L’idea di inserirla nella Manovra 2026. Alle casse dello Stato costerebbe 70 milioni, ma a guadagnarci sarebbero i lavoratori: ecco perché
Salviamo il ceto medio, potremmo dire. Stretto tra l’incudine dell’aumento dei prezzi di questi anni, complice la fiammata dei beni energetici, e la non contestuale crescita dei salari. In definitiva, il potere d’acquisto negli ultimi anni è stato travolto, ha perso il 10,5% tra il 2019 e il 2024, come ha segnalato l’ultimo rapporto Istat. Da qui si fa strada l’urgenza del governo di mettere cantiere una serie di misure per sostenerlo, come da recenti dichiarazioni della premier Giorgia Meloni. Dunque, si rispolvera un tema che si ripropone ogni volta che si comincia a ragionare sulla manovra di Bilancio. Le tasse che si applicano ai buoni pasto che le aziende ritagliano per i lavoratori.
La soglia esentasse
Mese di settembre, mese in cui la Finanziaria entra in gestazione. Si riaffaccia così l’ipotesi di alzare la «soglia esentasse» dei buoni pasto da 8 a 10 euro, che «alle casse dello Stato costerebbe circa 70-80 milioni all’anno secondo un’analisi datata della Ragioneria dello Stato, spiega Matteo Orlandini, presidente Anseb, l’associazione delle aziende che emettono questi buoni pasto. Una misura che ci troverebbe assolutamente a favore, soprattutto se inserita all’interno di un pacchetto di strumenti per rilanciare il ceto medio. In tasca al lavoratore andrebbero circa 450-500 euro all’anno, sicuramente un supporto». Tesi condivisa anche da Roberto Calugi, presidente di Fipe Confcommercio, che parla di «misura utile per sostenere il lavoratore gravato da anni di inflazione galoppante e carovita. Sarebbe il momento giusto anche per un maggiore equilibrio nella filiera, dopo il tetto alle commissioni appena diventato norma».
L’asse portante del welfare
I buoni pasto sono esentasse fino a 4 euro al giorno per quelli cartacei e fino a 8 euro al giorno per quelli digitali o elettronici; la parte eccedente questi limiti viene tassata e conteggiata come reddito da lavoro nel dipendente. Se aumentasse la soglia esentasse a guadagnarci sarebbero in primo luogo i lavoratori, al di là dei vantaggi fiscali per le aziende (che ci sarebbero). La volontà di inserire la misura in manovra è della senatrice Fdi Paola Mancini, membro della Commissione Lavoro del Senato, autrice di un emendamento che la configurava già qualche anno fa, stoppata poi al successivo passaggio parlamentare per mancanza di coperture finanziarie. Il legislatore è consapevole che il servizio-mensa (sotto forma di voucher cartaceo o digitale) è l’asse portante di qualunque welfare aziendale ed è capace anche di generare un importante gettito erariale. Questa soglia de-fiscalizzata permette al lavoratore di usufruire del pranzo pagato dal datore di lavoro senza un’imposizione fiscale che ne ridurrebbe l’importo.
La moneta elettronica (ed esentasse)
La spesa al mercato rionale. Il pranzo all’agriturismo. Il pantalone nello spaccio aziendale. Teoricamente anche l’idraulico per i piccoli lavoretti di casa. I buoni pasto sono diventate da tempo moneta vera e propria.
Un decreto del ministero dello Sviluppo nel 2017 ne ampliò l’ambito di utilizzo anche per servizi e venditori che ne erano esclusi, imponendo però il tetto di spesa a otto ticket giornalieri che resiste da tempo.
Il principale ostacolo riguarda chi deve accettare i buoni mensa, cioè gli esercenti e deve fornire un servizio, un prodotto, un pasto anticipandone i costi e aspettando un rimborso da parte delle società emettitrici (le più importanti sono Edenred, Sodexo e Qui Group) che può variare a seconda delle loro politiche commerciali e della loro velocità nel disbrigo delle pratiche amministrative.
Il tetto del 5% del valore nominale
Si tratta di una filiera che ha appena digerito un’importante novità che cerca di mettere un freno alle gare al massimo ribasso che si sono generate in questi anni per il servizio mensa (ne abbiamo scritto qui). Una filiera da sempre coinvolta in una guerra prima silenziosa, poi deflagrata a colpi di comunicati, ricorsi al Tar, pagamenti a 120 giorni, società dai bilanci poco chiari. Sul banco degli accusati: lo Stato-formica. Variante inattesa del gemello cicala, che dispensa consulenze, prebende, emolumenti. Dal 1° settembre è cambiato il tetto alle commissioni applicate alle imprese per l’accettazione dei buoni pasto: non potrà più superare il 5% del valore nominale del ticket. La modifica è stata introdotta con il Ddl Concorrenza del 2024. Attualmente, le società che emettono buoni pasto possono applicare una commissione fino al 20%, il cui costo viene ripartito nel percorso tra datore di lavoro, dipendente ed esercizio commerciale. Ora questo costo scende e ciò divide la platea degli intermediari tra entusiasti e diffidenti.
Gli oneri per gli esercenti
«Si tratta di un risultato importante: porre fine a un sistema che scaricava sugli esercenti oneri sproporzionati e insostenibili. Per bar, ristoranti e pubblici esercizi è una vera boccata d’ossigeno, soprattutto in una fase in cui i margini continuano a ridursi. Secondo le nostre stime, grazie a questa misura gli imprenditori potranno risparmiare complessivamente fino a 400 milioni di euro l’anno», commenta Giancarlo Banchieri, presidente di Fiepet Confesercenti. Mentre l’Associazione Nazionale Società Emettitrici Buoni Pasto(Anseb), in uno studio pubblicato a gennaio scorso, ritiene che «l’imposizione di un tale tetto sia contraria ai principi di libera determinazione dei prezzi sanciti dal diritto italiano ed europeo».
Il rischio aggravio dei costi per le imprese
Determinare per legge i limiti contrattuali, per l’associazione, «mina l’autonomia delle aziende private nel realizzare prezzi competitivi». E ancora: il blocco dei prezzi configurerà «un aggravio dei costi per le imprese che acquistano i buoni pasto per i propri dipendenti». Con un tetto alle commissioni del 5% le aziende clienti potrebbero riscontrare, spiega il paper, «maggiori costi almeno per un 6%, stimabili in 180 milioni annui».
Il riallineamento nei contratti
Il disegno di legge specifica che per consentire un riallineamento equilibrato dei contratti che attualmente legano l’impresa emittente ai datori di lavoro sono previste due opzioni. Per i buoni pasto emessi entro il 1° settembre 2025 continuano ad applicarsi le condizioni concordate con gli esercenti prima della data di entrata in vigore della legge. Fatta salva la rinegoziazione, le imprese emittenti dal 1 settembre 2025 possono recedere dai contratti già conclusi con i committenti, senza indennizzi od oneri. I buoni pasto sono uno strumento di welfare aziendale flessibile, in quanto non limitati esclusivamente al pagamento del pranzo o la cena durante l’orario di lavoro, ma possono essere utilizzati anche per acquistare generi alimentari nei supermercati. Secondo l’Anseb in Italia ci sono 3,5 milioni di lavoratori che usufruiscono dei ticket, 170.000 esercizi convenzionati e 150.000 imprese che li forniscono ai loro dipendenti.
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