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Quelle tasse per il Pnrr, cittadini in fuga dall’Ue


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I commercialisti più giovani o quelli tecnologici di mezza età si dimostrano silenti o cambiano discorso, ma gli anziani non hanno dubbi circa il fatto che ai privati convenga chiudere bottega (chiudere partita Iva e iscrizione camerale) prima che s’abbatta sull’Italia la restituzione del Pnrr all’Unione Europea. Prima del cataclisma i più forti e svegli avranno chiuso aziende e venduto ogni proprietà; quindi trasferito tutto all’estero, in nazioni dove non c’è l’euro e regna la moneta nazionale. Operazione che va fatta con cautela, perché da anni banche (quindi sistema bancario Ue) ed Agenzia delle Entrate vigilano sulle fughe all’estero di coloro che chiudono aziende e vendono beni mobili ed immobili. Le domande che si pongono i controllori sono: “che faranno della liquidità? E soprattutto “dove la porteranno?”, “siamo sicuri rimarrà a disposizione della sicurezza bancaria europea?”.

I francesi hanno risolto il nostro problema non prendendo nemmeno un euro dall’Unione Europea, ben consci che la restituzione avrebbe obbligato i governi a far salire di circa venti punti percentuali l’intera pressione fiscale. La Francia non ha il Pnrr, non esiste alcun Plan National de Relance et de Résilience” (Pnrr), hanno invece un piano nazionale chiamato “FranceRelance”: lanciato formalmente nel 2020, ma non hanno mai toccato un soldo dei fondi messi a disposizione. Questo perché la trasformazione sistemica della Francia, basata sul coniugare ecologia e coesione, era già iniziata circa vent’anni fa. La Francia ha detto a Bruxelles “non tocco i soldi dell’Ue”, e per questo motivo è riuscita ad ottenere la riduzione dei suoi contributi al bilancio dell’Unione Europea: invece di versare nelle casse di Bruxelles 29,2 miliardi di euro all’anno, la Francia verserà 27,6 miliardi, con un risparmio annuo di 1,6 miliardi di euro.

L’Italia è il Paese che ha ricevuto dall’Unione europea il maggiore stanziamento di fondi per il Pnrr, pari a 194,4 miliardi: 122,6 miliardi come prestiti e 71,8 in sovvenzioni (di cui solo parte a fondo perduto). È stato calcolato che per restituire i soldi del Pnrr in un decennio necessiterebbe portare la pressione fiscale ben oltre l’80 per cento, ed in un ventennio poco al di sotto del 70.

Attualmente l’Istat ha rilevato che pressione fiscale italiana è a quota 50,6 per cento con evidenti prospettive di crescita, e con un aumento di 1,5 punti percentuali rispetto al quarto trimestre del 2023: la pressione fiscale nel 2024 si era attestata al 42,6 per cento del pil, registrando un incremento di 1,2 punti percentuali rispetto al 2023. Alla pressione fiscale calcolata in base ai redditi vanno aggiunte tutte le tasse che il cittadino paga su carburanti, forniture energetiche, uso del trasporto pubblico, Tari, Imu, Tasi. Così sul cittadino medio con casa e auto di proprietà già incide una pressione fiscale che sfiora nella maggior parte dei casi il 70 per cento. Qualcuno potrebbe obiettare “allora cosa cambierebbe con la restituzione del Pnrr in vent’anni?”. Cambierebbe che, al 70 per cento dovuto all’aggiungersi delle rate di restituzione del Pnrr dovremmo sommare oltre un 20 per cento di fiscalità dovuta a consumi e bollette.

La domanda che oggi in tanti si pongono, e dopo il risveglio dall’ubriacatura tra fondi europei e moneta unica, è come possa sopravvivere un paese con la pressione oltre il 90 per cento. E quelli che vi vengono proposte sono conti della serva comprensibili a tutti, perché nessuno vuole scendere nelle alchimie del bilancio pubblico, dove gente molto abile e ben pagata sarebbe capace di spacciarci con ottimismo le tantissime “sopravvenienze passive”, ovvero le componenti negative del reddito d’impresa italiano che dovrebbero incidere sul Pil: queste derivano da eventi imprevisti o straordinari, come il mancato conseguimento di ricavi già tassati in esercizi precedenti, l’insussistenza di attività iscritte in bilancio, oppure il sostenimento di spese non preventivate (esempio risarcimenti danni). E di queste ultime dovrebbero far parte i soldi del Pnrr impiegati male, i risarcimenti europei per pandemia, armi, multe dell’Unione europea, usura legale azionata dai soliti poteri bancari europei. C’è da mettere in valigia quel che si può e fuggire.

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Lo spreco è sotto gli occhi di tutti, i beneficiari del dispositivo per la ripresa (il Pnrr) sono le Pubbliche Amministrazioni, le imprese e i cittadini che, attraverso misure specifiche, si dedicano al raggiungimento di “più obiettivi da attuare nel periodo 2021-2026”.

Così, mentre il commerciante e l’artigiano vedono il loro lavoro morire, la cittadinanza italiana assiste al rifacimento di strade e piazze con i soldi del Pnrr: particolare non secondario è che vengono gettate per aria e rifatte opere terminate due o tre anni prima con i soldi pubblici italiani, e solo per spendere il Pnrr.

In tutti i comuni italiani, chi più chi meno, stanno usando con la pala i soldi del Pnrr: l’effetto è più visibile a Roma, dove lo stesso quotidiano Il Messaggero ha raccontato il 6 novembre 2023 del “contestatissimo progetto del Campidoglio… Nel piano del Comune, vecchio di un trentennio (è un’idea partorita per il Giubileo del 2000), dovrebbero essere realizzati 8,9 chilometri di binari: 8,2 fra Termini e Giureconsulti, più 770 metri per la diramazione per il Vaticano. Costo totale preventivato: 294 milioni di euro, 120 a carico del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”. Il Messaggero spiega i 174 miliardi “accantonati dal ministero dei Trasporti”, e che “in caso di sforamento della cifra, i costi extra sarebbero a carico delle casse del Campidoglio”. Ovvero dei romani, e c’è già chi teme non vi sia più nemmeno un euro e con tante opere incompiute. Risultato? Il Pnrr verrà rimborsato dai romani, che dovranno pagare le tasse più alte d’Italia. Secondo non pochi esperti il centro-destra non avrebbe mai voluto avversare l’uso del Pnrr per evitare (soprattutto su Roma) scontri con il centro-sinistra.

Chi ha consigliato all’Italia di prendere i soldi del Pnrr ha forse in buona fede omesso di considerare che gli Stati, proprio come le persone, prendono a prestito denaro nel momento in cui ne hanno più bisogno, giustificando la richiesta con progetti e sogni o fabbisogni da soddisfare nell’immediato. Poi c’è il futuro, che è fatto di sacrifici, interessi, restituzione del capitale, fallimenti, pignoramenti europei. Quindi si può agevolmente pensare di aumentare l’indebitamento in momenti in cui i tassi sono favorevoli, ma è impensabile prendere a prestito 200 miliardi dall’Ue tutti in una volta, e in attesa di spenderli negli anni a venire; o peggio, spenderli male e velocemente in opere frettolose ed inutili. Va ricordato che un prestito di lungo periodo permette di ridurre il peso del debito sul bilancio pubblico, e spalmandolo negli anni. Il problema è che un prestito a lungo termine prevede un tasso d’interesse più alto, ovvero un costo dell’indebitamento che sempre più graverà su un paese indebolito. Nei decreti ministeriali collegati al Pnrr non c’è nemmeno scritto a quanto ammontano gli interessi reali che dovremmo pagare. E non sono neppure specificati i costi legati ai prestiti, come quelli amministrativi e le competenze bancarie: a tutto questo fa fede solo un atto della Commissione Ue, che specifica però l’indebitamento con i mercati, soprattutto che l’oscillazione dei mercati determinerà i costi, gli interessi. Così l’Unione Europea ha messo i “bisognosi” in mano agli usurai. Le nazioni più furbe non hanno usato quei soldi, oppure non sono più entrate nell’euro prevedendo le tentazioni della Commissione e della Bce. E così Ungheria, Polonia e Danimarca battono la loro moneta e possono fare il gesto dell’ombrello ai poteri bancari europei. L’Italia si spera possa rompere con l’usuraio, anche iniziando a far circolare una moneta locale regionale, utile per rivitalizzare le imprese al dettaglio.

Aggiornato il 04 settembre 2025 alle ore 09:54



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