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Addio Internet gratis: è la fine di un’era. Perché adesso online si paga (quasi) tutto?


di
Alessia Cruciani

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Dallo streaming musicale ai social, dai film alle spunte blu: l’aumento appena annunciato da Spotify è l’ultimo segnale del trend che piace alle big tech. Le imprese vogliono più profitti e i nostri dati non bastano più

C’era una volta un immenso bazar gratuito… È iniziata così la favola di Internet, un mondo in cui tutto era facilmente a portata di mano: musica, film, notizie, perfino strumenti di produttività. Bastava una connessione e il gioco era fatto. Certo, qualcuno avvertiva: «Se non paghi il servizio, il prodotto sei tu». In effetti, per anni ha funzionato questo baratto implicito, con i nostri dati ceduti alle piattaforme per alimentare il mercato pubblicitario. Quell’equilibrio è rimasto in piedi a lungo, garantendo agli utenti la sensazione di avere accesso illimitato e gratuito al mondo digitale.
Ma oggi quella stagione sembra giunta al capolinea. A confermarlo è il recente aumento degli abbonamenti annunciato da Spotify, ma la lista è lunga e attraversa tutto il panorama digitale, da Netflix a Meta, da Amazon a X (ex Twitter).
Spotify ha comunicato che a partire da settembre il prezzo dell’abbonamento premium salirà di un euro al mese: da 10,99 a 11,99 in Europa, Asia meridionale, Asia-Pacifico, Medio Oriente, Africa e America Latina. L’azienda svedese, fondata nel 2006 e per anni in perdita, ha raggiunto il primo utile della sua storia nel 2024 grazie a una combinazione di taglio costi e ritocchi tariffari. «Gli aumenti e gli adeguamenti dei prezzi fanno parte dei nostri strumenti di business e li applicheremo quando sarà opportuno», ha spiegato al Financial Times Alex Norstrom, co-presidente e chief business officer, sottolineando che l’obiettivo è raggiungere un miliardo di utenti. 

I precedenti

Spotify non è sola. A luglio Meta ha introdotto in Italia un sistema a due velocità per Instagram e Facebook: gratuiti ma con pubblicità (e con i dati personali trattati a fini di inserzioni) oppure senza pubblicità a pagamento. Il costo parte da 7,99 euro al mese per il primo account e da 5,00 euro per ciascun account aggiuntivo. «Anche se ti abboni — ha precisato l’azienda — continuerai comunque a vedere i post e i messaggi delle aziende e dei creator». In altre parole, l’assenza di inserzioni non significa la fine del flusso commerciale.
Netflix aveva già ritoccato i prezzi nell’ottobre 2024 in Italia e Spagna: il piano Premium è salito a 19,99 euro dai 17,99 precedenti; lo Standard è passato da 12,99 a 13,99 euro; mentre il piano con pubblicità, scelto da una quota crescente di utenti, è aumentato da 5,49 a 6,99 euro. Un rialzo generalizzato, valido sia per i nuovi clienti sia per quelli esistenti. La piattaforma aveva già eliminato anche il periodo di prova gratuito, obbligando chiunque a pagare fin da subito. Disney+ si è mossa in parallelo.
Poi ci sono le «spunte blu». Elon Musk, poco dopo l’acquisizione di Twitter (oggi X), ha trasformato il bollino di account verificato in un servizio a pagamento. Una scelta imitata da Mark Zuckerberg per Facebook e Instagram, che ha reso oneroso un simbolo un tempo connesso alla reputazione pubblica di aziende, media e celebrità. 




















































La strategia

«La ragione più semplice di questi aumenti è che le imprese vogliono incrementare i profitti — interviene Nicoletta Corrocher, docente di Economia applicata alla Bocconi —. Spotify, per esempio, nasce come servizio gratuito ma ha introdotto il Premium peggiorando progressivamente l’esperienza di chi resta sulla versione base. Oggi circa il 40% dei suoi utenti paga, un dato molto alto se pensiamo che la musica si può ascoltare anche gratis. Netflix ha seguito una logica simile, creando più versioni dello stesso prodotto: con pubblicità, senza pubblicità, condivisione dell’account. È una classica strategia di discriminazione di prezzo, che si usa anche offline. Nel mondo digitale però costa poco differenziare i servizi: basta un clic per aggiungere o togliere pubblicità». Amazon Prime è un altro esempio. Nato per offrire spedizioni più rapide e gratuite, nel tempo ha aggiunto video, musica, cloud fotografico. Il prezzo annuale è aumentato più volte: dai 9,99 euro nel 2011 ai 49,90 euro attuali, ma la fidelizzazione resta alta. «Gli utenti sono restii a cambiare una volta inseriti negli ecosistemi digitali — osserva Corrocher —. L’algoritmo mi conosce, propone contenuti personalizzati. Ricreare da zero questo ambiente altrove comporterebbe costi di tempo e attenzione, non solo economici».
Dietro i rincari c’è anche il limite del modello pubblicitario. Dopo il boom durante la pandemia, gli introiti degli annunci hanno mostrato segni di rallentamento. «Fondare un business solo sulla pubblicità non basta più — prosegue Corrocher —. Meta ha diversificato aprendo al commercio elettronico, Instagram e TikTok sono diventati canali cruciali per lo shopping. Al tempo stesso, per avere servizi di qualità gli utenti hanno interiorizzato l’idea che bisogna pagare. L’impatto per il singolo è minimo: un euro in più al mese su Spotify è sostenibile, ma moltiplicato per centinaia di milioni di abbonati diventa enorme». 
E i dati? «Restano fondamentali — spiega la docente —. Servono per creare cluster di utenti e personalizzare l’esperienza, che è ciò che spinge a restare sulla piattaforma. Ma non bastano più da soli a sostenere la crescita. L’intelligenza artificiale, i contenuti originali, la ricerca e sviluppo hanno costi elevati. Ecco perché le big tech alzano i prezzi».

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Poca democrazia

E se si pensa alle conseguenze per i consumatori, Corrocher rassicura: «Gli utenti più giovani sono cresciuti già in un mondo a pagamento. Per loro la connessione e la condivisione di contenuti sono beni essenziali, più delle auto o delle case. Gli adulti, invece, hanno visto il passaggio dal gratis ai canoni mensili e faticano di più ad accettarlo. Ma nella realtà la mobilità tra piattaforme resta bassa: chi ha un abbonamento Netflix o Amazon Prime difficilmente lo cancella per un aumento».
Resta il tema della disuguaglianza digitale. «Non parlerei di Internet democratica — conclude Corrocher —. I mercati digitali sono dominati da effetti di rete ed economie di scala: più utenti ci sono, più cresce il valore del servizio e più le imprese hanno potere di mercato. È inevitabile che questo concentri ricchezza e influenza in poche mani. Sì, le differenze aumentano, ma non parliamo di beni essenziali: nella scala dei bisogni non c’è Netflix.E puoi sempre ascoltare musica con la pubblicità».
Così si chiude la favola: la Rete non è più il grande bazar gratuito di un tempo. È diventata un supermercato digitale, con scaffali a più prezzi. Alcuni continueranno a scegliere la corsia «free», accettando gli spot. Altri pagheranno per saltare le file. Ma la sensazione è che, comunque vada, il conto alla cassa toccherà a tutti.

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