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Energia: le contromosse di Trump spiazzano l’Europa?


Lo scorso 28 luglio Stati Uniti ed Unione Europea hanno raggiunto un’intesa commerciale, dopo mesi di tira e molla, dazi e minacce da parte del Presidente Donald Trump. Dentro l’accordo, si fa riferimento all’impegno, da parte UE, di acquistare in tre anni circa $750 miliardi di prodotti energetici americani, tra cui gas, petrolio, con un vago riferimento al nucleare (probabilmente uranio, o investimenti sui reattori di nuova generazione, anche se per il combustibile gli USA sono importatori netti). Ad ogni modo, l’energia entra a gamba tesa nel plasmare le relazioni transatlantiche, seppur vi siano dubbi su quanto questi numeri siano effettivamente concretizzabili.

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Il peso specifico del GNL americano nelle relazioni transatlantiche

Sin dal suo insediamento, il Presidente americano Donald Trump ha puntato con forza a rinvigorire la posizione degli Stati Uniti sui mercati energetici mondiali. Solo nel 2024, gli USA hanno esportato circa il 30% della loro produzione primaria di energia, raggiugendo livelli record rispetto a poco più di un decennio fa. Ma è soprattutto facendo leva sulla massiccia capacità di produzione/export (ad oggi, pari a circa 17 miliardi di piedi cubi (billion cubic feet, Bcf) al giorno e distribuiti tra gli otto terminali attualmente operativi e situati sulla costa orientale tra l’Atlantico e il Golfo del Messico) di gas naturale liquefatto (GNL). Una capacità che potrebbe raddoppiare entro il 2028 secondo le stime dell’US Energy Information Administration.

L’Executive Order varato lo scorso gennaio è stato il primo, decisivo passo per utilizzare l’energia come leva geopolitica, approfittando soprattutto della congiuntura di mercato (in seguito all’invasione russa dell’Ucraina del 2022) che aveva già permesso ai produttori americani di sostituire, in parte, il fabbisogno europeo di gas proveniente dalla Russia, contribuendo così alla sicurezza energetica del continente. Tuttavia, con l’arrivo di Trump – il suo predecessore, Joe Biden, aveva in parte messo una moratoria all’export di GNL su pressione dei gruppi ambientalisti americani e tra i sostenitori del suo piano climatico, e industriale, varato con l’Inflation Reduction Act (IRA) – il peso crescente del GNL americano nel mix energetico europeo è entrato a gamba tesa nella più ampia disputa commerciale con Bruxelles.

Figura 1 – GNL americano vs import UE

Nel 2019, l’Unione Europea aveva già accresciuto l’import di gas ma soltanto 18 di questi proveniva dagli impianti situati negli Stati Uniti. All’epoca, ancora due terzi dell’importazione di gas proveniva da infrastrutture fisiche, i gasdotti, di cui l’80% circa dalla Russia. Questa dinamica di mercato è rimasta sostanzialmente invariata nel corso dei due anni successivi, con una leggera moderazione, per poi essere completamente sovrastata da nuovi imperativi, legati alla diversificazione delle forniture in seguito alla guerra con il REPowerEU.  La fornitura di gas russo all’Europa sarebbe in seguito diminuita da un picco di 179miliardi di metri cubi (Bcm) nel 2019 a 142 Bcm nel 2021, prima di registrare un drastico calo a soli 31 Bcm lo scorso anno: lo stop al transito di gas dall’Ucraina a partire dal 1 gennaio di quest’anno rappresenta un ulteriore conferma di questo trend, che potrebbe chiudersi con un definitivo ban al gas russo dal 2027 su proposta della Commissione europea. Con il contributo delle nuove forniture dal fianco sud e dall’accresciuta capacità dei rigassificatori in Europa, ad oggi il GNL rappresenta circa il 35% delle forniture, con una quota maggioritaria detenuta dalle aziende americane come Cheniere Energy o Venture Global tramite contratti a lungo termine.

Figura 2 – Forniture di gas all’UE per regione o vettore

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A più di tre anni dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, i dati al 2024 sostanzialmente ci raccontano tre conseguenze principali: 1) gli acquisti di gas europei da gasdotti sono crollati a metà rispetto ai livelli del 2019, con il contributo della Russia ridotto ad un quarto; 2) le importazioni di GNL sono cresciuti considerevolmente, con le spedizioni dagli USA arrivati a contare quasi per metà del totale; 3) con l’aumento del mercato europeo, il peso degli Stati Uniti è complessivamente accresciuto rispetto a Qatar e Australia, con un evidente aumento del pricing power (soprattutto nella stipula di Sales and Purchase Agreements– SPA a lungo termine e di indicizzazione sull’Henry Hub rispetto alla piattaforma TTF). Da mercato residuale, l’UE è diventata un acquirente strutturale di GNL dagli USA in seguito alle necessità di sicurezza energetica nel breve termine per svincolarsi dalla Russia. Tuttavia, questo repentino cambio di forniture ha avuto effetti evidenti per l’UE, da allora pienamente esposta alla volatilità dei prezzi spot per via delle dinamiche di domanda-offerta a livello globale. Rincorrere la sicurezza ha avuto il suo price premium: dal 2025, il benchmark europeo del gas (TTF) è circa il doppio rispetto ai livelli pre-crisi, con una crescita nel 2024 del 59% da 30 a 48 €/MWh che ha spinto i prezzi dell’elettricità ben al di sopra di Cina e Stati Uniti.

Se la diversificazione ha finito per rafforzare ancora di più le relazioni energetiche transatlantiche (la stessa Ursula von der Leyen a gennaio di quest’anno aveva paventato l’idea di rimpiazzare la quota GNL russa con quella americana), dall’altra questo maggior peso del gas americano ha offerto a Trump l’occasione di una carta negoziale che nel suo primo mandato non aveva avuto a disposizione nella sua “guerra” commerciale. Nella possibile ottica di Trump, questa leva per condizionare il principale partner sulle priorità energetiche e climatiche potrebbe produrre l’effetto indiretto di allontanarlo dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla sua influenza, in termini industriali e tecnologici, sulle rinnovabili che rappresentano l’ossatura del Green Deal così come era stato immaginato ormai sei anni fa.

Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, l’accordo raggiunto sull’energia rappresenta una cifra enorme, probabilmente irrealistica rispetto ai flussi energetici USA-UE degli scorsi anni e alle proiezioni più realistiche. Nel breve termine, non preoccupano i livelli di stoccaggio (90% entro il 1° novembre di ogni anno) proposti nel 2022 con la Gas Storage Regulation ed estesi al 2027: negli ultimi anni sono stati raggiunti, mentre l’attuale congiuntura vede addirittura un parziale rilassamento rispetto alla corsa post-crisi russo-ucraina. 

In secondo luogo, vi è da considerare che strutturalmente la domanda di gas in Europa è in declino: del 13% nel 2022, 7% del 2023, con l’Associazione dei Regolatori dell’energia europei che ha stimato che il continente potrebbe aver già raggiunto il picco della domanda annuale di GNL già lo scorso anno, trainata dagli ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione. A queste condizioni, è molto difficile che il mercato UE possa strutturalmente assorbire volumi in eccesso in un lasso di tempo così ristretto come previsto dall’accordo, nonostante il relativo aumento degli acquisti nella prima parte del 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024. È inoltre improbabile che la maggiore disponibilità di GNL possa alterare o stimolare significativamente la domanda, soprattutto dai consumi industriali. Altri stime di mercato, invece, ritengono che una maggior offerta di gas americano possa influenzare positivamente i prezzi europei (TTF), con una discesa del 9%.

Con i volumi in gioco nell’accordo, questo difficilmente potrebbe avere effetti macroeconomici significativi. Nel complesso, l’UE ha già pagato €225 miliardi di dollari in importazioni di GNL negli ultimi tre anni, inclusi circa €100 miliardi solo per le forniture americane secondo i dati Eurostat. Assumendo che le importazioni dagli altri Paesi rimangano invariate, significherebbe più che triplicare i flussi dagli USA non solo per il GNL (raggiungere l’obiettivo significherebbe agire anche sugli acquisti sul mercato spot, ancor più volatile, su cui è negoziato attualmente tra il 10 e il 20% dell’export americano), ma con l’intento di sostituirsi anche al petrolio russo secondo il comunicato stampa della Commissione. Rimanendo solo sul GNL, basti pensare che due terminali USA entrati in piena operatività di recente – Plaquemines LNG e l’espansione di Corpus Christi LNG – hanno una capacità combinata di 27.1 miliardi di metri cubi, circa il 58% in più rispetto a quanto l’UE ha importato dalla Russia nel 2024. Numeri che sembrano certificare quanto l’UE rischi un’esposizione forse troppo accentuata rispetto alle reali esigenze energetiche del continente. Soprattutto se le scelte su investimenti, politiche climatiche ed energia, tra le due sponde, inizieranno a seguire percorsi radicalmente differenti.

Figura 3 – Spesa UE per le importazioni di GNL

Uno sgambetto “green” all’Europa?

In questo senso, l’amministrazione Trump ha dato già dimostrazione di quanto voglia – economicamente e politicamente – sbarazzarsi del retaggio della Presidenza Biden e della sua virata sulle rinnovabili con l’IRA, oltre ad aver assestato alcuni “sgambetti” all’UE proprio nel settore. Tra le ultime mosse, Trump ha preso di mira uno dei pochi player consolidati, con il blocco delle autorizzazioni per il completamento del progetto eolico offshore della società danese Ørsted A/S che attualmente aveva in commissione due parchi eolici a largo delle coste del Rhode Island e di New York. L’ordine, arrivato tramite l’US Bureau of Ocean Energy Management (BOEM) – un’agenzia del Dipartimento degli Interni americano, guidato dal repubblicano Doug Burgum, al centro del rilancio energetico americano – segue un ordine esecutivo per una moratoria (che ricalca quella precedente di Biden sul GNL) sui progetti eolici negli Stati Uniti, in attesa di revisione federale. Un’altra dimostrazione di come l’energia sia sempre più politicizzata all’interno del sistema americano, considerato che poche ore prima il primo ministro danese aveva fatto visita al governatore della California, dichiarato oppositore di Trump.

Il progetto Revolution Wind, completo all’80% tra fondamenta e turbine installate (65 in totale), avrebbe avuto una capacità di circa 704 MW (circa la potenza per fornire elettricità a circa 350.000 abitazioni), di proprietà congiunta tra Ørsted e da Global Infrastructure Partners (GIP), fondo d’investimento americano. Secondo le stime dell’azienda, il costo complessivo del progetto si aggirerebbe intorno ai 5-6 miliardi di euro, con evidenti ripercussioni sulle prospettive di ritorno dall’investimento per la società qualora il blocco non venisse revocato. Ørsted è certamente tra i principali attori mondiali nel segmento eolico: detiene circa il 25% del mercato dei progetti eolici offshore, in concorrenza con la danese Vestas e i giganti dell’eolico cinesi, con parchi già realizzati e operativi tra Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Danimarca, Olanda e Taiwan per oltre 10 GW di potenza installata. La mossa del governo americano, tramite il BOEM, ha fatto crollare le azioni della società parzialmente controllata dal governo danese: non è da escludere che si tratti di un’ulteriore pressione di Trump verso Copenaghen e la dichiarata intenzione di annettere la Groenlandia, territorio “vergine” e ricco di alcune materie prime critiche a cui gli Stati Uniti vorrebbero accedere nel tentativo di ridurre la dipendenza dalla Cina. 

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Tuttavia, se si tratta di schermaglie (geo)politiche veicolate tramite il settore dell’energia, non deve sfuggire anche un importante sviluppo che riguarda invece il settore delle batterie. La statunitense Lythen (azienda specializzata nello sviluppo, R&D, di batterie al litio-zolfo) ha annunciato di aver rilevato gli asset della start-up europea Northvolt, che ha dichiarato bancarotta lo scorso inverno. Si tratta, nel complesso, degli impianti realizzati (16 GWh) e in costruzione (15 GWh) per la manifattura di batterie elettriche localizzati in Svezia e Germania, per un valore di $5 miliardi. Destinata e poi caduta di fronte al peso di dover essere il simbolo dell’autonomia tecnologica europea e la risposta concreta al dominio cinese e coreano, le linee produttive di Northvolt saranno così di proprietà americana. Resta da capire quanto la nuova proprietà possa rilanciare gli impianti della start-up svedese, a partire dal 2028 secondo le stime del CEO Dan Cook, nell’ottica di servire e convincere gli automakers europei. Soprattutto perché l’expertise dell’azienda risiede in una chimica delle batterie lontana commercialmente da quanto necessitano i brand europei (NCM, LFP) e sulla quale il vantaggio tecno-industriale cinese è ampio.

Ad ogni modo, a prescindere dai piani aziendali, il significato di questa acquisizione riflette una sempre più netta divergenza e squilibrio con USA e Cina, con l’Europa che rischia di rimanere schiacciata dalla “sovracapacità energetica”, rispettivamente fossile ed elettrica, che le due potenze sembrano voler far pesare per orientare le scelte del Vecchio Continente, capitalizzando in termini economici ma anche di leva geopolitica.



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