La subscription economy sta cambiando il modo di concepire i consumi, trasformando il possesso in accesso e ridefinendo le strategie delle imprese. In Italia cresce l’interesse di startup e grandi aziende, che sperimentano modelli basati sull’abbonamento in settori che spaziano dal digitale alla mobilità, fino al cibo e alla salute. Un trend che porta vantaggi ma anche rischi di saturazione e che pone al centro un interrogativo: come garantire valore reale e sostenibile agli utenti?
Subscription economy: un fenomeno globale con radici locali
Il paradigma della sottoscrizione, nato nello streaming e nel software, ha ormai assunto proporzioni globali. Netflix e Spotify sono diventati simboli del modello, ma lo stesso approccio viene oggi replicato in ambiti molto diversi: dalla mobilità elettrica ai servizi sanitari, dal fashion al food delivery. L’Italia non è estranea a questa tendenza. Startupper e imprese consolidate hanno colto le potenzialità della subscription economy, spingendo su formule innovative.
Gli esempi non mancano. Quomi, pioniera del meal-kit in Italia, propone abbonamenti settimanali con ingredienti freschi e ricette pronte da cucinare. Nel 2021 la ormai ex startup ha raccolto circa 2,5 milioni di euro e da allora è cresciuta, raggiungendo un modello consolidato.
Nel mondo della mobilità, servizi come Leasys Miles di Leasys, società del gruppo Stellantis, hanno contribuito a far attecchire il concetto di auto “on demand” con formule di abbonamento che sostituiscono l’acquisto tradizionale.
Anche nel wellness si diffondono modelli “all inclusive”, con palestre e piattaforme digitali che offrono pacchetti ricorrenti personalizzati. Uno di questi è Fitprime, una realtà nata nel corporate wellness, che nel 2025 è stata acquisita da Wellhub (precedentemente Gympass), creando la più ampia rete italiana del settore.
Meccanismi e modelli operativi
Le formule si articolano principalmente in due modalità: il pay-per-use, che consente di pagare solo ciò che si consuma, e il flat-rate, che dà accesso illimitato a un canone fisso. In Italia si stanno diffondendo anche modelli di replenishment, come nel caso di Uala, piattaforma beauty che lavora con saloni e centri estetici, offrendo pacchetti di trattamenti su base ricorrente.
Un altro terreno fertile è il B2B. Alcune startup italiane nel settore SaaS (software as a service) stanno puntando sul modello in abbonamento per scalare più rapidamente e consolidare i ricavi. La logica della sottoscrizione, infatti, non riguarda solo i consumatori finali, ma diventa leva di crescita anche per le imprese che offrono servizi digitali ad altre aziende.
I vantaggi per imprese e clienti
La subscription economy offre alle aziende un beneficio cruciale: la prevedibilità dei ricavi. Entrate ricorrenti e costanti facilitano la pianificazione e rendono meno vulnerabili a oscillazioni di mercato. Per questo motivo, sempre più startup italiane scelgono questo approccio fin dall’inizio, attirando anche investitori interessati alla stabilità del modello.
Per i consumatori i vantaggi sono evidenti. L’accesso prevale sul possesso: non serve comprare un’auto se si può disporne tramite un canone mensile; non è necessario acquistare un’intera collezione di libri o vinili se esistono piattaforme che garantiscono ampia scelta in abbonamento. A ciò si aggiunge una componente di sostenibilità: meno sprechi, meno beni inutilizzati, più flessibilità nell’uso delle risorse.
Le criticità emergenti
La “subscription fatigue”
Non mancano, però, i rischi. La cosiddetta “subscription fatigue” è un fenomeno ormai diffuso anche in Italia: i consumatori faticano a tenere traccia degli abbonamenti attivi, rischiando di spendere più del previsto. Secondo ricerche internazionali, in media si superano i 200 euro al mese in sottoscrizioni digitali e fisiche, spesso senza un controllo consapevole.
Le sfide logistiche
Per le aziende, la difficoltà sta nel bilanciare costi e fidelizzazione. I modelli che si basano sulla consegna fisica – come i meal kit o i box personalizzati – affrontano sfide logistiche importanti, che mettono alla prova la sostenibilità economica. Al tempo stesso, pratiche poco trasparenti di rinnovo automatico o processi complessi di cancellazione rischiano di compromettere la fiducia dei clienti. È un terreno delicato, su cui anche le startup italiane devono muoversi con cautela.
L’ossessione dei ricavi ricorrenti e le sue ombre
Negli ultimi anni la subscription economy è diventata un mantra per le startup: l’ARR, il ricavo ricorrente annuale, è la metrica più guardata da investitori e imprenditori perché garantisce stabilità, crescita prevedibile e apparente solidità. Ma dietro l’entusiasmo ci sono anche ombre.
Molte aziende puntano tutto sugli abbonamenti senza considerare il tasso di abbandono, che può erodere rapidamente i ricavi attesi. Spesso l’ARR viene calcolato solo sugli utenti iniziali, senza tenere conto della reale durata della sottoscrizione. Se a questo si aggiungono margini bassi e costi elevati di acquisizione, il modello rischia di diventare fragile.
La verità è che la subscription economy funziona solo quando l’abbonamento corrisponde a un valore concreto, continuativo e trasparente. In caso contrario, più che una risorsa diventa un’illusione di stabilità.
Verso un equilibrio sostenibile
Il futuro della subscription economy nel nostro Paese dipenderà dalla capacità di creare valore tangibile per gli utenti. Modelli chiari, flessibili, facilmente disattivabili e realmente personalizzati saranno la chiave per evitare saturazione e diffidenza.
Il messaggio è chiaro: la sottoscrizione non deve essere percepita come una trappola, ma come un’opzione di valore. Le imprese hanno la responsabilità di rendere l’abbonamento un servizio realmente utile e sostenibile; i consumatori, dal canto loro, dovranno sviluppare una maggiore consapevolezza nella gestione delle proprie spese ricorrenti.
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