Con la sua Sgr ha guidato investimenti in brand di grande successo come Golden Goose, TwinSet, Sundek, Autry. Dice: «L’epoca del fashion addict è finita, il consumatore non è più disposto a pagare prezzi ingiustificati»
Roberta Benaglia è un’investitrice di lungo corso. Ingegnere gestionale, fondatrice e ceo di Style Capital, ha una visione oggettiva del sistema moda. Dice: «L’epoca del fashion addict è finita. Il consumatore è più informato, selettivo. È disposto a pagare per una qualità vera e distintiva, non per sovrapprezzi ingiustificati».
Significa che la stagione dei conglomerati del lusso, i multimarca come Lvmh e Kering che ora perdono profitti, è cambiata? In parte sì. «Il consumatore cerca meno il prodotto blasonato e più quello di nicchia. Ora che i brand del lusso sono diventati inaccessibili si è aperto uno spazio importante per le rising star del lusso consapevole». Le stelle nascenti che Benaglia cerca. Ha guidato investimenti come Golden Goose, TwinSet, Sundek.
Ora la sua Style Capital ha 500 milioni in dotazione con due fondi e otto aziende partecipate. L’imprenditrice è appena volata a Tokyo per presentare la nuova collezione delle scarpe Autry che Style ha in portafoglio, quelle indossate anche da Kevin Costner. È il marchio veneziano che sogna di diventare un unicorno (un miliardo di dollari di valore).
«Lanciamo la collezione di sneaker Broken Something, (qualcosa di rotto, ndr.) con lo stilista Mihara Yasuhiro. Il suo marchio d’avanguardia si unisce a quello pulito e senza tempo di Autry», nota Benaglia. La collaborazione ha debuttato in passerella a Parigi a gennaio, durante la fashion week uomo.
L’azienda ha aperto quest’anno tre monomarca fra Londra e Parigi, ne aprirà un altro a Milano in ottobre. Ha chiuso l’anno fiscale 2023-2024 con 124 milioni di ricavi e vuole arrivare a 148 quest’anno. Il caso rivela il nuovo corso del lusso.
Cambi di paradigma
Che cosa sta succedendo nel mondo della moda? Girandole di direttori creativi, nuovi amministratori delegati, utili perlopiù in calo…
«Tre fenomeni. Innanzitutto c’è stato un cambio di paradigma legato al consumatore. Prima i brand del lusso facevano affidamento sulla sua resilienza, sul fatto che esistesse una curva dei consumi indipendente dai prezzi. Si adagiavano sul fatto che, a fronte di un aumento dei costi industriali, bastasse alzare i prezzi. Invece il consumatore è diventato più attento. Anche alla qualità intrinseca del prodotto, che con la ricerca della marginalità a tutti costi era diventata meno rilevante».
Secondo problema?
«L’Asia. La Cina era l’altra colonna portante del lusso: un mercato bulimico, con il consumatore disposto a comperare quasi di tutto a qualunque prezzo. Qui c’è stato il grande dietrofront. Il consumatore cinese ha risposto al diktat governativo di acquistare prodotti locali, a essere meno ostentativo, a fronte di un’economia che rallenta. Questo ha disorientato i brand».
C’è anche un effetto dazi?
«Questa è la terza complessità. Il lusso si è trovato a passare da un mercato aperto a uno con delle barriere. Di fronte a consumatori europei e asiatici meno propensi alla spesa, tutti puntavano sull’America, ma ora c’è il vincolo del dazio. La concatenazione di questi tre fenomeni ha portato al rallentamento dei fatturati e alla compressione dei margini. Le aziende del lusso si sono trovate di fronte a un nemico mai visto: la disaffezione del consumatore. Questo ha condotto a una riorganizzazione manageriale e creativa».
I direttori creativi però a volte sono gli stessi che passano da una maison all’altra, un giro di star…
«Ogni caso è a sé, certo in questo momento d’incertezza varrebbe la pena puntare su nomi nuovi, su una nuova creatività. Ma a volte nelle fasi di difficoltà si tende a fare scelte conservative per paura del rischio».
Il mercato e le previsioni
Che aziende ci sono sul mercato?
«Per comperare è un buon momento, ma non ci sono tanti deal. Nelle fasi di contrazione i piani industriali sono meno ambiziosi e questo porta a una riduzione di valore, i multipli impliciti sono in calo. Difficile che un fondo voglia vendere i propri asset. Inoltre le aziende hanno bisogno di essere sostenute con aumenti di capitale. Il private equity è andato ai ripari con i continuation fund, prolungando la permanenza nelle imprese. Strumento virtuoso se l’azienda è interessante».
Voi che cosa state guardando?
«Aziende più grandi che in passato, fra i 50 e i 100 milioni di fatturato, in Europa e anche in America. Ma dobbiamo essere selettivi. Conta che il brand sia scalabile sia nello sviluppo internazionale sia nel retail, che abbia un’identità forte. Noi potremmo chiudere due o tre deal entro il 2026».
Lei è nel board della Camera della moda. Che cosa pensa delle filiere italiane acquistate da altri Paesi?
«Le filiere sono in difficoltà e vanno salvaguardate. Serve una formula di sostegno governativo perché non diventino obiettivo di acquisizioni straniere, per preservare le competenze del sistema Italia».
Come sarà il 2026?
«Siamo ottimisti, può essere l’anno di coda del rallentamento. Se i brand del lusso non aumentano i prezzi»
Perché, da ingegnere gestionale, ha scelto di lavorare nella finanza?
«È lo strumento per far crescere l’industria. E la moda è la mia passione. Rimango un ingegnere nel modo di pensare, investire e gestire le aziende»
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