Era il 12 Settembre del 2015 quando due donne Pugliesi, e secondo la geografia Salentine, (perché il Salento finisce esattamente lungo il confine della Via Appia, da dove poi le Murge, accavallando sensualmente la loro tettonica, si alzano, e permettono di guardare verso nord un mare ondulato di rilievi collinari) si trovarono di fronte nella finale dell’ultimo Slam annuale a New York: la finale della Via Appia, tra una Tarantina e una Brindisina. Vinse Flavia Pennetta, che a quel punto pensò bene, ancora sudata e felice, di annunciare che quello era il suo ultimo torneo della carriera. Le donne danno l’esempio, e noi uomini, se siamo intelligenti, lo seguiamo. Infatti, suo marito (Fabio Fognini) appena tre mesi fa, dopo aver perso un incontro a Wimbledon, che però vale e supera una vittoria per come si è svolto l’incontro, ha fatto la stessa cosa. Ha detto addio.
Quel dodici Settembre del 2015, due italiane, inaspettatamente, si trovarono a disputare la finale dopo aver realizzato, il giorno prima, nel giro di poche ore, sempre sullo stesso campo (l’Arthur Ashe Stadium) due imprese. Flavia Pennetta aveva battuto la Romena Halep (6/1 6/3) numero due del tabellone e Roberta Vinci aveva rimontato e vinto il match (2/6 6/4 6/4) contro la campionessa in carica del torneo Serena Williams, numero uno del ranking, e soprattutto a un soffio dal realizzare un traguardo sportivo che colloca chi lo ottiene dentro il Pantheon degli immortali: il Grande Slam. Le due pugliesi, invece, sovvertirono il pronostico e andarono in finale per far vedere che nello sport, come ormai in nessun altro posto, l’imprevedibile, l’impresa, l’impossibile, sono cose che alle volte assumono il tono dell’ordinario. Di quel memorabile giorno, alla Pennetta rimane il trofeo vinto e il posto, in eterno, nell’albo d’oro di quel torneo. A Roberta Vinci, però, rimane qualche cosa forse di ancora più importante, che non avrà traccia scritta, non starà in un elenco, perché i secondi non hanno questo privilegio. La cosa più importante che Roberta Vinci rappresentò e fece, fu dimostrare che ognuno di noi appartiene a una storia e che questa ci forgia senza che nemmeno ci rendiamo conto, sino a quando arriva l’occasione per dimostrarlo. E tutto questo Roberta Vinci non lo dimostra il 12 di Settembre del 2015 ma il giorno prima, quando l’audacia e la tenacia si manifestano su un campo da tennis.
L’audacia è una razionalità visionaria, che ci fa vedere della vita lì dove essa non appare, delle esperienze inedite lì dove altri cercano solo una migliore forma pratica di ciò che già esiste. L’audace vede in una lavatrice le mani che in passato si sono bagnate al freddo dei ruscelli; in una lampada al neon le candele che hanno permesso agli occhi di scrivere, a notte fonda, lettere d’amore o testi memorabili. L’audacia rifiuta l’empirismo: non se ne cura. L’empirismo, infatti, non contempla i miracoli, ed essi, al contrario, accadono. L’empirismo, l’esattezza, la scienza, i dati, quel giorno a New York, sul Campo Centrale Arthur Ashe, si misero da parte per la vergogna. Serena Williams era ormai vicina al Grande Slam, che per essere conquistato richiede ventotto vittorie consecutive in quattro nazioni e tre continenti diversi, nell’arco di otto mesi: Australia, Europa e America. Ancora due incontri su ventotto e poi, anche lei, poteva essere un capitolo della Storia del Tennis. Solo due partite ancora da vincere, da giocare a casa, sotto lo sguardo e i cuori dei suoi connazionali contro due avversarie italiane, sempre battute: una di Taranto, con cui stava per iniziare a giocare la semifinale, e l’altra di Brindisi che si era già guadagnata la finale un’ora prima. Serena Williams in quel momento era la Regina, assoluta, senza rivali al trono. Il Grande Slam non era da conquistare ma soltanto da raccogliere. Era un fatto dovuto, e non c’erano discussioni. Le due italiane rimaste con lei erano delle semplici Dame di Compagnia e questa era una cosa che sapevano tutti tranne Roberta Vinci, venuta sin lì da Taranto, per mettere in discussione destino e certezze, numeri e realtà.
Roberta Vinci ha nel suo cognome, nelle radici tarantine, Magno Greche, Spartane, Joniche, una secolare abitudine all’Agone. E cioè a quel luogo dove per mezzo del confronto sportivo, ci si educa alla sfida umana, e alla capacità di accettare i termini di una grande impresa, quando essa nella vita si presenta e bussa alla porta. Roberta Vinci non tentò quel giorno di vincere una partita. Quel giorno il Grande Tempo degli umani, le chiese di essere lo strumento utile a dimostrare che le grandi imprese sono possibili se hanno come interpreti donne e uomini forgiate da anima agonistica. E lei semplicemente ubbidì. Perché nella vita non ci sono solo i tentativi, che a volte riescono come altre no. Per alcuni esseri umani vi sono gli appuntamenti con l’Anima del Mondo. Quel giorno la tattica era chiara:
<<Roberta, sai aspettare?>>
<<Io so bruciare mio caro Mondo>>
<<Fino alle braci?>>
<<Fino alle braci e anche di più>>
<<Allora è perfetto>>
Quel pomeriggio a New York non avvenne un miracolo ma si manifestò un atto poetico. Anche il Tennis, come l’amore, ha nel Tennis il solo argomento. Alla stessa maniera dell’amore, però, capita che un incontro non conti per il risultato in sé, ma per come sarà cantato nel futuro. Per la speranza che alimenterà. Per l’esempio che darà. Roberta Vinci allora ribaltò il Mondo, vinse, andò in finale contro Flavia Pennetta, mettendo in chiaro a chiunque che non esiste dato di fatto che gli esseri umani non possano mettere in discussione. Niente è così sia. Non lo è nemmeno la vittoria di Serena Williams a New York; ad un passo da un’eternità chiamata Grande Slam. Roberta Vinci è Tarantina e soprattutto Jonica. Esistono un Privilegio e un Colore tra le Coste Elleniche e Magno Greche. I loro nomi sono Fortuna di Jonio e Tintura di Jonio, e sono curative: per il corpo e lo sguardo. Sono le tensioni, la natura inquieta, le contraddizioni, le notizie profonde, le onde di un umore, che trasformarono un grande bacino d’acqua salata in colei che fu amata da Zeus e, ovviamente, per gelosia, perseguitata da Era. Per sfuggirle, colei che ancora non si chiamava Jonio, si mise a nuotare dentro una distesa liquida d’azzurro, ancora senza nome e senza carattere. Una bracciata dopo l’altra, quell’acqua senza destino si aprì al passare del suo corpo, e si fece di lato, allargandosi a nord sino al Golfo di Taranto e a Sud sino a Siracusa, diventando miracolosamente un Mare. Aveva un nome: Efigenia. Salvata da Artemide, che la tolse dalle grinfie di Era, dovette però cambiare il nome in Eugenia, per evitargli la condanna per decapitazione. Prima né maturò la bellezza e poi gli disse: “Vai. Ora è tempo che tutta quest’acqua, piatta e specchiante come una lastra di Onice Africano, appaia finalmente ondosa, ventosa, spumeggiante, pericolosa, giocosa, come voi esseri umani. A tutto questo, il nome che gli darai sarà Jonio. Madre, amante e figlia di questo mare, tu sarai.” Non esiste differenza tra lo Jonio e le Joniche. Lo Jonio è la realtà geografica e cardiaca con cui un’emozione fece spazio all’incanto. L’undici Settembre del 2015, si manifestò plasticamente una lezione, che in altro modo e a parole, un poeta americano aveva ricordato molti anni prima: “Se non sai combattere per le tue idee, o sono esse che non valgono nulla o sei tu che non vali niente”. Roberta Vinci non si tirò indietro, e si fece strumento della bellezza che ci coglie quando decidiamo, di fronte a una sfida impossibile, di dire eccoci! Siamo qui! Siamo pronti!
Si ringrazia l’autore Isidoro Pennisi per avermi donato il testo qui pubblicato, che costituisce un prezioso contributo al tema trattato.
Foto – Gazzetta dello Sport
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