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L’Italia degli stipendi «minimi»: un lavoratore su quattro arriva a stento a mille euro al mese


di
Elena Tebano

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L’aumento degli occupati ha più a che fare con la riforma delle pensioni (che ha rimandato per molti il momento di lasciare il lavoro) e con la diminuzione dei giovani che con la salute del mercato del lavoro

I dati sull’occupazione diffusi dall’Istat sono apparentemente positivi: il tasso di disoccupazione è sceso al 6%, il minimo storico dal 2007 (l’anno prima della crisi finanziaria globale che ha segnato un crollo economico dell’Italia, da allora rimasta indietro rispetto agli altri Paesi industrializzati) e meglio della media dell’Eurozona (6,2%). A luglio si sono registrati tredicimila occupati in più rispetto a giugno e 218 mila in più rispetto a un anno fa e sono aumentati i dipendenti a tempo indeterminato. Gli occupati sono arrivati a 24,2 milioni, un massimo storico. La premier Giorgia Meloni l’ha rivendicato subito come un successo del suo governo: «Numeri incoraggianti, che confermano l’efficacia delle misure messe in campo e ci spingono a proseguire con determinazione su questa strada: più opportunità, più lavoro, più crescita per l’Italia» ha scritto in un post sui social, che come tale non prevede contraddittorio.

Quei numeri positivi però nascondono una realtà che, come ha scritto Giuliana Ferraino sul Corriere, è «in chiaroscuro». Perché l’aumento degli occupati ha più a che fare con la riforma delle pensioni (che ha rimandato per molti il momento di lasciare il lavoro) e con la diminuzione dei giovani che con la salute del mercato del lavoro. Questo spiega perché aumentano anche i dipendenti a tempo indeterminato (in maggioranza sono over 50 che hanno dovuto posticipare la pensione).

«Anche se su base mensile gli occupati over 50 diminuiscono di 2 mila unità, rispetto a luglio 2024 l’incremento in quella fascia di età è pari a 408 mila, mentre si registrano cali di 160 mila tra i 35 e i 49 anni e di 36 mila negli under 24. Va sempre ricordato che questi numeri sono influenzati dalla demografia. Siccome è molto ampia la fetta di popolazione over 50, infatti, è normale che la salita degli occupati si concentri in valore assoluto in quel segmento. L’Istat però fornisce anche il dato al netto di questa componente demografica, e anche questo conferma che il mercato del lavoro sta premiando soprattutto le persone in età avanzata. Il dato corretto, infatti, dice che l’aumento di occupazione negli over 50 è pari al 2,3% mentre tra gli under 35 c’è un calo dello 0,7%» scrive Roberto Rotunno sul Fatto.




















































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«La quasi totalità della crescita è negli over 50. I giovani salgono un po’, ma il baricentro è lì, anche depurando i dati dalla componente demografica, cioè dal fatto che la forza lavoro invecchia» conferma Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, associazione fondata da Marco Biagi che si occupa di studi sul lavoro in un’intervista a Repubblica. L’aumento dei lavoratori ultacinquantenni è dovuto all’«effetto combinato di legge Fornero e imprese: si resta al lavoro più a lungo e le aziende faticano a sostituire competenze. Chi a 62 anni ieri era inattivo perché già in pensione, oggi è occupato. Non è una notizia negativa, ma vuol dire che una parte della crescita non nasce da nuove assunzioni. Questo aiuta a spiegare un Pil stagnante e perché l’aumento stia nel tempo indeterminato, tipico dei lavoratori senior, e tra gli uomini» spiega ancora Seghezzi.

Le donne

E infatti anche per quanto riguarda l’occupazione femminile i dati sono preoccupanti. Ancora Rotunno sul Fatto: «Mentre aumentano di 49 mila gli occupati tra gli uomini, tra le donne c’è un calo di 37 mila. Persino peggiore il confronto su base annuale: rispetto a luglio 2024, tra gli uomini c’è una crescita di 198 mila unità; tra le donne di appena 20 mila. Il tasso di occupazione femminile è al 53,7%, contro il 71,8% maschile. Tra l’altro, il tasso di inattività femminile – che misura le persone che non hanno un lavoro e non lo cercano – è aumentato a luglio rispetto a giugno ed è rimasto stabile, quindi non è migliorato, su base annuale».

Non solo, come sottolinea Ferraino, a livello complessivo gli inattivi oggi sono il 33,2% degli italiani tra i 15 e i 64 anni. Una persona su tre in Italia non ha un lavoro e non lo cerca. «È un dato che fotografa una fragilità strutturale del mercato del lavoro italiano, segnata da scoraggiamento, difficoltà di accesso per i giovani, bassa partecipazione femminile e permanenza prolungata negli studi» nota Ferraino.

Salari bassi

Sul numero degli occupati, insomma, si deve e si può fare di più. Ma non c’è soltanto il problema di quante sono le persone che lavorano, che pure è importante, c’è anche quello della qualità del lavoro, che in Italia rimane drammaticamente malpagato. «Secondo i dati Ocse, l’Italia ha i salari medi più bassi del G7 e fra i più bassi del G20: circa 22 mila euro netti annui, contro i 31 mila della media Ocse. È l’unico Paese del G7 in cui le retribuzioni reali sono diminuite negli ultimi trent’anni» scrive Ferraino, sottolineando che 6,2 milioni di lavoratori guadagnano massimo mille euro netti al mese.

Visto il numero complessivo degli occupati, significa che circa un lavoratore su quattro in Italia non guadagna più di mille euro netti al mese: troppo poco per potere avere una vita dignitosa. È (o almeno dovrebbe essere) essere una vera e propria emergenza nazionale.

Il rapporto al costo della vita

«Pochi giorni fa l’area studi di Cna ha calcolato che il costo dell’affitto di un’abitazione in media assorbe il 43,7% della retribuzione netta di un operaio, ma a Milano sfiora il 65%. In città come Firenze, Roma e Bologna supera il 50%. Soltanto a Torino ( 37,8%) e Napoli (34,4%) tra i grandi capoluoghi l’incidenza dell’affitto è inferiore alle media nazionale» ricorda Luca Mazza su Avvenire. Con uno stipendio di massimo mille euro al mese, anche se si lavora in due è difficile progettare una vita: non solo “lussi” come permettersi le vacanze, ma anche avere la sicurezza di una casa, fare dei figli e pensare al domani.

Il coinvolgimento dei lavoratori

Tutto questo non può non pesare. Anche sul rapporto degli italiani con il lavoro, sempre più sfiduciato. In un articolo su Lavoce.info, Simone Cerlini – capo divisione Lavoro di Afol Metropolitana, la rete dei servizi per il lavoro della Città Metropolitana di Milano – racconta che in un contesto globale in cui i lavoratori sono sempre più risentiti e arrabbiati, il dato italiano è particolarmente preoccupante. Dal rapporto 2025 di Gallup sullo stato del lavoro (State of the Global Workplace Report 2025) emerge che solo un lavoratore italiano su dieci si sente “impegnato” (“engaged”) rispetto al proprio lavoro. Su 38 Paesi, l’Italia è «al 5° posto per stress percepito (49 per cento ha vissuto una giornata molto stressante nel giorno precedente alla rilevazione) e tristezza (21 per cento)».

«A livello sistemico la percezione di ingiustizia dipende da fenomeni complessi che sono più difficili da comunicare e interiorizzare, come la sperequazione nel carico fiscale che colpisce più che proporzionalmente la classe media, oppure la sempre più forte preferenza degli investitori italiani verso i rendimenti da dividendi, anche a scapito della cosiddetta “crescita per innovazione”. Il Bollettino statistico n. 26 della Consob (giugno 2025) evidenzia che le imprese italiane mantengono la tendenza a privilegiare la remunerazione degli azionisti rispetto alla tutela del lavoro (che ha impatto in logica redistributiva) e in R&D (“ricerca e sviluppo”, che ha effetti su innovazione e produttività)» scrive Cerlini. 

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«Il comportamento orientato al breve termine delle imprese si sposa con una pressione fiscale che pesa soprattutto sulla classe media lavoratrice. I dati di Itinerari Previdenziali del 2025 evidenziano che il cosiddetto “fiscal drag” (effetto dell’inflazione su scaglioni non indicizzati) ha aumentato il carico fiscale in modo più significativo proprio sui lavoratori dipendenti, con un aumento stimato delle tasse aggiuntive del 17,8 per cento per gli operai e del 21,8 per cento per gli impiegati rispetto al 2022, con un aggravio di centinaia di milioni di euro solo per queste categorie. La fascia media (reddito da circa 20 mila a 50 mila euro) sostiene gran parte del gettito Irpef, con il 46,5 per cento dei contribuenti che dichiara redditi sopra 20 mila euro, contribuendo per quasi il 94 per cento del gettito Irpef, mentre le fasce più basse pagano sempre meno. La pressione fiscale sproporzionata sulla fascia media ha generato fenomeni di compressione della fascia stessa, con ricadute negative sul reddito netto disponibile e sul potere d’acquisto, comportando una possibile contrazione dei consumi e rischi per la sostenibilità del welfare».

Negli ultimi anni, in altre parole, i lavoratori italiani sono usciti perdenti dalla partita con gli investitori e i datori di lavoro e beneficiano sempre meno degli effetti del loro lavoro. Per molti di loro, anche della classe media, non vale più impegnarsi sul lavoro, perché il lavoro ha tradito le sue promesse fondamentali. Non ne vale semplicemente la pena. Soprattutto se si tratta di guadagnare massimo mille euro al mese.


3 settembre 2025

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