Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio – Rapporto della Relatrice Speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele – Paper FIRST by Il Fatto Quotidiano – 2025, pp. 168 – euro 5,00 + il prezzo del quotidiano.
Recensione di Adriana Spera
Quanti di noi negli anni ’70-’80 del secolo scorso compravano prodotti agricoli, come ad esempio le arance o i pompelmi Jaffa, provenienti da Israele? E sì, perché all’epoca quello era un paese ad economia prevalentemente agricola, risultato delle politiche degli anni ’50 e ’60, quando il 30% del bilancio nazionale era destinato all’agricoltura e all’acqua. Una forte politica agroindustriale che ha favorito la crescita del settore ortofrutticolo, agevolata anche dalla rete dei kibbutz sulla quale si è retto il primo sviluppo del Paese, solo in parte basato su un embrione di industria costituito da piccole e medie aziende. E i Palestinesi? Nel 1967 ancora producevano tanto da esportare l’80 per cento della verdura e il 45 per cento della frutta.
Clara Mattei, docente di economia presso l’Università di Tusla, in Oklahoma, e direttrice del Forum for Real Economic Emancipation, in un suo interessante articolo ricostruisce come, fin dall’occupazione inglese, furono adottati provvedimenti volti ad assoggettare l’economia palestinese a quella israeliana, una ultradecennale storia di oppressione economico-politica, che ricalca i principi di quella che gli economisti critici hanno denominato “teoria della dipendenza”: lo sviluppo delle nazioni ricche deriva da una scientifica creazione di sottosviluppo in quelle povere. Prova ne sia che, il Pil di Israele, che nel 1967 era il doppio di quello palestinese, nel 2022, in valori assoluti, era aumentato di quasi 20 volte, e ciò anche perché nel tempo l’economia palestinese ha perso un’autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola.
L’occupazione del 1967 – con la riduzione della Palestina al 22% del territorio rispetto a quello del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, fu, come scrive Mattei, “il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica”. Da allora, solo per citare alcuni provvedimenti, vennero chiuse tutte le banche operanti in Cisgiordania e Gaza, tranne due poste sotto supervisione israeliana; è diventato impossibile importare macchine nuove; vige una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale; sono proibiti gli investimenti da altri paesi nei Territori; le aliquote sul reddito dei palestinesi sono più alte del 3-10% e l’esercito israeliano ha il controllo sui bilanci in Cisgiordania e a Gaza.
In definitiva, si è costruito un sistema di regole volto ad assoggettare economicamente i palestinesi, a impedire ogni loro autonomo sviluppo economico: Ma non basta, si è sviluppata anche una serie di azioni volte ad affamare la popolazione.
Oggi parliamo di carestia e denutrizione a Gaza, ma sono decenni che si attua una politica di riduzione delle risorse alimentari: sono stati sradicati oltre 3milioni di alberi d’ulivo secolari e innumerevoli alberi da frutto; resi sterili con erbicidi diversi terreni; in Cisgiordania, per coltivare la terra occorrono permessi quasi sempre negati; la pesca può essere esercitata fino a una distanza di 11 chilometri dalla costa; dal 2008, gli occupanti hanno istituito un sistema di “conteggio calorico” per diminuire i consumi alimentari; i gazawi dipendono in gran parte dagli aiuti alimentari, come ha documentato il collettivo di comunicazione A Growing Culture.
Già nel 2022, l’Onu segnalava che più del 64 per cento degli abitanti di Gaza erano in stato di severa o moderata insicurezza alimentare, molti bambini soffrono di ritardo nello sviluppo, insufficienza renale, denutrizione, malnutrizione, anemia e carenza di micronutrienti.
Cisgiordania e Striscia di Gaza sono incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori e i dazi doganali vengono trattenuti da Israele invece di girarli – come previsto dagli Accordi di Oslo – all’Autorità nazionale palestinese.
Come se tutto questo non bastasse, è continuata la confisca di aree pubbliche e private palestinesi per la costruzione di colonie (200mila ettari) e riserve naturali. A metà anni ‘80, il 39% della Cisgiordania e il 31% della Striscia di Gaza erano divenute terre statali israeliane. Risultato, il collasso dell’economia agricola palestinese con la conseguente e necessaria importazione di generi di sussistenza e la proletarizzazione del 40% della popolazione al servizio dell’economia israeliana. Insomma, è nato un esercito industriale di riserva palestinese che alla fin fine toglie potere contrattuale ai lavoratori israeliani e non fa che alimentare il risentimento verso i palestinesi stessi, nonostante gli abusi e i controlli (come, ad esempio, il riconoscimento facciale automatico: ogni lavoratore proveniente dai territori ha un permesso di lavoro che è anche una carta di identità biometrica) cui questi sono sottoposti.
Oggi, l’economia israeliana si basa prevalentemente sui settori ad alta tecnologia (software, microcip, tecnologie dual use applicabili sia nei settori civili che militari) di cui detiene forse la leadership mondiale, grazie anche a una molteplicità di joint venture con imprese, istituzioni di altri stati, istituti di ricerca e università di tutto il mondo. L’agricoltura oggi tecnologicamente avanzata, grazie alle moderne biotecnologie e all’ingegneria agraria, ha ancora un suo peso ma non quello prevalente del passato.
Durante la 59esima sessione del Consiglio per i Diritti Umani, tenutasi dal 16 giugno all’11 luglio 2025, Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele, ha presentato il suo Rapporto, intitolato Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, che indaga gli ingranaggi economici e aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di espulsione e sostituzione dei palestinesi nel territorio occupato.
Una situazione, quella dell’occupazione illegale dei Territori, di cui hanno approfittato diverse realtà aziendali. D’altronde, come ci ricorda Albanese, «Le imprese coloniali e i genocidi a esse associati sono stati storicamente guidati e resi possibili dal settore privato, soprattutto aziendale. Gli interessi commerciali hanno contribuito alla rimozione delle popolazioni e delle terre indigene – una forma di dominio nota agli studiosi come “capitalismo razziale coloniale” – Lo stesso vale per la colonizzazione israeliana delle terre palestinesi, la sua espansione nei territori palestinesi occupati e l’istituzionalizzazione di un regime di apartheid di tipo coloniale. Dopo aver negato per decenni l’autodeterminazione dei palestinesi, Israele sta ora mettendo a repentaglio l’esistenza stessa del popolo palestinese in (quel che resta della) Palestina».
Albanese, con questo Rapporto, intende mettere in luce il ruolo, passato e presente, delle realtà aziendali – aventi o no scopo di lucro, private e pubbliche, di tutti i settori: produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensione, assicurazioni, università e, persino organizzazioni benefiche – nel supportare Israele nell’occupazione e, oggi, nel genocidio del popolo palestinese.
«Queste entità coadiuvano la violazione dell’autodeterminazione e altre violazioni strutturali nel territorio palestinese occupato, tra cui l’occupazione, l’annessione e i crimini di apartheid e genocidio, nonché una lunga lista di crimini accessori e violazioni dei diritti umani, dalla discriminazione, alla distruzione ingiustificata, allo spopolamento e al saccheggio, alle esecuzioni extragiudiziali e alla fame… dopo l’ottobre 2023, hanno contribuito all’accelerazione del processo di rimozione-sostituzione durante la campagna militare che ha polverizzato Gaza e sfollato il maggior numero di palestinesi in Cisgiordania dal 1967».
La Relatrice Speciale ha sviluppato, sulla base di oltre 200 segnalazioni ricevute, un data base che vede coinvolte circa 1000 entità aziendali, ma questa non è che la punta dell’iceberg; in realtà, vivendo nel tempo dell’economia globalizzata, siamo dinanzi a una complessa e ben più ampia rete di strutture aziendali, che comprende società madri e controllate, franchising, joint venture, et similia.
Una situazione che con il trionfo del liberismo economico è andata peggiorando e ha visto quelle che erano società parastatali divenire dapprima private e, poi, dettare l’agenda politica fino ad essere le vere artefici del diritto internazionale, tant’è che il Rapporto ha suscitato grande indignazione nel mondo politico ed economico e la richiesta di rimozione della Relatrice, Francesca Albanese, dal suo incarico.
Lo stesso copione cui abbiamo assistito ogni volta che le istituzioni sovranazionali denunciano gravi violazioni dei diritti umani, istituzioni riconosciute dalla gran parte dei paesi cui oggi si nega un ruolo super partes e le si processa.
«Le entità aziendali – scrive Albanese – hanno svolto un ruolo chiave nel soffocare l’economia palestinese sostenendo l’espansione delle basi militari e delle colonie illegali israeliane nel territorio occupato e facilitando la sostituzione dei palestinesi. Restrizioni draconiane – sul commercio e gli investimenti, la piantumazione di alberi, la pesca e l’acqua per le colonie – hanno debilitato l’agricoltura e l’industria palestinesi e trasformato il territorio palestinese occupato in un mercato prigioniero (captive market); le aziende hanno tratto profitto dallo sfruttamento della manodopera e delle risorse palestinesi, dal deterioramento e dalla diversione delle risorse naturali, dalla costruzione e dall’alimentazione delle colonie e dalla vendita e commercializzazione di beni e servizi derivati in Israele, nel territorio palestinese occupato e a livello globale».
Gli accordi di Oslo hanno consolidato questo sfruttamento, istituzionalizzando il monopolio israeliano sul 61% della Cisgiordania, mentre l’economia palestinese paga il prezzo con almeno il 35% del suo pil. A questa situazione ha contribuito tutto il sistema, università comprese. «Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento e spoliazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e distruzione senza precedenti». Insomma, il complesso militare-industriale è diventato la spina dorsale economica dello Stato di Israele che, non solo è l’ottavo esportatore di armi al mondo ma, grazie al livello tecnologico raggiunto, ha ottenuto partnership internazionali che gli consentono di esportare e importare armi; di beneficiare del più ampio programma di approvvigionamento di F-35 e F-16 al mondo e molto altro.
Ma, soprattutto, il paese ha sviluppato sistemi si sorveglianza all’avanguardia – che produce in proprio e in partnership con aziende di vari paesi che le forniscono infrastrutture dual use – che esporta nel mondo. È ormai considerata una Start-up Nation, è il paese con il maggior numero di imprese innovative nel settore militare, che ogni anno crescono di più (+143%, nel 2024).
E così la repressione dei palestinesi si è progressivamente automatizzata, al punto da avere il riconoscimento facciale della gran parte della popolazione e di conoscerne ogni movimento. Una circostanza questa che poco si concilia con l’attacco del 7 ottobre 2023. Viene da chiedersi come sia stato possibile che un tale apparato di sorveglianza non abbia registrato alcun movimento nei giorni antecedenti il feroce attacco perpetrato da Hamas?
Dal 1967, Israele esercita un controllo sistematico delle risorse naturali palestinesi, in primis l’acqua. I palestinesi sono costretti a comprarla da Israele, nonostante le sorgenti siano nel proprio territorio. Lo stesso dicasi per gas e carburante.
Come si sostiene questa economia di guerra perenne? Grazie a un sistema finanziario disposto a collocare Bot israeliani in tutto il mondo, considerato che la banca centrale d’Israele non può comprarne. Queste entità finanziarie, banche, assicurazioni, fondi pensione e fondi di investimento, convogliano miliardi di dollari di inconsapevoli investitori in buoni del tesoro e verso società direttamente coinvolte nell’occupazione e nel genocidio. Questo, nonostante molte di queste società abbiano codici etici molto rigorosi. Risultato, dall’inizio dell’assalto a Gaza i prezzi delle azioni della borsa di Tel Aviv sono saliti del 179%, per un valore corrispondente di 157,9 miliardi di dollari.
Le università israeliane, piuttosto che essere critiche e opporsi a quanto accade ai palestinesi, costruiscono, in particolare nelle facoltà di legge, archeologia e studi mediorientali, l’impalcatura ideologica dell’apartheid, mentre le facoltà scientifiche e tecnologiche costituiscono i centri di ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie di sorveglianza e controllo delle masse, in collaborazione con il MIT e altre università nel mondo, l’esercito e i costruttori di armi. Il programma Horizon Europe della Commissione europea ha destinato 2,4 miliardi di dollari a enti israeliani. Una situazione che, scrive Albanese, «Getta nuova luce sulla repressione globale dei manifestanti nei campus: proteggere Israele e tutelare gli interessi finanziari delle istituzioni appare una motivazione più probabile della lotta al presunto antisemitismo».
Insomma, il genocidio condotto da Israele va avanti, nessuno lo ferma «perché è redditizio per molti. Facendo luce sull’economia politica di un’occupazione trasformata in genocidio, il rapporto rivela come l’occupazione perenne sia diventata il terreno di prova ideale per riproduttori di armi e The Big Tech – fornendo un’offerta e una domanda illimitate, poca supervisione e zero responsabilità – mentre gli investitori e le istituzioni pubbliche e private traggono liberamente profitto.. Il duraturo motore ideologico, politico ed economico del capitalismo razziale ha trasformato l’economia di occupazione di Israele, basata sullo sfollamento e sulla sostituzione, in un’economia di genocidio. Si tratta di una “impresa criminale congiunta”, in cui gli atti di uno avvantaggiano in ultima analisi un’intera economia che guida, rifornisce e rende possibile questo genocidio… Il settore aziendale, compresi i suoi dirigenti, deve essere chiamato a rispondere delle proprie azioni, come passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale di capitalismo razziale che lo sostiene».
Adriana Spera
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