificazione energetica al 65%), il Bonus facciate (90% poi 60%) e soprattutto il Superbonus 110% (efficientamento energetico e antisismico). Queste misure, introdotte dal 2020 (DL 34/2020 e successive modifiche), hanno permesso ai beneficiari di optare, in luogo dell’uso diretto in dichiarazione, per la cessione del credito corrispondente alla detrazione o per lo sconto in fattura con successiva cessione. Il volume in gioco è stato enorme (oltre 15 miliardi di crediti ceduti risultati fraudolenti secondo stime ufficiali) e ha richiesto continui interventi normativi per prevenire abusi (visto di conformità obbligatorio, limiti alle cessioni, responsabilità in solido dei cessionari con dolo o colpa grave ex art. 121 DL 34/2020). Molte frodi sui bonus edilizi si sono basate su false fatturazioni: imprese compiacenti attestavano lavori mai eseguiti (o gonfiati oltre il reale), generando crediti “fantasma” sulla piattaforma cessioni dell’Agenzia. Ad esempio, un’indagine recente ha scoperto fittizie comunicazioni all’Agenzia delle Entrate per crediti di bonus facciate, con sovrafatturazione abnorme di interventi edilizi: il tutto per generare crediti d’imposta inesistenti per circa 9 milioni di euro, poi oggetto di sequestro preventivo. Analogamente, nel settore Superbonus il Comando GdF di Chieti ha sequestrato crediti 110% per oltre 10 milioni: alcuni lavori erano stati appena avviati o mai eseguiti, ma attraverso false attestazioni sono stati generati crediti fittizi, successivamente ceduti a terzi e in parte utilizzati in compensazione per pagare imposte. Tali condotte configurano casi da manuale di crediti inesistenti, con inevitabili conseguenze penali e fiscali. Ma non sono solo le grandi frodi a destare problemi: anche errori meno eclatanti possono portare al disconoscimento del beneficio. Si pensi a un intervento realmente effettuato ma privo di un’asseverazione tecnica obbligatoria o con abusi edilizi non sanati: in tali casi, il bonus (pur basato su spese reali) viene revocato perché manca un requisito sostanziale, divenendo un credito non spettante. Allo stesso modo, un impianto fotovoltaico installato senza rispettare le condizioni per la detrazione (ad es. pagamento non tracciato, omessa comunicazione ENEA entro i termini) espone il contribuente al recupero dell’intero bonus con sanzioni.
Come si vede da questi esempi, conoscere la disciplina specifica di ciascun credito è fondamentale: ogni bonus ha regole su beneficiari, spese ammesse, adempimenti e tempi da rispettare. L’inosservanza di anche uno solo di questi requisiti può portare l’Ufficio a contestare il credito fruito, recuperando la somma e applicando sanzioni. Bisogna dunque distinguere fin da subito la tipologia di violazione contestata: si tratta di un credito effettivamente maturato ma utilizzato in modo irregolare (irregolarità formale o utilizzo eccedente, quindi credito non spettante), oppure di un credito privo di reale fondamento (operazione fittizia o mancanza totale di requisiti, quindi credito inesistente)? Questa distinzione – come vedremo – è cruciale per capire i termini entro cui il Fisco può intervenire, le sanzioni applicabili e perfino le eventuali implicazioni penali.
Crediti d’imposta non spettanti vs inesistenti: definizioni e differenze
Nel linguaggio tributario si definisce “indebito” un credito d’imposta utilizzato senza averne diritto. Tuttavia, l’ordinamento distingue due sottocategorie di indebiti: i crediti non spettanti e i crediti inesistenti. La differenza non è solo terminologica, ma comporta effetti pratici diversi (sanzioni più o meno gravi, termini accertativi di diversa durata, rilevanza penale nei casi più seri). Per molti anni la distinzione è stata incerta e oggetto di interpretazioni discordanti. Solo di recente sia la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (fine 2023) sia il legislatore (riforma fiscale 2024) hanno chiarito i confini tra le due nozioni.
In generale: un credito d’imposta è non spettante quando esisteva nella sua configurazione di base, ma il contribuente non aveva diritto a utilizzarlo, almeno non in quella misura o modalità previste. Tipicamente, si tratta di crediti legati a operazioni reali e lecite, la cui fruizione però contrasta con qualche regola: ad esempio utilizzo oltre i limiti quantitativi o temporali previsti, oppure senza aver rispettato taluni vincoli formali necessari (invio di un modulo, apposizione di un visto di conformità, ecc.). Spesso i crediti non spettanti derivano da errori interpretativi o violazioni formali, più che da intenti fraudolenti.
Un credito è invece definito inesistente quando manca completamente il presupposto economico-legale che dovrebbe generarlo, ovvero quando il credito è stato creato artificiosamente, senza base reale. In altre parole è un credito “fittizio”, generato ad esempio con fatture false per operazioni mai avvenute, o dichiarando spese/investimenti che in realtà non sono stati sostenuti. Rientra nell’inesistente anche il caso in cui il credito poteva originariamente esistere, ma è stato già utilizzato altrove o da altri, per cui quello esposto è “aria fritta” (ad es. un credito compensato due volte, o usato da un soggetto che non era il beneficiario designato). Tradizionalmente, la normativa (art. 13 D.Lgs. 471/1997 versione ante 2023) definiva inesistente un credito privo del “presupposto costitutivo” e non riscontrabile dai controlli automatizzati. Oggi, grazie alla riforma, abbiamo definizioni di legge più ampie.
La svolta del 2023-2024: la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 34419 dell’11 dicembre 2023, ha affermato un principio di diritto poi recepito dal legislatore: in tema di compensazione di crediti d’imposta, si applica il termine lungo di 8 anni per l’accertamento quando il credito utilizzato è “inesistente”, condizione che ricorre se (a) il credito, in tutto o in parte, risulta da una rappresentazione artificiosa o è privo dei presupposti costitutivi (oppure, se pure sorto, era già estinto al momento dell’uso) e (b) tale inesistenza non è riscontrabile dai controlli formali/automatizzati. Negli altri casi, il credito indebito va considerato non spettante, con termini ordinari di accertamento (5 anni). Sulla scia di questa pronuncia, il D.Lgs. 87/2024 (attuativo della delega fiscale) ha introdotto nell’art. 1 D.Lgs. 74/2000 definizioni esplicite di crediti inesistenti e non spettanti. In sintesi, oggi la legge definisce:
- Credito inesistente: il credito privo in tutto o in parte dei requisiti oggettivi o soggettivi richiesti dalla norma agevolativa, oppure i cui requisiti siano stati integrati da rappresentazioni fraudolente (documenti falsi, simulazioni, artifici). È dunque inesistente un credito se l’operazione economica che lo dovrebbe giustificare non è mai avvenuta realmente, oppure se manca un elemento essenziale perché possa sorgere (ad es. un soggetto non rientra tra i beneficiari previsti per legge), oppure se il credito è stato creato a tavolino con atti falsi. Anche un credito formalmente “nato” può essere inesistente se al momento dell’uso era già estinto (caso non raro: crediti compensati due volte o ceduti due volte). Inoltre rientrano negli inesistenti i crediti generati direttamente in F24 senza titolo – ad esempio indicando un codice tributo di credito senza aver maturato alcunché.
- Credito non spettante: il credito utilizzato in violazione delle modalità d’uso previste, oppure in eccesso rispetto all’importo spettante. Rientrano qui i crediti fondati su spese reali ma non agevolabili secondo la disciplina, oppure i crediti che il contribuente aveva diritto a maturare ma che ha utilizzato oltre i limiti quantitativi o temporali stabiliti. Inoltre, la legge specifica che sono non spettanti i crediti utilizzati senza aver eseguito gli adempimenti amministrativi obbligatori a pena di decadenza previsti (es: omessa presentazione di una comunicazione ove richiesto espressamente a pena di perdere il bonus). Dunque, se mancano requisiti sostanziali essenziali il credito è inesistente; se invece l’irregolarità riguarda modalità di fruizione o elementi non fondamentali (ad es. un ritardo, uno sforamento di tetto, un documento tardivo non qualificato come decadenziale), si configurerà un credito non spettante.
Va evidenziato che le nuove definizioni codificano concetti già emersi in giurisprudenza. La Cassazione, con ordinanza sez. trib. n. 25018 del 17 settembre 2024, ha confermato che la distinzione legislativa del 2024 ricalca i criteri individuati dalle Sezioni Unite 2023 e pronunce successive. Queste definizioni valgono anche retroattivamente ai fini qualificatori (cioè anche per crediti riferiti ad anni passati, il giudice oggi li qualifica secondo tali criteri). Non significa però che le nuove sanzioni ridotte introdotte nel 2024 si applichino automaticamente al pregresso: su questo la Cassazione ha precisato che la natura “interpretativa” delle definizioni non comporta retroattività della riforma in melius sulle sanzioni. In pratica, in un contenzioso attuale riguardante un credito del 2020, il giudice definirà se era non spettante o inesistente secondo i parametri odierni, ma per le sanzioni potrà dover applicare la norma vigente all’epoca, salvo interventi di clemenza espressi.
Di seguito, una tabella riepilogativa mette a confronto i due tipi di credito indebito:
Caratteristica | Credito d’imposta non spettante | Credito d’imposta inesistente |
---|---|---|
Definizione semplificata | Il credito esiste nella sua base, ma il contribuente non aveva diritto a usarlo (o perde il diritto) in quella misura/modalità. C’è stata una violazione di requisiti di utilizzo: ad esempio superamento di limiti, mancato rispetto di condizioni formali o tempi previsti. | Il credito non è mai esistito realmente secondo la legge: manca il presupposto fondamentale o è stato creato con artifici fraudolenti. In pratica è un credito “fasullo” o già decaduto/consumato, privo di una base legittima. |
Esempi tipici | – Spesa reale ma non agevolabile (es. costi non rientranti tra quelli ammessi in un credito R&S) – quindi credito negato perché fuori dall’ambito normativo.<br>– Credito utilizzato oltre i limiti (oltre il tetto annuale consentito, o oltre la data di scadenza).<br>– Omissione di un adempimento obbligatorio a pena di decadenza (es. non invii una comunicazione richiesta) con conseguente perdita del diritto al credito.<br>– Utilizzo del credito in forma non consentita (es. un credito non cedibile che invece è stato ceduto: per il cessionario quel credito non gli spettava). | – Fatture false per operazioni mai avvenute, usate per generare crediti fittizi (es. crediti IVA da documenti inesistenti).<br>– Lavori edilizi mai eseguiti dietro un bonus edilizio ceduto: il credito derivato è interamente inesistente perché l’intervento non c’è stato davvero.<br>– Credito “gonfiato” con sovrafatturazioni o operazioni simulate (es. aumento fittizio dei costi per aumentare il credito).<br>– Credito effettivo ma già utilizzato altrove (un secondo utilizzo dello stesso credito = per definizione inesistente).<br>– Credito spettante a Tizio ma indebitamente fruito da Caio: per Caio quel credito non esiste (manca il requisito soggettivo). |
Presupposto del credito | Base reale presente: le spese/investimenti alla base del credito sono stati effettuati per davvero, ma il diritto a beneficiare viene meno per violazione di qualche regola (spesso formale o comunque non “essenziale” alla nascita del credito). In sostanza, il fatto generatore c’è stato, ma il bonus non spettava per come è stato fruito. | Base reale assente o invalida: l’evento che dovrebbe generare il credito non è mai accaduto nella realtà oppure manca un elemento essenziale (oggettivo/soggettivo) perché il credito potesse sorgere. Spesso c’è un intento fraudolento a monte. |
Sanzione amministrativa | 25% dell’importo indebitamente utilizzato (ridotta dal 30% nel 2023/2024). È prevista inoltre una sanzione fissa di €250 se la violazione consiste in un’omissione formale poi sanata entro i termini (es. invio tardivo di documentazione non incidente sulla sostanza). | 70% dell’importo indebitamente utilizzato (ridotta dal precedente 100% a partire dal 2024). Se però il credito inesistente è stato utilizzato mediante frode documentale o artifici, la sanzione del 70% è aumentabile da metà al doppio (fino al 140% del credito). Esempio: credito inesistente di €100.000 → sanzione base €70.000, elevabile sino a €140.000 in caso di condotta fraudolenta accertata. |
Termine di accertamento | 5 anni dal 31/12 dell’anno di utilizzo (termine “breve”). Dopo tale termine, il credito non è più recuperabile dal Fisco. Esempio: credito usato nel 2021 → atto notificabile fino al 31/12/2026. | 8 anni dal 31/12 dell’anno di utilizzo (termine “lungo”), in ragione della maggiore insidiosità dei crediti fittizi. Esempio: credito usato nel 2021 → recuperabile fino al 31/12/2029. |
Rilevanza penale | Diventa penalmente rilevante solo oltre soglia €50.000 annui di crediti indebitamente compensati. In tal caso configura il reato di indebita compensazione ex art. 10-quater comma 2 D.Lgs. 74/2000, punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni. È richiesto il dolo (consapevolezza dell’indebito). La legge prevede non punibilità penale se ricorre una obiettiva incertezza tecnica sui requisiti del credito (comma 2-bis), per evitare di criminalizzare interpretazioni dubbie in buona fede. | Oltre €50.000/anno, configura il reato di indebita compensazione ex art. 10-quater comma 1 D.Lgs. 74/2000, con pena più grave: reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni. Trattandosi di crediti fittizi, non si applica l’esimente dell’incertezza tecnica (non si può invocare buona fede su qualcosa che non esiste). Resta richiesta la volontarietà: se il contribuente ha usato un credito inesistente ma in assoluta buona fede (ingannato da terzi), potrebbe mancare l’elemento soggettivo del reato – in tal caso non vi sarà condanna penale, pur restando fermo il recupero del credito. |
Pagamento come esimente | Pagamento integrale del dovuto (imposta + interessi + sanzioni) prima dell’apertura del dibattimento penale = non punibilità del reato ex art. 13 D.Lgs. 74/2000. Questa causa estintiva vale sia per crediti non spettanti che inesistenti (è stata estesa anche al 10-quater comma 1). Inoltre, norme recenti consentono la rimessione in bonis pagando fino all’appello (possibilità di estinguere il reato pagando anche entro i termini di gravame). In ogni caso, sotto il profilo amministrativo, il pagamento spontaneo riduce le sanzioni: ad es. se si ravvede presto il contribuente può beneficiare di sanzioni ridotte fino a 1/10 o 1/8 del minimo. | |
Atteggiamento del Fisco | Spesso questi casi emergono già in sede di controlli automatizzati o formali: es. utilizzo di un importo di credito superiore a quanto dichiarato, o omessa comunicazione formale dovuta. In tali ipotesi l’Agenzia invia un avviso “bonario” al contribuente segnalando l’irregolarità e permettendo di pagare con sanzioni ridotte (generalmente a 1/3, dunque ~10% invece di 25%). Se non si paga, segue l’iscrizione a ruolo e cartella esattoriale. In altri casi più complessi, anche il credito non spettante può emergere da verifiche sostanziali in azienda; l’onere di provare la non spettanza ricade sul Fisco, che deve dimostrare ad es. che mancava un requisito o c’è stata una violazione normativa. Poi spetta al contribuente controbattere con prove contrarie. | Casi spesso scoperti con verifiche approfondite (es. controlli della Guardia di Finanza, analisi documentale o perizie tecniche). L’Agenzia deve provare la totale assenza di diritto al credito: ad es. che le fatture sono false, che i lavori dichiarati non sono stati eseguiti, ecc.. Di fronte a indizi seri di credito fittizio, l’approccio è molto rigoroso: l’AE segnala subito alla Procura per indagine penale e chiede misure cautelari (es. sequestro conservativo dei beni) per garantire il futuro recupero. Anche un cessionario incolpevole può subire il sequestro del credito inesistente acquistato, perché il bene (credito) è collegato al reato, indipendentemente dalla sua buona fede. In sostanza l’Amministrazione tende a “espungere dal circuito fiscale” i crediti inesistenti ad ogni costo, talora colpendo anche acquirenti ignari. |
Difese possibili del contribuente | – Dimostrare che, malgrado la violazione, il credito era sostanzialmente spettante: ad esempio fornendo documenti tardivi a sanatoria, invocando un’interpretazione normativa ragionevole diversa da quella del Fisco, ecc.. <br>– Sostenere che l’inosservanza riguardava elementi non essenziali e che il credito aveva comunque base reale: ciò per chiedere, se l’AE lo avesse qualificato come inesistente, una riqualificazione a “non spettante” (meno grave). <br>– Invocare la buona fede e l’incertezza normativa oggettiva: se il contribuente prova di aver interpretato in modo plausibile una norma poco chiara, può ottenere l’esclusione delle sanzioni amministrative (art. 6, co.2 D.Lgs. 472/97) e anche l’archiviazione in sede penale (mancando il dolo). | – Dimostrare che il fatto generatore in realtà c’è stato davvero, smontando l’accusa di inesistenza fattuale: es. esibire prove che i lavori contestati come fittizi sono stati eseguiti per davvero (foto cantieri, collaudi, ecc.).<br>– Se il credito esisteva parzialmente, puntare a farne riconoscere almeno la parte reale come spettante, riducendo la porzione inesistente (ad es. lavori reali ma fatture gonfiate: provare l’importo genuino).<br>– Se l’Ufficio ha classificato come “inesistente” una posizione dove invece c’è qualche riscontro reale, insistere sulla riqualificazione a “non spettante” (con vantaggi su termini e sanzioni).<br>– Buona fede del cessionario: se si è acquistato un credito poi risultato inesistente, evidenziare di aver agito con diligenza e senza indicazioni di irregolarità. La norma (art. 121 DL 34/2020) tutela il cessionario esente da dolo o colpa grave, evitando la responsabilità solidale nel pagamento. In giudizio, un cessionario totalmente in buona fede potrebbe tentare di “opporre” il credito all’Erario, sostenendo di dover conservare il beneficio se il cedente fraudolento non ha pagato. Tuttavia, la giurisprudenza penale ad oggi è sfavorevole: la Cassazione ha confermato sequestri e confische dei crediti inesistenti anche presso cessionari estranei, ritenendo che il credito inesistente non può circolare e vada eliminato, con il cessionario che potrà semmai rivalersi civilmente sul cedente truffatore. In sintesi, il cessionario in buona fede evita sanzioni e incriminazioni, ma perde il credito e subisce il recupero dell’indebito, restando con il diritto di citare il cedente per danni. |
Nota: distinguere correttamente le due categorie è determinante anche nel presentare ricorso. Ad esempio, se l’Agenzia ha notificato l’atto di recupero dopo 6 anni sostenendo che il credito era inesistente, il contribuente potrà difendersi cercando di dimostrare che invece si trattava al più di un credito non spettante (perché magari c’era una parte di attività reale). Se il giudice gli dà ragione su questo punto, l’atto potrebbe risultare tardivo (doveva essere notificato entro 5 anni) e quindi venire annullato almeno per la quota eccedente. Analogamente, qualificare in sede penale un fatto come non spettanza anziché inesistenza può ridurre sensibilmente la pena ed escludere le aggravanti.
Procedimento di recupero da parte del Fisco (art. 38-bis DPR 600/1973)
Quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che un contribuente abbia utilizzato in compensazione un credito d’imposta non dovuto (sia esso non spettante o inesistente), avvia un procedimento di controllo che può sfociare nell’emissione di un apposito atto di recupero del credito indebitamente utilizzato. Questa procedura, riorganizzata tra il 2022 e il 2024 nell’art. 38-bis del DPR 600/1973, prevede tempi e modalità ben precise. Ecco come funziona:
- Termini di notifica: l’atto di recupero deve essere notificato entro precisi termini di decadenza, diversi a seconda del tipo di credito indebito. Come visto, il termine è di 5 anni (entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di utilizzo) se il credito contestato è qualificato come non spettante, mentre sale a 8 anni se è qualificato come inesistente. Questa differenza temporale riflette la maggiore difficoltà nel scoprire i crediti fittizi, concedendo al Fisco più tempo per agire. Se l’atto arriva oltre tali termini, il contribuente potrà eccepirne la decadenza.
- Contenuto dell’atto: l’avviso di recupero deve essere motivato e indicare l’importo del credito indebitamente utilizzato, le ragioni dettagliate per cui l’Ufficio lo ritiene non spettante/inesistente, le sanzioni applicate e gli interessi dovuti. Si tratta di un atto impositivo autonomo, impugnabile davanti al giudice tributario al pari di un avviso di accertamento. Infatti, pur non essendo nominato espressamente tra gli atti impugnabili di cui all’art. 19 D.Lgs. 546/92, la giurisprudenza lo assimila agli avvisi di accertamento data la sua natura autoritativa. Il contribuente avrà 60 giorni dalla notifica per effettuare il pagamento o presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale).
- Avviso bonario e riscossione frazionata: in alcuni casi, specie quando l’irregolarità è riscontrabile direttamente da controlli automatizzati o formali (ad es. utilizzo di un credito in eccesso rispetto a quanto risultante dalla dichiarazione, oppure omessa presentazione di un modello richiesto), l’Agenzia avvia la procedura con un avviso bonario (comunicazione di irregolarità). Questo avviso invita il contribuente a pagare il dovuto con sanzioni ridotte (in genere al 10% anziché 25%, cioè 1/3 della sanzione piena). Se il contribuente non paga né fornisce chiarimenti validi entro 30 giorni, le somme vengono iscritte a ruolo e notificate tramite cartella di pagamento. Diversamente, se l’irregolarità emerge da controlli più complessi (verifiche in azienda, processi verbali GdF, ecc.), l’ufficio procede direttamente con l’atto di recupero ex art. 38-bis.
- Esecuzione forzata e misure cautelari: se l’atto di recupero non viene impugnato né pagato entro i 60 giorni, diventa definitivo e le somme dovute possono essere riscosse coattivamente (tramite iscrizione a ruolo e cartella, con eventuali fermi, ipoteche, pignoramenti). Nei casi di crediti inesistenti di importo elevato o frutto di frode, è prassi che il Fisco attivi anche misure cautelari: ad esempio può chiedere al Presidente della Corte tributaria l’autorizzazione a un sequestro conservativo dei beni del contribuente sino a concorrenza del credito contestato. Questo per evitare che, nelle more del giudizio, il patrimonio del debitore venga depauperato rendendo vana la riscossione. In parallelo, se vi sono indizi di reato (tipicamente in caso di crediti inesistenti da false fatture), l’ufficio segnala la situazione alla Procura della Repubblica per le valutazioni penali.
In sostanza, l’atto di recupero è lo strumento centrale con cui l’Amministrazione finanziaria recupera i crediti indebitamente compensati. Per il contribuente che lo riceve, è fondamentale sapere che si tratta di un atto impugnabile: non bisogna ignorarlo sperando si risolva da sé. Se non si reagisce entro 60 giorni, la pretesa diviene definitiva e arriverà la cartella esattoriale. Approfondiremo più avanti le strategie di difesa nel contenzioso tributario.
Sanzioni tributarie applicabili
Sul piano amministrativo-tributario, l’utilizzo indebito di un credito d’imposta comporta l’irrogazione di sanzioni pecuniarie proporzionali all’importo utilizzato. Tali sanzioni sono disciplinate dall’art. 13 del D.Lgs. 471/1997, recentemente modificato dal D.Lgs. 87/2024 in attuazione della delega fiscale. Oggi il quadro sanzionatorio – già anticipato nella tabella sopra – è il seguente:
- Credito inesistente: sanzione base pari al 70% del credito indebitamente compensato. Questa sanzione (comma 5 dell’art. 13 D.Lgs. 471/97) è stata ridotta dal precedente 100% a partire dal 2024, rendendo meno draconiano il trattamento degli indebiti gravi. Tuttavia, in presenza di condotte fraudolente, è prevista un’aggravante: se il credito inesistente è stato utilizzato mediante falsità o artifici (es. documenti falsi, simulazioni di operazioni), la sanzione del 70% è aumentabile dalla metà fino al doppio (quindi tra il 105% e il 140% del credito). Questa aggravante, introdotta originariamente dal D.Lgs. 158/2015 e ora trasfusa nel comma 5-bis dell’art. 13, riflette la maggiore gravità morale delle frodi organizzate. Le circostanze attenuanti generiche o l’assenza di dolo specifico non rilevano in sede amministrativa: basta l’oggettiva inesistenza del credito e l’uso di mezzi fraudolenti perché scatti il massimo.
- Credito non spettante: sanzione pari al 25% del credito indebitamente utilizzato. Anche qui, la misura è frutto di una modifica recente: fino al 2022 era il 30%, ridotto poi al 25% per allinearla alle sanzioni previste per omessi versamenti non fraudolenti. La base legale è il comma 4-bis dell’art. 13 D.Lgs. 471/97. Questa sanzione copre tutti i casi in cui il credito esisteva ma non era dovuto al contribuente (violazioni di requisiti, utilizzi eccedenti, errori). Importante: se la violazione è di natura meramente formale e il contribuente vi pone rimedio tempestivamente, la sanzione può essere ridotta ad un importo fisso minimo di €250 (comma 4-ter art. 13). Ciò avviene quando, ad esempio, il credito era sostanzialmente spettante ma il contribuente aveva omesso un adempimento formale non incidente sulla quantificazione: in tal caso, sanando l’omissione, si evita la sanzione proporzionale.
- Interessi: su qualsiasi importo di credito recuperato sono dovuti gli interessi per ritardata riscossione, calcolati dal giorno in cui il credito è stato utilizzato in compensazione fino alla data di pagamento. Il tasso è quello legale (attualmente aumentato per l’inflazione) o eventualmente un tasso maggiore se previsto da norme speciali. Ad esempio, per crediti IVA non spettanti si applicano gli interessi al tasso previsto per i tributi.
- Riduzioni per adesione o pagamento spontaneo: il contribuente ha la possibilità di ridurre la sanzione avvalendosi degli strumenti premiali previsti dallo Statuto del Contribuente. Se non intende fare ricorso e riconosce l’addebito, pagando entro 60 giorni dalla notifica dell’atto di recupero avrà diritto alla riduzione della sanzione a 1/3 (cd. acquiescenza). In alternativa, può presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio: in caso di accordo, la sanzione viene parimenti ridotta a 1/3 e si può rateizzare il dovuto. Se invece il contribuente si accorge dell’errore prima di qualunque contestazione, può effettuare un ravvedimento operoso: versando spontaneamente il credito indebito con interessi e una sanzione ridotta (da 1/10 a 1/8 del minimo, a seconda se la violazione non è ancora formale o se è iniziato un controllo). Il ravvedimento è particolarmente utile nei casi di crediti non spettanti utilizzati per errore, quando il contribuente vuole evitare il contenzioso e le possibili implicazioni penali: pagando presto, chiude la partita con una sanzione minima (ed evita anche il reato se paga tutto prima che intervenga il PM, come vedremo).
In sintesi, usare crediti non dovuti costa caro: almeno un quarto dell’importo come multa, che sale a percentuali ben più alte se il credito era fittizio. È quindi fondamentale valutare con attenzione, prima di compensare, la spettanza effettiva del credito ed eventualmente regolarizzare di propria iniziativa. Spesso, la riduzione delle sanzioni in sede di adesione o ravvedimento è condizionata all’assenza di contestazioni in corso: quindi appena si riceve un avviso bonario o un PVC, il ravvedimento pieno non è più ammesso. Agire tempestivamente in autotutela può fare la differenza.
Profili penali tributari: il reato di indebita compensazione (art. 10-quater D.Lgs. 74/2000)
Oltre alle sanzioni amministrative, l’utilizzo indebito di crediti d’imposta può comportare conseguenze penali. Il D.Lgs. 74/2000 (normativa sui reati tributari) prevede all’art. 10-quater il reato di “omesso versamento di imposte mediante indebita compensazione”. In sostanza, si punisce chi non versa tributi dovuti compensandoli con crediti d’imposta non spettanti o inesistenti, superando determinate soglie.
Le fattispecie penali sono due, corrispondenti alle due tipologie di crediti indebiti:
- Indebita compensazione di crediti inesistenti – art. 10-quater comma 1: se in un anno si compensano crediti risultati inesistenti per un importo superiore a €50.000, scatta il reato, punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni. La soglia di €50.000 annui è cumulativa per tutti i crediti inesistenti utilizzati; basta dunque anche un solo credito fittizio di importo relativamente modesto per superarla (p.es. due compensazioni da 30k l’una già integrano il reato). Questo delitto è considerato di natura fraudolenta/omissiva a elevato disvalore, poiché presuppone la creazione di un credito falso e il mancato versamento di imposte.
- Indebita compensazione di crediti non spettanti – art. 10-quater comma 2: qui la soglia è sempre €50.000 annui, ma la pena è più lieve, ossia la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Il legislatore ha distinto le due ipotesi riconoscendo che nel caso del credito non spettante (ad es. credito reale ma usato indebitamente) il disvalore è minore rispetto a un credito del tutto inesistente. In ogni caso, sotto la soglia di 50k annui l’illecito resta amministrativo (sanzioni pecuniarie), mentre oltre soglia scatta il penale.
Va sottolineato che per la configurabilità di questi reati è necessario il dolo, ossia la consapevolezza dell’indebita compensazione. Un contribuente che in buona fede utilizza un credito ritenendolo spettante – magari perché mal consigliato o per obiettiva incertezza normativa – potrà non essere ritenuto colpevole (assenza di elemento soggettivo). In particolare, dal 2019 la legge (art. 10-quater comma 2-bis) prevede espressamente la non punibilità quando il superamento della soglia di 50k con crediti non spettanti sia dovuto a condizioni di obiettiva incertezza sui requisiti del credito. Questa clausola, rafforzata dalla riforma 2024, mira a escludere il penale in situazioni “borderline” (tipico l’esempio dei crediti R&S dove la definizione di attività agevolabile era nebulosa: molti procedimenti penali per R&S sono stati archiviati riconoscendo che l’imprenditore poteva ragionevolmente ritenere spettante il credito).
Un’altra importante causa di non punibilità è quella del pagamento del debito tributario. L’art. 13 D.Lgs. 74/2000 stabilisce che, per i reati di omesso versamento (compresi dunque quelli ex art. 10-quater), il pagamento integrale di imposte, sanzioni e interessi prima dell’apertura del dibattimento penale estingue il reato. Inoltre, una modifica del 2019 ha concesso un ulteriore termine: se l’imputato paga tutto entro la discussione in Corte d’Appello, i reati di omesso versamento (incluso il 10-quater comma 1) sono estinti. In pratica, la legge offre all’imputato una via d’uscita: restituendo il maltolto all’Erario anche tardivamente, evita la condanna penale (rimangono però le sanzioni amministrative tributarie già irrogate). Ciò incentiva il recupero delle somme da parte dello Stato.
È bene ricordare che il reato di indebita compensazione è un reato di “omissione” equiparato agli omessi versamenti IVA o ritenute (artt. 10-bis e 10-ter): non si punisce una falsa rappresentazione in dichiarazione, ma il fatto di non aver versato imposte dovute usando crediti indebiti. Questo significa che, ad esempio, chi crea crediti fittizi con false fatture può rispondere anche di reati di frode fiscale (es. dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. 74/2000), oltre che di indebita compensazione se li usa per non pagare tributi. Infatti, la Cassazione ha chiarito che emettere fatture false per consentire a terzi di ottenere un credito d’imposta rientra comunque nel reato di frodi mediante fatture (art. 8 D.Lgs. 74/2000) perché finalizzato a far ottenere a terzi un indebito risparmio d’imposta. Quindi un medesimo fatto può avere più risvolti penali: esempio: Tizio produce fatture false per 1 milione generando crediti bonus edilizi, che poi Caio utilizza compensando debiti fiscali; Tizio sarà perseguibile per emissione di fatture false (art. 8), Caio per indebita compensazione (art. 10-quater), e entrambi anche per eventuali truffe ai danni dello Stato.
In caso di processo penale per crediti energetici indebitamente compensati, una strategia comune del contribuente è sfruttare la chance del pagamento integrale: molti imprenditori, una volta scoperti, provvedono a versare imposte, interessi e sanzioni amministrative per far sì che il reato venga dichiarato estinto e non intacchi la fedina penale. Naturalmente questo è possibile se si dispongono delle risorse per pagare; in caso contrario, si punterà a dimostrare l’assenza di dolo (buona fede) o l’incertezza normativa.
Da ultimo, è importante segnalare un aspetto già accennato: il trattamento del cessionario in buona fede di crediti inesistenti. Sul piano penale, il cessionario estraneo alla frode normalmente non risponde di alcun reato, mancando il dolo. Tuttavia può subire misure come il sequestro preventivo del credito acquistato, poiché – secondo la Cassazione – il credito fittizio è il profitto del reato e va sequestrato/confiscato anche se nelle mani di terzi non colpevoli. Una sentenza del 2025 (Cass. pen. sez. III n. 10400) ha annullato un sequestro per vizi formali, ma ha confermato che i crediti fittizi vanno in ogni caso bloccati e tolti dal circuito economico. Dunque il cessionario onesto, seppur non imputabile, rischia di perdere il credito e dover restituire allo Stato il vantaggio fiscale goduto, potendo solo rivalersi civilmente contro i cedenti fraudolenti. Questa severità ha suscitato dibattiti, ma per ora resta l’orientamento dominante: la buona fede evita la condanna penale ma non salva il portafoglio.
Contenzioso davanti alle Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie)
Quando il contribuente riceve un atto di recupero crediti d’imposta e ritiene che la pretesa sia infondata (totalmente o parzialmente), ha il diritto di proporre ricorso innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (che ha sostituito le Commissioni Tributarie Provinciali). Si tratta del giudice tributario, competente a vagliare la legittimità degli atti impositivi fiscali. Il contenzioso tributario offre l’opportunità di far valere le proprie ragioni in maniera indipendente rispetto all’Amministrazione finanziaria.
Procedura del ricorso: il ricorso deve essere notificato all’Agenzia delle Entrate (di norma via PEC) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato. Prima di depositarlo in segreteria, per le liti di valore fino a €50.000 è obbligatorio esperire il tentativo di conciliazione/reclamo (cioè proporre una soluzione all’ufficio); tale reclamo se respinto si trasforma in ricorso. Nel ricorso è fondamentale indicare i motivi di impugnazione, cioè i punti specifici in cui si contesta l’operato del Fisco: ad esempio, errore di qualificazione (credito in realtà spettante, oppure non inesistente ma al più non spettante), errori di calcolo, vizi procedurali (motivazione carente, notifica tardiva, ecc.), e ogni altro elemento difensivo.
Il giudizio in primo grado è principalmente documentale: significa che è essenziale allegare subito al ricorso tutte le prove documentali a sostegno. Ad esempio, se la contestazione verte sulla mancanza di un requisito, il contribuente deve produrre eventuali certificazioni, perizie, contratti, fatture a dimostrazione che invece quel requisito c’era. Il processo tributario ammette prove testimoniali solo in casi rari e non consente giuramenti; per questo la carta parla: l’esito spesso dipende dalla documentazione. Se emergono elementi nuovi dopo il ricorso, si possono ancora produrre entro 20 giorni prima dell’udienza.
Svolgimento e decisione: il ricorso viene assegnato a una sezione della Corte di Giustizia Tributaria (composta oggi da giudici togati professionali, a seguito della riforma del 2022 che ha istituito questa figura). In udienza, la causa può essere discussa oralmente, ma spesso i giudici decidono sulla base degli atti scritti. La sentenza, di regola, viene depositata entro 30 giorni dall’udienza di trattazione (anche se i tempi in concreto possono essere maggiori). Se il contribuente vince (totale o parzialmente), l’atto di recupero viene annullato per la parte riconosciuta illegittima. Se invece il ricorso viene respinto, il contribuente può appellare alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR, su base regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado.
Focus sugli aspetti probatori: nel contenzioso sui crediti d’imposta, un punto chiave è l’onere della prova. In genere, spetta all’Agenzia fornire quantomeno un principio di prova del fatto che il credito è indebito. Ad esempio, se contesta un credito R&S per spese non ammissibili, dovrà indicare quali spese e perché non rientrano. Una volta che il Fisco ha motivato la sua pretesa, spetta però al contribuente dimostrare il contrario, cioè provare la spettanza del credito. Questo principio è attenuato per i crediti inesistenti: lì il Fisco deve provare la totale assenza dei presupposti (ad esempio, portando elementi che mostrano la falsità delle fatture); fatto ciò, grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’eventuale esistenza di una base reale per confutare l’inesistenza assoluta. Se invece la contestazione è su un aspetto formale (credito non spettante per mancato adempimento), il contribuente potrà vincere mostrando di aver comunque rispettato la sostanza oppure che l’omissione era regolarizzabile senza pregiudizio (es. presentazione tardiva ma prima del controllo).
Tempi e misure cautelari: il processo tributario può durare diversi mesi (talora anni nei casi complessi, considerando anche appello e Cassazione). Nel frattempo, se le somme contestate superano €3.000, l’Agenzia può iscrivere a ruolo provvisoriamente 1/3 del dovuto dopo la sentenza di primo grado sfavorevole e 2/3 dopo la sentenza di secondo grado. Per evitare esecuzioni nel frattempo, il contribuente può chiedere alla Corte tributaria la sospensione dell’atto impugnato. Deve provare un danno grave e irreparabile derivante dall’esecuzione e la fondatezza del ricorso (fumus boni iuris). Se accordata, la sospensione ferma la riscossione fino alla sentenza. In aggiunta, come già detto, per crediti inesistenti l’AE spesso ottiene sequestri conservativi a tutela: il contribuente può impugnarli in sede tributaria o dinanzi al giudice civile, ma deve fornire garanzie alternative o confutare il fumus persecutionis.
Esiti del giudizio e “doppi binari”: se il contribuente vince in toto in via definitiva (sentenza passata in giudicato a suo favore), l’atto di recupero viene annullato e nulla è dovuto. In teoria, se l’annullamento è dovuto a motivi sostanziali (es. il giudice accerta che il credito spettava), l’Agenzia non può emettere un nuovo atto per lo stesso credito, nemmeno entro gli 8 anni. Se invece l’annullamento è per un vizio formale (es. difetto di motivazione), l’ufficio potrebbe correggere l’errore e notificare un nuovo atto, ma solo se i termini di decadenza non sono ancora scaduti. Spesso, comunque, se il Fisco perde in primo grado e i termini stringono, preferisce appellare la sentenza piuttosto che ripartire da capo con un nuovo atto. Una volta decorso il termine di 5 o 8 anni senza atti validi notificati, il credito contestato non è più perseguibile. Da notare che un giudicato tributario favorevole al contribuente (che riconosca la spettanza del credito) vincola anche il giudice penale, escludendo il reato perché “il fatto non costituisce violazione tributaria” – diversamente, un proscioglimento penale non vincola il Fisco se basato su elementi soggettivi (es. mancanza di dolo). Questo significa che le due strade (tributaria e penale) possono procedere indipendenti: un contribuente potrebbe essere assolto penalmente per carenza di dolo, ma dover comunque pagare il credito indebito sul piano tributario; viceversa, se in sede tributaria il credito viene riconosciuto legittimo, cade anche l’accusa penale (manca l’elemento oggettivo dell’indebito).
Tendenze della giurisprudenza tributaria: negli ultimi anni, le Corti tributarie hanno mostrato una certa sensibilità verso i contribuenti in buona fede, specialmente nei casi complessi (R&S, Industria 4.0, bonus Covid) dove spesso la normativa era poco chiara. Numerose sentenze di merito hanno accolto ricorsi di imprese ritenendo, ad esempio, che alcune violazioni erano formali e non giustificavano la perdita del credito, oppure che l’Amministrazione aveva carenza di competenze tecniche per giudicare l’agevolazione (es. crediti R&S valutati da funzionari senza background tecnico-scientifico). Ad esempio, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Bologna, con una sentenza del 22 ottobre 2024, ha annullato un recupero su credito R&S a favore di un’azienda, evidenziando che il progetto innovativo dell’impresa rientrava tra quelli agevolabili e che l’Agenzia non aveva apportato sufficienti elementi tecnici per negarlo. In generale, se il contribuente documenta in giudizio la realtà delle operazioni e la ragionevolezza del proprio operato, ha buone chance di successo, specie in assenza di intento fraudolento. Viceversa, nei casi di frodi conclamate (crediti completamente fittizi) le Commissioni sono inflessibili nel confermare i recuperi e le sanzioni massime.
Strategie di difesa del contribuente (profili pratici)
Passiamo ora dal piano normativo a quello operativo: cosa fare in concreto se si è destinatari di una contestazione sui crediti d’imposta energia. Di seguito vengono illustrati i passi consigliati e le possibili strategie difensive, dal momento della ricezione dell’atto fino all’eventuale giudizio.
1. Analizzare subito l’atto ricevuto: appena notificato un atto di recupero dell’Agenzia Entrate (o un avviso bonario), è fondamentale leggerlo con attenzione per capire la motivazione della contestazione. Viene contestato che il credito è “non spettante” (quindi esiste ma tu non ne avevi diritto) oppure “inesistente”? È indicato il motivo specifico: ad es. “mancata comunicazione entro il termine”, oppure “spesa non rientrante tra quelle agevolabili”, o ancora “fatture inesistenti, credito fittizio”. Identificare il punto contestato permette di orientare la difesa. Se la motivazione è poco chiara o generica, questo di per sé è un profilo di illegittimità dell’atto (vizio di motivazione) da far valere.
2. Rivolgersi a un professionista esperto: contestare un recupero fiscale richiede competenze tributarie. È quindi opportuno, prima possibile (idealmente entro pochi giorni dalla notifica), contattare un avvocato tributarista o il proprio dottore commercialista di fiducia, portando copia dell’atto. Il professionista valuterà la fondatezza della pretesa e le chance di successo di un ricorso, aiutandovi anche a evitare passi falsi (come far scadere i termini o inviare risposte improprie).
3. Raccogliere tutta la documentazione relativa al credito: mentre consultate l’esperto, cominciate a predisporre un dossier con tutti i documenti inerenti al credito contestato. Ad esempio, se è un credito energia: fatture di fornitura elettrica/gas, calcoli dell’aumento di costo, eventuali comunicazioni inviate, modelli F24 di utilizzo, normativa di riferimento; se è un bonus edilizio: computi metrici, attestati di prestazione energetica, asseverazioni, comunicazioni Enea, contratti d’appalto, fatture e pagamenti, ecc. Non date per scontato che l’Agenzia li abbia: in sede di verifica potrebbero non essere stati esibiti tutti, quindi ora è il momento di mettere in ordine le prove a vostro favore.
4. Valutare soluzioni deflative (adesione, autotutela): prima di incamminarsi nel contenzioso, si può tentare un approccio “di dialogo” con l’ufficio. Se ritenete che ci sia un evidente errore o un’incomprensione (ad es. l’atto vi contesta una comunicazione mancante, ma voi l’avevate inviata e potete provarlo), potete presentare un’istanza di autotutela all’Agenzia segnalando l’errore e chiedendo l’annullamento o la rettifica dell’atto. L’autotutela non sospende i termini di ricorso, quindi fatela subito e comunque preparate il ricorso entro 60 giorni se non ottenete risposte. Un’altra strada è l’accertamento con adesione: entro 15 giorni dalla notifica potete comunicare la volontà di aderire, il che sospende il termine di ricorso per 90 giorni. Nell’incontro con l’ufficio potrete esporre le vostre ragioni e magari ottenere un parziale sgravio. Ad esempio, se riconoscete che parte del credito non era spettante ma contestate un’altra parte, si potrebbe raggiungere un accordo pagando il dovuto per la parte certa (con sanzioni ridotte a 1/3) e annullando la restante. Nota bene: l’ufficio finanziario raramente rinuncia del tutto alla pretesa in adesione, ma può ridimensionarla o riqualificarla (p.es. da inesistente a non spettante con sanzione minore).
5. Preparare e presentare il ricorso: se la via negoziale non risolve, occorre predisporre il ricorso tributario. Questo andrà redatto con tutti i crismi di legge (indicazione delle parti, del provvedimento impugnato, dei motivi, richiesta finale) e notificato entro 60 giorni. Nella redazione, insieme al vostro difensore, articolerete i motivi di ricorso. Alcuni possibili motivi tipici in queste controversie: – Erronea qualificazione del credito: es. l’Agenzia lo ha considerato inesistente mentre era spettante (o viceversa); questo motivo punta a far cadere la pretesa per decorrenza termini o per assenza di dolo grave. – Difetto di motivazione: se l’atto non spiega adeguatamente il perché del recupero o non chiarisce gli elementi essenziali, è impugnabile per violazione di legge. – Insussistenza della violazione: dimostrare che i requisiti c’erano e il credito era dovuto (o che l’irregolarità formale non inficiava la spettanza). Questo è il merito vero e proprio. – Errori di calcolo: verificare sempre gli importi indicati dall’ufficio (interessi calcolati male, sanzioni applicate in misura sbagliata, ecc.). – Vizi procedurali: es. notifica tardiva oltre i termini, incompetenza dell’ufficio emanante, mancato contraddittorio (dove previsto), ecc.
Stendete un ricorso chiaro e strutturato, allegando in indice tutti i documenti probatori raccolti. Il ricorso va poi notificato (via PEC o tramite ufficiale giudiziario) all’indirizzo digitale dell’ufficio che ha emesso l’atto, e quindi depositato presso la Segreteria della Corte tributaria competente, con pagamento del contributo unificato dovuto (in base al valore della lite).
6. Valutare pagamenti parziali o ravvedimento per ridurre il rischio: una strategia talvolta adottata è pagare parzialmente il dovuto per la parte su cui si è in difetto evidente, contestando solo il resto. Ad esempio, se vi contestano €100k ma voi riconoscete che €30k effettivamente non erano spettanti (mentre difendete i restanti €70k), potreste versare quei €30k (magari sfruttando l’acquiescenza su quella parte con sanzione ridotta a 1/3) e fare ricorso solo per il residuo. Ciò limita anche gli interessi che maturano e dimostra buona fede al giudice. Attenzione però: pagare parzialmente senza un accordo formale con l’AE può essere interpretato dall’ufficio come acquiescenza totale se non ben specificato. È consigliabile formalizzare con l’ufficio una conciliazione parziale o un atto di adesione parziale.
7. Non perdere le scadenze e monitorare la riscossione: come ripetuto, il termine di 60 giorni per ricorrere è perentorio. Se lo mancate, l’atto diviene definitivo e dovrete pagare tutto (salvo rare ipotesi di rimessione in termini). Dunque organizzatevi per tempo. Dopo il ricorso, monitorate eventuali cartelle o fermi: se avete chiesto la sospensione al giudice e questa viene concessa, comunicatela a chi di dovere per evitare azioni di recupero nel frattempo.
8. Durante il giudizio, mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo: in udienza (o nelle memorie) evidenziate la vostra buona fede se c’è, e il fatto che avete collaborato (esibito documenti, eventualmente pagato parte, etc.). I giudici apprezzano il contribuente diligente che però rivendica i suoi diritti. Al contempo, non abbiate timore di far valere anche profili di tutela dell’affidamento: ad esempio, se avete fatto affidamento su una circolare o su un parere di un professionista, sottolineatelo per invocare l’esimente sanzionatoria dell’obiettiva incertezza.
9. Dopo la sentenza di primo grado: se vincete, ottimo (ma ricordate che l’AE potrebbe appellare); se perdete, valutate con il vostro legale l’opportunità di appellare (spesso sì, specie se ci sono margini di rivalutazione in secondo grado). Nel frattempo, potreste accedere a eventuali definizioni agevolate introdotte dal legislatore. Ad esempio, nel 2023 la “tregua fiscale” ha permesso di chiudere liti pendenti pagando percentuali ridotte, con esclusione però dei crediti “inesistenti” in molti casi. Tenete d’occhio la legge di bilancio di ogni anno: se arriva una chance di definire il contenzioso con sconto, fate i calcoli se conviene, soprattutto se l’esito è incerto.
In sintesi, difendersi efficacemente richiede tempestività, competenza e documentazione. Non fatevi prendere dal panico se ricevete un atto di recupero: quasi sempre c’è margine per ribattere, e molti contribuenti hanno avuto successo dimostrando le proprie ragioni in giudizio (specie quando la materia era complessa e la buona fede evidente). L’importante è agire subito, farsi assistere da esperti e non restare passivi.
Di seguito proponiamo una sezione in formato Domande e Risposte (FAQ) che riassume in modo mirato alcuni dei dubbi più comuni sulla materia, dal punto di vista del contribuente.
Domande Frequenti (FAQ) su crediti d’imposta energetici contestati
Domanda: Che cosa significa in concreto “credito d’imposta inesistente”?
Risposta: Un credito inesistente è un credito d’imposta che in realtà non è mai nato validamente, perché manca il fatto sostanziale che avrebbe dovuto generarlo (oppure perché è stato creato artificialmente con mezzi fraudolenti). In pratica è un credito “fantasma”. Esempi tipici: crediti generati da operazioni fittizie o documenti falsi, oppure crediti che sarebbero anche nati ma sono stati già utilizzati in precedenza (quindi non esistono più). La legge attuale (D.Lgs. 74/2000, come modificato nel 2024) lo definisce come il credito privo dei requisiti oggettivi/soggettivi richiesti dalla norma oppure ottenuto con rappresentazioni fraudolente. In parole semplici, è un credito “fasullo” – non c’è alcuna base reale o legittima che ne giustifichi l’utilizzo.
Domanda: Che differenza c’è tra un credito non spettante e uno inesistente, spiegato in parole semplici?
Risposta: Se un credito è inesistente, vuol dire che non c’è proprio: o perché l’evento economico che doveva generarlo non è mai accaduto, o perché è stato completamente inventato. Invece un credito non spettante vuol dire che il credito in sé ci sarebbe anche, ma tu contribuente non ne avevi diritto (o hai perso il diritto) per qualche ragione legale. Per chiarire: poniamo il Bonus ristrutturazioni. Caso 1 – non hai fatto alcun lavoro ma ti inventi le fatture: il credito che dichiari è inesistente (perché i lavori non sono avvenuti davvero). Caso 2 – i lavori li hai fatti davvero, però ad esempio hai presentato in ritardo una comunicazione obbligatoria (magari non a pena di decadenza, ma comunque richiesta): il credito era reale, ma diventa non spettante per quell’errore formale. Le conseguenze differiscono: l’inesistenza è considerata più grave (sanzione 70% invece di 25%, più tempo per accertarla, e penalmente comporta pene più alte).
Domanda: Quali sanzioni amministrative rischio se utilizzo un credito d’imposta non dovuto?
Risposta: Dipende dalla natura del credito indebito: – Per un credito non spettante, la sanzione è il 25% dell’importo utilizzato. (Fino a poco tempo fa era 30%, poi ridotta al 25%). In certi casi di violazioni formali sanabili, si applica invece una sanzione fissa di €250. – Per un credito inesistente, la sanzione base è il 70% dell’importo. Ma se il credito è stato fruito con frode (documenti falsi, artifizi vari), quella sanzione può salire dal 105% fino a un massimo del 140%. Quindi, ad esempio, su €10.000 di credito inesistente potresti subire una multa da €7.000 fino a €14.000 a seconda della gravità del tuo comportamento.
Naturalmente vanno poi aggiunti gli interessi sul credito indebito (che decorrono dal momento in cui l’hai usato). Ricorda che se paghi subito dopo la contestazione, hai diritto a sanzioni ridotte (in genere a 1/3). E se addirittura ti accorgi da solo dell’errore e fai un ravvedimento operoso prima che ti scoprano, puoi ridurre la sanzione fino a 1/10 o 1/8 del minimo. In sintesi, usare crediti falsi o non dovuti comporta sempre una sanzione significativa, ma più aspetti e più paghi (in tutti i sensi).
Domanda: L’utilizzo di un credito inesistente è anche un reato? Quando scatta il penale?
Risposta: Diventa reato penale (indebita compensazione) solo se la somma indebitamente compensata supera €50.000 in un anno. Sotto quella soglia, resta un illecito amministrativo. Se superi €50.000: – Con crediti inesistenti: è il reato più grave, punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni. – Con crediti non spettanti: reclusione da 6 mesi a 2 anni, soglia sempre 50k/anno.
Quindi, ad esempio, usare €100k di crediti falsi in un anno può portarti (teoricamente) a qualche anno di carcere, mentre usare €100k di crediti “dubbi” (ma reali) comporta al massimo 2 anni (spesso con pena sospesa se sei incensurato). Ricorda però: per essere condannati occorre il dolo, cioè che tu sapevi di non averne diritto. Inoltre, la legge dice che se c’era incertezza oggettiva sui requisiti del credito (tipico per i crediti non spettanti “tecnici”), non sei punibile penalmente. E soprattutto, come detto, se paghi tutto il dovuto prima del processo (meglio se prima che inizi il dibattimento) il reato viene estinto. Molti imprenditori sfruttano questa via per evitare guai penali: appena scoperti, pagano imposte, interessi e sanzioni e così si spengono le accuse (rimane la sanzione amministrativa, ma niente fedina penale sporca).
Domanda: La buona fede mi salva dal penale? Cioè, se io credevo legittimo il credito e invece non lo era, rischio comunque una condanna?
Risposta: La buona fede è fondamentale. Se davvero eri convinto di aver diritto al credito e c’erano motivi validi per crederlo, probabilmente manca proprio il dolo, quindi in sede penale potresti non essere condannato. Come accennato, per i crediti non spettanti la legge ora prevede la non punibilità se la questione era oggettivamente incerta dal punto di vista tecnico o normativo. Ad esempio, molti casi di crediti R&S sono stati archiviati penalmente perché l’imprenditore poteva ragionevolmente ritenere di averne diritto, data l’incertezza sulla definizione di “ricerca ammissibile”. Attenzione però: buona fede non significa “ero ignorante ma potevo informarmi meglio”. Devi dimostrare di aver fatto tutto il possibile per capire la norma e applicarla correttamente. Se hai preso un abbaglio grossolano che avresti potuto evitare con la normale diligenza, il giudice potrebbe dire che c’è colpa grave e quindi dolo eventuale. In sintesi: la buona fede aiuta moltissimo per evitare il penale, ma devi provarla con fatti (pareri richiesti, documenti verificati, consulenze ottenute). Nota infine che per i crediti inesistenti la buona fede soggettiva può evitarti la condanna (perché manca il dolo), ma le conseguenze economiche ti colpiscono comunque: se usi un credito che non esiste affatto – ad esempio compri un credito falso – anche se tu eri in buona fede, magari non verrai incriminato ma perdi il credito e dovrai restituirlo allo Stato.
Domanda: Cosa devo fare se ricevo un atto di recupero dall’Agenzia delle Entrate per un credito che io pensavo spettasse?
Risposta: Niente panico, ma agisci tempestivamente. In breve: – Leggi bene l’atto e individua la motivazione: contestano un aspetto formale (es. documento mancante) o sostanziale (es. non riconoscono quella spesa)? Lo qualificano come credito non spettante o inesistente? Questo ti fa capire la gravità e i termini. – Hai 60 giorni per presentare ricorso (oltre che per pagare eventualmente). Se non sei d’accordo, contatta subito un esperto (avvocato tributarista o commercialista) per impostare la difesa. Nel frattempo, raccogli tutti i documenti relativi a quel credito (fatture, calcoli, comunicazioni…). – Valuta se ci sono margini per un dialogo con l’ufficio: ad esempio, se effettivamente mancava una comunicazione e tu ormai non puoi più inviarla ufficialmente, però hai elementi per far capire che è stato un disguido, segnalalo. A volte si riesce (non sempre) a ottenere un annullamento in autotutela se dimostri che l’ufficio ha basato l’atto su un errore palese o se trovi un accordo informale. – Prepara il ricorso con l’aiuto del tuo consulente, puntando sugli eventuali errori dell’ufficio e sulle prove che il credito era dovuto. Va presentato alla Corte di Giustizia Tributaria provinciale competente entro i 60 giorni (anche via PEC). – Valuta anche se pagare in parte: se una parte della contestazione è palesemente corretta (magari hai davvero sbagliato qualcosa) e un’altra parte invece no, puoi pagare la quota che riconosci di dovere, per evitare interessi su quella e concentrare la lite sul resto. – Se decidi di non fare ricorso (perché riconosci l’errore) e paghi entro 60 giorni, avrai diritto alla riduzione della sanzione a 1/3. Però poi non potrai più contestare nulla, quindi sii sicuro al 100% di voler aderire.
In sintesi: reattività. Non ignorare l’atto pensando che “tanto avevo ragione io”: porta le tue ragioni nel luogo giusto (il giudice tributario) e nei tempi giusti. Un atto di recupero non contestato diventa definitivo e dopo 60 giorni si tradurrà in una cartella esattoriale esecutiva.
Domanda: Fino a quanti anni dopo può il Fisco contestarmi un credito d’imposta che ho utilizzato?
Risposta: Come visto, i termini di decadenza per l’accertamento sono: – 5 anni (dall’anno successivo all’utilizzo) per i crediti non spettanti. – 8 anni (dall’anno successivo all’utilizzo) per i crediti inesistenti.
Il conteggio parte dal 31 dicembre dell’anno in cui hai compensato il credito. Esempio: utilizzi un credito a giugno 2021 → se per l’Agenzia è non spettante, potrà notificare atti fino al 31/12/2026; se lo ritiene inesistente, fino al 31/12/2029. Attenzione: qui si parla di utilizzo (compensazione in F24 o detrazione in dichiarazione), non dell’anno di maturazione. Se hai maturato un credito in un anno ma non l’hai mai utilizzato, di norma non scatta alcun termine, finché non provi ad utilizzarlo. Inoltre, se per caso hai presentato documenti falsi, c’è da considerare anche la prescrizione penale (6 anni per i reati tributari, estendibili con atti interruttivi), ma ai fini amministrativi contano quei 5 o 8 anni. In pratica, trascorsi 5 anni dall’utilizzo (o 8 se credito fittizio) sei al sicuro da nuovi accertamenti su quel credito. Se però l’atto ti viene notificato entro quel termine, poi possono riscuotere anche oltre (i 5/8 anni sono per l’accertamento, non per la riscossione).
Domanda: Ho sentito parlare di “certificazioni” per i crediti R&S o simili: servono a qualcosa per evitare contestazioni?
Risposta: Sì, per crediti complessi come quelli di Ricerca & Sviluppo (o Innovazione, Design 4.0) il legislatore ha introdotto la possibilità di munirsi di una certificazione tecnico-scientifica preventiva. Con il DL 73/2022 (art. 23) è stato previsto che il contribuente può richiedere a soggetti qualificati (università, enti di ricerca) una attestazione che il progetto svolto rientra tra quelli agevolabili R&S. Se ti procuri questa certificazione e ne dai notizia all’Agenzia delle Entrate, dovresti essere al riparo da contestazioni sul merito tecnico – o quantomeno, in caso di verifica, hai una “pezza d’appoggio” forte a tuo favore. Non è una garanzia assoluta che non ti controlleranno, ma certamente presentare in difesa una certificazione di terzi esperti aiuta molto a provare la tua buona fede e la correttezza di quanto fatto. Di fatto, è meglio investire prima in una certificazione che dopo in avvocati e sanzioni. Va detto che in futuro potrebbe essere estesa questa possibilità anche ad altri crediti d’imposta tecnici. Per ora, se parliamo di crediti energetici 2022, non c’era un analogo meccanismo di certificazione (al massimo perizie sui consumi), ma l’idea generale è: se hai documentazione tecnica solida e magari il conforto di un parere esperto, sei più protetto.
Domanda: Sono un commercialista/consulente. Se ho erroneamente consigliato a un cliente che un credito spettava, e invece non spettava, posso evitare che il cliente paghi sanzioni?
Risposta: Purtroppo il cliente rimane responsabile verso il Fisco. Il rapporto tributario è suo, quindi se c’è un indebito dovrà restituire imposta e interessi, e in linea di massima anche le sanzioni. Però, in sede contenziosa, si può far presente che l’errore è avvenuto affidandosi a un professionista e a un’interpretazione plausibile. Ciò non cancella l’imposta dovuta, ma talvolta i giudici tributari – rilevando la buona fede – possono annullare o ridurre le sanzioni per errore scusabile su una norma complessa. Inoltre, il cliente potrebbe poi rivalersi civilmente sul consulente per il danno (sanzioni pagate, costi, ecc.), quindi è nell’interesse del consulente assisterlo per minimizzare le conseguenze. Conviene che il consulente prepari una memoria difensiva sottolineando che la posizione tenuta dal contribuente non era campata in aria ma basata su prassi o interpretazioni possibili, e che il cliente ha agito con diligenza facendosi assistere. Se effettivamente c’era una notevole incertezza normativa, le sanzioni devono essere escluse (art. 6, co. 2 D.Lgs. 472/97). Quindi, come consulente, il tuo obiettivo è dimostrare la buona fede e l’incertezza normativa oggettiva, per far assolvere il cliente dalle sanzioni. Dopodiché… impara dall’errore: un’assicurazione professionale copre questi rischi e prevenire è meglio che curare.
Domanda: In caso di credito inesistente ceduto, il cessionario in buona fede deve restituire il credito? Non era protetto se non ha colpa?
Risposta: Questa è una questione dibattuta e che ha creato confusione. La norma sui bonus edilizi (art. 121 DL 34/2020) dice che il cessionario risponde in solido solo se c’è dolo o colpa grave. Cioè, in teoria, il cessionario totalmente in buona fede non dovrebbe rispondere dell’indebito. Tuttavia, in pratica l’Agenzia delle Entrate tende comunque a recuperare il credito utilizzato presso il cessionario, perché dal suo punto di vista quel credito non poteva circolare – era inesistente in origine. Alcuni interpreti sostengono che il cessionario in buona fede potrebbe opporre il credito all’Erario, ovvero tenerlo buono, se davvero è senza colpa e il cedente non ha versato il dovuto (si cita una norma, art. 28-ter DL 4/2022, che darebbe uno spiraglio in tal senso). Ma siamo nel campo delle incertezze: di solito la questione finisce in contenzioso. Le sentenze finora, in sede penale, hanno detto che l’Erario può sequestrare e poi confiscare il credito inesistente anche al cessionario estraneo, perché il legame è tra il credito (che è l’oggetto del reato) e il reato stesso, indipendentemente da chi detiene quel credito. Solo se il credito fosse esistente ma non spettante (quindi non un “oggetto di reato” in senso stretto) allora il cessionario in buona fede potrebbe salvarlo, ma se è inesistente no. Di fatto, quindi, il cessionario in buona fede perde il credito e deve restituire il beneficio, potendosi rivalere solo sul cedente truffatore in sede civile. In sintesi: il cessionario onesto non verrà multato né incriminato se davvero senza colpa, ma il vantaggio fiscale ottenuto dovrà probabilmente restituirlo allo Stato, perché quel credito non sarebbe mai dovuto esistere.
Domanda: Quali sono le principali fonti normative e giurisprudenziali da conoscere in questo ambito?
Risposta: Elenchiamo i riferimenti chiave: – Art. 13 D.Lgs. 471/1997: disciplina le sanzioni amministrative per indebita compensazione di crediti. In particolare i commi 4-bis, 4-ter, 5 e 5-bis trattano rispettivamente: credito non spettante (25%), sanzione fissa €250, credito inesistente (70%) e aggravante per frode (fino al doppio). – Art. 38-bis DPR 600/1973: introdotto nel 2022/2023, regola il procedimento di recupero dei crediti d’imposta indebitamente compensati, con i termini di decadenza 5 e 8 anni di cui abbiamo parlato. – D.Lgs. 74/2000, art. 10-quater: prevede il reato di indebita compensazione, distinguendo comma 1 (crediti inesistenti >50k, pena 1,5-6 anni) e comma 2 (crediti non spettanti >50k, 6 mesi-2 anni), più comma 2-bis che è l’esimente dell’incertezza tecnica. – D.Lgs. 74/2000, art. 13: stabilisce la causa di non punibilità penale a seguito di pagamento integrale del debito tributario (comma 1 per pagamenti prima del dibattimento, comma 3 per estensione ai pagamenti entro l’appello). – Legge 212/2000 (Statuto del contribuente), art. 6 co. 2: prevede la non applicazione di sanzioni quando c’è obiettiva incertezza normativa (principio utile per difendersi evidenziando la buona fede). – Legge 130/2022: ha riformato la giustizia tributaria, istituendo le Corti di Giustizia Tributaria e prevedendo magistrati tributari professionali; è il contesto in cui si inserisce la delega fiscale 2023 (Legge 111/2023). – Legge 111/2023 (Delega fiscale 2023): ha dato i principi per la revisione delle sanzioni e la definizione dei crediti non spettanti/inesistenti, attuati dal D.Lgs. 87/2024. – D.Lgs. 87/2024: decreto attuativo della delega fiscale, ha ridefinito i concetti di credito non spettante e inesistente e modificato le sanzioni (30→25%, 100→70%, introdotto aggravante frode 140%). – Cassazione SS.UU. 11/12/2023 n. 34419 (e 34452): sentenza storica che ha distinto nettamente non spettante vs inesistente, fissando i criteri cumulativi (mancanza presupposto + non riscontrabilità) e le relative conseguenze in termini di termini accertativi e sanzioni. – Cassazione Sez. Trib. ord. 17/09/2024 n. 25018: ha confermato la natura interpretativa delle nuove definizioni 2024 e la loro applicabilità ai periodi pregressi, ribadendo la distinzione in linea con le SS.UU.. – Cassazione pen. Sez. III 2022 (varie pronunce): hanno affermato la sequestrabilità/confiscabilità dei crediti inesistenti presso cessionari terzi in buona fede, data la natura di profitto del reato (principio confermato anche nel 2023-25). – Cassazione pen. Sez. III 17/03/2025 n. 10400: ha delineato i confini del reato di emissione di fatture false ex art. 8 anche per crediti fittizi (bonus facciate) e annullato un sequestro preventivo per vizio di motivazione, evidenziando però la necessità di chiarezza nell’uso del sequestro a fini di confisca. – Giurisprudenza di merito: numerose sentenze delle Corti Tributarie (CTP/CTR, ora CGT) in tema di crediti d’imposta, ad es. CTP Bologna 22/10/2024 su credito R&S (favorevole al contribuente), CTR Lazio 2022 su credito formazione 4.0 (riconoscimento buona fede e annullamento sanzioni), ecc.
Queste fonti – normative e giurisprudenziali – rappresentano gli strumenti con cui orientarsi e difendersi nel complesso ambito dei crediti d’imposta contestati. Conoscerle o citarle nei propri atti può fare la differenza tra subire passivamente la pretesa o far valere efficacemente i propri diritti. In conclusione, la migliore difesa rimane sempre la prevenzione e la diligenza nella gestione dei crediti: ma quando l’errore (o l’accusa infondata) accade, sapere come reagire è fondamentale per tutelare la propria posizione di contribuente onesto.
Hai ricevuto una comunicazione o un avviso di recupero perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta i crediti d’imposta energia che hai utilizzato in compensazione?
Vuoi sapere quali sono i rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
I crediti d’imposta per i consumi di energia e gas naturale sono stati introdotti come sostegno alle imprese colpite dall’aumento dei costi energetici. Ma i controlli del Fisco si concentrano sulla corretta documentazione dei consumi, delle fatture e dei calcoli. Spesso le contestazioni derivano da meri errori formali o interpretazioni restrittive della normativa.
👉 Prima regola: verifica subito la congruità dei calcoli e la presenza di tutta la documentazione a supporto.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Mancanza di fatture o documenti giustificativi dei consumi;
- Errori nei calcoli delle percentuali di incremento dei costi energetici;
- Incongruenze tra i consumi dichiarati e quelli risultanti dai dati del fornitore;
- Errata individuazione del periodo di riferimento (es. trimestre di confronto sbagliato);
- Utilizzo del credito oltre i limiti temporali previsti dalla legge;
- Compensazioni non comunicate correttamente nella dichiarazione dei redditi o nel modello F24.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero del credito d’imposta ritenuto indebito;
- Sanzioni fiscali per utilizzo irregolare del credito;
- Interessi di mora sulle somme contestate;
- Possibile iscrizione a ruolo e avvio di procedure di riscossione (cartelle, fermi, ipoteche).
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Correttezza dei calcoli: hai applicato le percentuali previste dalla normativa?
- Documentazione a supporto: fatture, contratti di fornitura, dichiarazioni del gestore;
- Attestazioni e certificazioni: presenza di perizie tecniche o certificazioni richieste;
- Motivazione dell’atto: l’Agenzia deve spiegare con precisione le ragioni della contestazione;
- Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture di energia e gas del periodo di riferimento;
- Contratti di fornitura e comunicazioni del fornitore;
- Calcoli comparativi dei consumi e dei prezzi;
- Modelli F24 con cui sono stati compensati i crediti;
- Eventuali perizie tecniche o certificazioni di professionisti.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la correttezza dei calcoli presentando la documentazione completa;
- Eccepire errori formali dell’Agenzia nelle verifiche o nei confronti;
- Chiedere autotutela in caso di contestazioni manifestamente infondate;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni con possibilità di sospendere il recupero;
- Mediazione tributaria (quando obbligatoria) per ridurre sanzioni e interessi.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i calcoli effettuati dall’Agenzia e la documentazione della tua impresa;
📌 Verifica la corretta applicazione della normativa sui crediti d’imposta energia;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per contestare il recupero del credito;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura dei crediti d’imposta.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in crediti d’imposta e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in difesa delle imprese nei controlli su bonus fiscali ed energetici;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni del Fisco sui crediti d’imposta energia non sempre sono legittime: spesso derivano da errori nei calcoli o da documenti non valutati correttamente.
Con una difesa tecnica puoi dimostrare la corretta spettanza del credito, evitare la perdita del beneficio e proteggere la liquidità della tua impresa.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni sui crediti d’imposta energia inizia qui.
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