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i dati e la roadmap


Mancano meno di cinque anni al traguardo del 2030 fissato dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) e un anno alla scadenza del PNRR per sfruttare i 16,3 miliardi di euro che restano da investire nella transizione. Il tempo, insomma, stringe e il percorso verso la decarbonizzazione mostra ritardi strutturali. Del tema – con uno sguardo contemporaneamente pragmatico e orientato al futuro – si occupa il rapporto strategico “Lo stato della transizione energetica in Italia: principi e policy per garantire sicurezza e competitività”, realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Edison.

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L’analisi evidenzia la necessità di un approccio sistemico che superi le rigidità ideologiche, integrando le rinnovabili con soluzioni strategiche come il nuovo nucleare e la cattura della CO2 (CCS) per garantire al Paese sostenibilità, sicurezza, resilienza e competitività.

In Italia si decarbonizza solo perché si deindustrializza

I dati emersi dallo studio non lasciano spazio a interpretazioni. Secondo l’Energy Transition Indicator di TEHA, l’Italia è in linea con gli obiettivi al 2030 solo per il 30% dei Key Performance Indicator analizzati.

Si registrano ritardi superiori ai 10 anni in ambiti chiave come la generazione da fonti rinnovabili (FER) e lo sviluppo dei sistemi di accumulo su scala industriale. Se per la riduzione delle emissioni nei settori ETS (Emission Trading System) la traiettoria appare quasi allineata (con una riduzione stimata al 2030 del 64% contro un target del 66%), il dato è viziato da una contrazione della produzione industriale del 51% tra il 2005 e il 2024. In sostanza, si sta assistendo a una “decarbonizzazione per deindustrializzazione”, come sottolineato nel rapporto.

Il fotovoltaico italiano? Costa più del 20% rispetto a quello degli altri Paesi europei

Il vero tallone d’Achille resta lo sviluppo delle rinnovabili. L’Italia sconta extra-costi sistemici che rendono i progetti fotovoltaici “Ready to Build” oltre il 20% più costosi rispetto alla media di Francia, Germania e Spagna. Nonostante il Belpaese possa vantare condizioni naturali più favorevoli, come un irraggiamento solare superiore. Perché? I fattori critici sono molteplici: iter autorizzativi che bloccano oltre 1.700 progetti presso il MASE, una governance territoriale frammentata (il recente caso del Decreto Aree Idonee, bocciato dal TAR, è emblematico) e un modello di connessione alla rete “on-demand” che ha generato una congestione di 355 GW di richieste, concentrate per il 65% in Puglia, Sicilia e Sardegna.

La visione programmatica: un mix tecnologico per la sicurezza e la competitività

Di fronte a questo scenario, il rapporto propone una roadmap al 2050 basata su quattro principi:

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  1. Sviluppo sinergico tra tecnologie mature e a rapido dispiegamento (fotovoltaico, eolico onshore, batterie, pompaggi idroelettrici) e soluzioni strategiche di lungo termine (eolico offshore, nucleare, CCS).
  2. Costruzione di un mix ottimale basato su criteri di efficacia, costi complessivi di sistema, resilienza e benefici industriali per il Paese.
  3. Monitoraggio e ricalibratura triennale delle priorità.
  4. Bilanciamento tra incentivi all’offerta e stimolo alla domanda.

L’obiettivo è passare da una logica emergenziale a una di politica industriale ed energetica di lungo respiro. La produzione elettrica italiana è destinata quasi a raddoppiare entro il 2050, passando dagli attuali 264 TWh a circa 470-520 TWh. In questo scenario fotovoltaico ed eolico copriranno circa il 71% della generazione, ma per garantire stabilità e programmabilità il rapporto assegna un ruolo fondamentale a tecnologie come il nuovo nucleare (10%) e il termoelettrico con CCS, la Carbon Capture and Storage (7%).

Il ruolo strategico dei pompaggi idroelettrici

Prima di guardare alle tecnologie di frontiera, lo studio sottolinea l’importanza di un asset strategico nazionale già disponibile: i pompaggi idroelettrici. A differenza delle batterie, limitate all’accumulo di breve durata e dipendenti da materie prime critiche, i pompaggi offrono stoccaggio di medio-lungo periodo, inerzia meccanica naturale per la stabilità della rete e una filiera industriale italiana consolidata. La valorizzazione degli invasi esistenti, soprattutto nel Mezzogiorno, potrebbe sbloccare una potenza fino a 13,6 GW, attivando investimenti per 37 miliardi di euro e generando un impatto economico complessivo di quasi 110 miliardi, contribuendo al contempo alla sicurezza idrica.

Nucleare di nuova generazione e CCS non si possono più rimandare

Il rapporto affronta con pragmatismo il tema del nuovo nucleare, basato su reattori modulari di piccola taglia (SMR, Small Modular Reactor, e AMR, Advanced Modular Reactor). L’inserimento del nucleare nel PNIEC e l’adesione dell’Italia all’Alleanza Europea sul Nucleare a giugno 2025 segnano un cambio di passo. Sfruttando le competenze di una filiera nazionale che conta 70 aziende specializzate, lo sviluppo di questa tecnologia potrebbe generare un valore aggiunto fino a 50 miliardi di euro entro il 2050. La proposta è di partecipare a una partnership europea per lo sviluppo tecnologico e il co-investimento nelle infrastrutture del ciclo del combustibile, garantendo così sovranità energetica e benefici industriali.

La Carbon Capture & Storage (CCS) viene invece identificata come strumento essenziale per decarbonizzare i settori hard-to-abate (cemento, chimica, acciaio) e per mantenere operativo il parco termoelettrico a garanzia della flessibilità del sistema. Mentre Paesi come la Germania hanno puntato su strategie nazionali per gestire le emissioni industriali “inevitabili” e la Danimarca istituisce un fondo dedicato da 2,1 miliardi di euro, l’Italia può fare leva su progetti pionieristici come quello di Ravenna CCS. L’iniziativa, già operativa nella sua Fase 1, prevede la cattura di 25.000 tonnellate di CO₂ all’anno da un impianto di trattamento del gas, con l’obiettivo di raggiungere i 4 milioni di tonnellate annue entro il 2030 (Fase 2) e di creare un hub per lo stoccaggio al servizio delle industrie del Mediterraneo, sfruttando giacimenti offshore con una capacità di oltre 500 milioni di tonnellate. Lo sviluppo di una filiera nazionale integrata, secondo le stime, potrebbe produrre fino a 30 miliardi di euro di valore aggiunto al 2050.

Una politica industriale per le produzioni green

L’attuazione di questa visione energetica sarebbe un vero e proprio fattore abilitante anche per la competitività dell’industria, in particolare quella energivora, che genera circa 50 miliardi di euro di valore aggiunto.

Prendiamo ad esempio il caso dell’acciaio: l’Italia è leader in Europa nella produzione da forno elettrico (84% del totale nazionale contro una media UE del 44%), una tecnologia a minore intensità emissiva. Un sistema energetico che offre elettricità decarbonizzata a costi stabili e competitivi trasformerebbe questo posizionamento in un vantaggio strategico per creare un hub italiano dell’acciaio green. Ma perché questo si avveri serve – dicono gli analisti – un riequilibrio delle policy: oggi infatti il 90% dei sostegni pubblici al settore finanzia l’offerta tecnologica, trascurando lo stimolo alla domanda, essenziale per rendere sostenibili gli investimenti.

La transizione energetica per l’Italia, insomma, è una grande opportunità di politica industriale. Il messaggio dello studio è che serve una visione pragmatica, neutrale dal punto di vista tecnologico e orientata alla competitività, capace di combinare tutte le soluzioni disponibili per costruire un sistema energetico sicuro, sostenibile e motore di sviluppo economico.

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