Il 6 luglio scorso la Regione Veneto (non) ha festeggiato il compimento del suo 55° anno di attività. Nata nel 1970, in coincidenza puramente casuale con due fatti che hanno caratterizzato i decenni di successi paradossali dell’economia veneta.
Un paradosso virtuoso che oggi pone però la sua manifattura di fronte a due trappole, da tempo facilmente prevedibili, dalle quali si potrà uscire solo con una politica che è largamente nelle mani della sua classe dirigente a partire da quella politica che della Regione prenderà la guida dal prossimo novembre.
I fatti sono che il 1970 è l’anno dal quale inizia la trasformazione dell’economia mondiale da economia manifatturiera ad economia della conoscenza, mentre, in felice controtendenza, il Veneto avvia proprio allora il suo boom manifatturiero. Mentre in tutte le economie occidentali, Veneto compreso, la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil cala dal 1970 al 2024 con lo stesso ritmo annuo (negli Usa -1,36%, nella Ue -1,08%, in Italia -1,14% e in Veneto -1,17%) il Veneto, arrivato in ritardo alla testa del boom manifatturiero italiano, trasforma questo suo disallineamento temporale in una formidabile opportunità competitiva.
Il declino manifatturiero
Nonostante abbia iniziato la sua industrializzazione quando il mondo occidentale avviava la deindustrializzazione e nonostante ne segua esattamente lo stesso ritmo di declino manifatturiero il Veneto sviluppa per quattro decenni distretti industriali di successo fatti di piccole e medie imprese che condividono conoscenze, fornitori, manodopera qualificata e che reinventano produzioni a media tecnologia vincenti sui mercati europei e mondiali. Distretti marshalliani che si accontentano di sfruttare le economie di agglomerazione tra imprese simili, che non hanno bisogno di forti interazioni interindustriali con le attività di servizio innovativo.
Il modello insediativo che ne risulta e che la Regione del Veneto trova facile da assecondare è quello policentrico di esaltazione del patrimonio di città di piccole e medie dimensioni ereditate dal passato: “belle” piccole e medie imprese in “bei” piccoli e medi centri urbani. Ma oggi il manifatturiero veneto, che contribuiva per il 35% del Pil regionale nel 1970 (più del 34% della Germania), è sceso sotto il 18%. Una quota che scenderà ancora perché, preso nella “trappola della media tecnologia”, può difendersi dalla concorrenza dal basso dei paesi emergenti solo digitalizzando ed automatizzando le produzioni attuali, “sostituendo braccia con robot”.
Una nuova politica industriale
Naturalmente può anche uscire dalla trappola dall’alto scalando le produzioni innovative e ad alta tecnologia, che sono tutte produzioni ad alta intensità di conoscenza. Ma questo comporta il passaggio radicale a un nuovo modello produttivo, rivoluzionario rispetto a quello del felice paradosso del piccolo è bello. Come mettere la nuova manifattura, quella digitalmente ibridata, in condizione di affiancarsi alle produzioni di nuovi servizi digitali, è esattamente il contenuto della politica (industriale) alla quale dovrà contribuire la Regione del Veneto che verrà.
Una politica industriale tutta nuova, che dovrà soprattutto occuparsi del mare magnum dei servizi. Tra questi quelli – i servizi turistici—che da tempo stanno rendendo meno doloroso il processo di deindustrializzazione regionale e quelli ad alta intensità di conoscenza che decideranno della prosperità del Veneto di domani.
Il turismo non è il motore del Veneto futuro
Il turismo dà già oggi un contributo rilevante al valore aggiunto regionale: almeno un 15%, di poco inferiore a quello della manifattura. Ma non può essere la soluzione strutturale. Esso crea occupazione, ma è occupazione a bassa qualificazione, dipende da fattori esterni imprevedibili (il turismo in tempi di Covid 19 non è stato ancora cancellato dalla nostra memoria) e pone problemi non risolti di eccesso di pressione (overtourism) sulle destinazioni più prestigiose, da Venezia alle Dolomiti.
Il turismo è una risorsa preziosa, tanto più in questo periodo di transizione, ma non può essere il motore del futuro del Veneto. Il vero futuro veneto sta nella neoindustria ibrida, dove l’esperienza manifatturiera può sposarsi con l’innovazione digitale, e nella produzione dei nuovi servizi digitali, nei settori ad alta intensità di conoscenza che potranno compensare la forza lavoro espulsa dalla manifattura automatizzata. Ma per sviluppare questi settori serve una massa critica di competenze, infrastrutture digitali, servizi avanzati che solo un grande aggregato metropolitano può offrire.
Il policentrismo è un vincolo
Se la trappola della media tecnologia rischia di schiacciarci tra i paesi emergenti che dominano le tecnologie mature con costi imbattibili ed economie avanzate che controllano le innovazioni, il Veneto deve liberarsi anche dalla trappola della media dimensione urbana. Il policentrismo, risorsa nell’era industriale che si sta chiudendo, ora è un vincolo.
L’economia della conoscenza richiede economie di agglomerazione jacobsiane – varietà settoriale, fertilizzazione incrociata, serendipità – che solo i grandi aggregati metropolitani sanno generare. Il Veneto ha bisogno di un aggregato metropolitano funzionale di rango inferiore solo a Milano e Roma. Ha bisogno di far interagire quotidianamente Venezia, Mestre, Padova, Treviso, Castelfranco Veneto come quartieri di un’unica città estesa, connessa con il mondo dalle porte venete del porto, dell’aeroporto, e di nuove infrastrutture digitali.
Il tempo stringe. Mentre il turismo fa da cuscinetto e la manifattura si automatizza serve una strategia regionale coraggiosa che elimini le trappole della media tecnologia e della media città. La Regione nata nel 1970 deve avere il coraggio di riconoscere che il modello di sviluppo che ha gestito da allora ha esaurito il suo compito. Quello nuovo è invece nelle sue mani. —
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