In una ormai sterminata pubblicistica sui problemi creati dal travolgente sviluppo dell’industria turistica, questo libro-inchiesta di Cristina Nadotti si distingue nettamente per il tentativo (riuscito) di dar conto della complessità dei problemi, approfondendo i diversi aspetti con argomentazioni fondate su verifiche fattuali. Lo testimonia anche il lucido rifiuto di ricorrere all’abusato termine overtourism di cui l’autrice coglie la “fortuna nella comunicazione”, ma anche l’evidente “superficialità per definire un fenomeno articolato e complesso”.
Il libro offre dunque una sequenza di capitoli focalizzati su ciascuna delle questioni rilevanti nel ridefinire criticamente (come suggerisce lo stesso titolo del volume) il contributo del turismo allo sviluppo economico. Meritano in particolare di essere segnalati alcuni approfondimenti, come quelli sulla dimensione ambientale dell’impatto del turismo, sulla relazione con il cambiamento climatico e sulla questione del lavoro. Per ognuno dei temi proposti le argomentazioni sono sempre precise e chiaramente esposte, supportate da dati e integrate dalle opinioni di esperti autorevoli. Non me ne vorranno i miei colleghi accademici se dico che questa è una lettura ottima anche per i nostri studenti, da raccomandare ed utilizzare come testo nei nostri corsi (come per altro farò io stesso).
Eppure, a fronte della grande ricchezza di argomentazioni e di idee, al termine della lettura si rimane con una sensazione di incompiutezza, come di un puzzle ricomposto solo parzialmente, e ciò riguarda soprattutto la dimensione prescrittiva, il “che fare”. L’autrice non nasconde certamente i fallimenti di una politica del turismo che ha cavalcato l’onda della crescita, con una drammatica pochezza di riflessione strategica ed un’enfasi ossessiva sulle attività promozionali, spesso frutto di una compiacente subordinazione a questo o a quell’interesse economico. Tuttavia si ripropone con molta insistenza un’esigenza di programmazione, che la stessa autrice ammette essere complicata, non ultimo per la fragilità ed ambiguità dei riferimenti operativi, a cominciare dalla misurazione della “capacità di carico” turistico di un territorio. “Però se vogliamo vivere di turismo, questa è l’unica strada che può essere intrapresa”. Ne siamo proprio sicuri?
In realtà, la stessa analisi suggerisce, anche grazie a molti esempi narrati, che esistono spazi per interventi meno ambiziosi e più pragmatici e puntuali, oltre che più efficaci nei tempi ravvicinati che la gravità di certe situazioni ci impone. Nota l’autrice che “il fenomeno turistico viene quasi sempre trattato nel dibattito politico e nella comunicazione in termini quantitativi concentrandosi prevalentemente sui numeri, su come ridurre o aumentare le presenze, raramente su come aumentare le capacità e le risorse dei territori per gestire meglio in termini qualitativi queste diminuzioni o aumenti”. Ed uno degli intervistati sintetizza efficacemente che “ci vorrebbe un po’ di creatività” piuttosto che “reazioni muscolari”.
La Creatività richiederebbe però, nel pubblico come nel privato, una diversa qualità delle risorse umane, senza la quale è difficile – come sostiene anche l’autrice – la costruzione di un’offerta innovativa, capace di realizzare e valorizzare strategie sostenibili. Si richiederebbe quindi uno sforzo specifico di ripensamento delle scuole alberghiere, ma soprattutto un impegno più maturo delle università, ben al di là della proliferazione di “master”, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Sono temi tuttavia su cui le politiche, nazionali e regionali, restano sostanzialmente assenti. Per il turismo, diversamente che per altri settori, il focus sull’innovazione è lungi dall’essersi affermato. I rapporti con i centri di ricerca sono inesistenti o del tutto occasionali e il sistema degli incentivi, spesso condizione necessaria per gli investimenti delle nostre piccole e medie imprese, privilegia contributi “a pioggia” piuttosto che progettualità di sistema. Le politiche del turismo continuano a promuovere l’esistente molto più che disegnare un futuro possibile.
In effetti, molto ci sarebbe da dire e da studiare non solo sulle policies, ma sulla politics del turismo in Italia. Nel libro non mancano spunti in tal senso. Si pensi ad esempio alla responsabilità che gruppi sociali di residenti hanno avuto in uno sviluppo immobiliare realizzato “in modo forsennato”, salvo poi dolersi delle conseguenze.
L’autrice è consapevole che molte delle questioni che sono esacerbate dallo sviluppo turistico, come tipicamente quella abitativa, hanno radici più profonde, responsabilità politiche più ampie e cause in carenze preesistenti, che il turismo aggrava, ma non crea. Se guardiamo al caro affitti, allo svuotamento dei centri storici, ai disservizi dei trasporti pubblici etc, la narrazione oggi di moda (è colpa dell’overtourism) potrebbe bene essere rovesciata in quella di un Paese che non ha le infrastrutture adeguate a reggere i flussi turistici: un Paese che non è vittima del “turismo di massa”, ma che, più banalmente, il turismo dei grandi numeri non se lo può permettere a causa delle proprie inadeguatezze. Invece proprio il turismo potrebbe essere stimolo decisivo alla modernizzazione dei servizi, allo sviluppo infrastrutturale e persino alla tutela ambientale, come l’autrice ci segnala più volte.
Tuttavia sarebbe importante spiegare per quali meccanismi nel dibattito pubblico si converga così facilmente sul grande alibi dell’overtourism, che è diventata la spiegazione di tutti i mali: dall’inquinamento al traffico, dal caro affitti all’assenza di servizi al cittadino nei centri storici, dai blackout elettrici all’affollamento dei reparti ospedalieri di pronto soccorso e – di recente – persino del ritorno della scabbia. Un alibi comodo, di cui però gli stessi politici che lo praticano si dimenticano il giorno dopo, quando difendono la valorizzazione di immobili pubblici consegnati all’investimento alberghiero o immobiliare di lusso o quando ingaggiano battaglie epocali per l’ampliamento dell’aeroporto locale (magari sovvenzionando proprio le compagnie low cost).
Il vero motivo di criticità di questo libro sta forse più nella dimensione economica dell’analisi. Ridurre la stima della percentuale del PIL nazionale attribuibile al turismo dal 13 al 6% non serve a diminuirne l’importanza, ma soprattutto non serve a comprendere il suo ruolo nell’economia nazionale, innanzi tutto perché dietro quelle medie ci sono livelli di rilevanza dell’economia turistica assai diversi su scala regionale e locale, ma soprattutto perché il PIL è solo un indicatore rozzo delle dinamiche di un’economia, come sappiamo da tempo. Il turismo ha infatti molte esternalità negative, ben approfondite nel libro e di cui tenere conto, così come ha molte esternalità positive, che nel libro non ricevono, come forse dovrebbero, una discussione sistematica.
L’autrice insiste poi molto nell’affermare che il turismo è un’industria “estrattiva”. A parte la fastidiosa assonanza con quella colossale sciocchezza che è la definizione del turismo come “petrolio d’Italia”, questa lettura del turismo disconosce, concettualmente ed eticamente, quanto di creatività imprenditoriale, di innovazione anche tecnologica, di sincero amore per il territorio e di cultura si ritrovi oggi nelle espressioni migliori dell’offerta turistica. Si tratta di ormai tante e belle esperienze di una economia del visitatore finalmente matura, non di inspiegate, occasionali eccezioni.
Altrettanto parziale è il vedere nel turismo un’espressione, anzi forse l’espressione precipua del consumismo contemporaneo. Ovviamente nessuno nega che nel consumo turistico vi siano aspetti di brutale omologazione e deprimente volgarità, ma persino lo shopping tourism può essere molto di più di un mero acquisto di merci. Quando il turismo è consumismo, la responsabilità non è dei turisti, massificati, ignoranti, ossessionati dal selfie e irrispettosi delle culture locali. Il turismo è un’industria governata dall’offerta più che dalla domanda. Noi abbiamo i turisti a cui la nostra offerta di esperienze si rivolge, con ciò che ci sta dietro in termini di scelte imprenditoriali, di marketing territoriale e di strategie (e non-strategie) di sviluppo. La polemica sul consumismo è utile a nascondere le nostre vere responsabilità: abbiamo i turisti che ci meritiamo.
È lecito a questo punto domandarsi in che rapporto stia l’analisi sviluppata nel libro con le perentorie affermazioni contenute nella prefazione di Ferdinando Cotugno: “il turismo è la destinazione finale del capitalismo e rappresenta il suo nodo più ostinato […] Mettere in discussione il turismo significa mettere in discussione molto più del turismo […] Il turismo è diventato […] un’ideologia tossica […] ci sono delle alternative sostenibili che però funzioneranno solo dentro un modello di società diverso”. La razionalità delle argomentazioni è vista dal prefatore come un’arma, certo più efficace delle pistole ad acqua di Barcellona, ma ugualmente funzionale ad esprimere da parte dei movimenti anti-turistici la loro “emozione dominante”: la “rabbia”.
Al recensore quella razionalità sembra invece suggerire una ben altra direzione, quella di un turismo che nella sua concretezza quotidiana, anche quando tratta grandi flussi di visitatori, può e deve essere governato e reso sostenibile. È una sostenibilità possibile, hic et nunc, e doverosa, perché in gioco c’è certo il futuro delle comunità ospitanti, ma anche – non ultimo, per quanto dimenticato – il diritto al viaggio. È questo un diritto incondizionato, inclusivo e non riservato alle élites (qualcuno dice addirittura “diritto umano”), che definisce l’essenza di una società libera ed aperta e che è forse l’ultima grande eredità positiva della globalizzazione in un mondo che la sta smontando pezzo per pezzo, economicamente, politicamente e culturalmente, anche con l’aiuto simbolico di qualche grottesca pistola ad acqua. Ed è per questo che il recensore, per pregiudizio radicalmente opposto a quello del prefatore, in questa indagine attenta e ancorata ai fatti si riconosce e ne raccomanda la lettura.
ABSTRACT
Cristina Nadotti’s investigative book on tourism stands out within the vast literature on the sector for its clarity, factual grounding, and refusal to rely on the catch-all term overtourism. Instead, it unpacks the complexity of tourism’s economic, environmental, and social impacts, ranging from climate change to labor, from housing pressures to cultural commodification. The review highlights the book’s strengths—lucid argumentation, expert insights, and critical distance from dominant narratives—while also noting its limits, especially in offering prescriptive solutions. Nadotti portrays tourism as a deeply ambivalent force: a driver of environmental strain and social tension, yet also a potential catalyst for modernization, sustainability, and cultural innovation. The book resists ideological simplifications, challenging both celebratory and condemnatory views of tourism.
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