Gli istituti di credito della zona euro sono pronti ad affrontare i cambiamenti climatici e le loro conseguenze? Questa è la grande domanda a cui cercano di dare una risposta gli stress test climatici voluti dalla Banca centrale europea (Bce). In pratica, sono simulazioni che misurano la vulnerabilità delle banche agli shock legati al clima. Questi esperimenti si sono svolti nel 2022, giungendo a risultati desolanti: nello scenario peggiore, le perdite complessive stimate avrebbero raggiunto i 70 miliardi di euro in un triennio. Una cifra che peraltro si riferisce soltanto alle 41 banche che avevano fornito dati sufficientemente dettagliati, sulle oltre cento che erano state coinvolte.
Sono passati tre anni: tre anni per affinare i metodi e adottare contromisure. Cominciando, magari, dalle pratiche di concessione di prestiti alle industrie con il maggiore impatto in termini di emissioni di gas serra. Un documento, pubblicato sempre dalla Banca centrale europea ad agosto, fa il punto su cosa è cambiato. Leggendolo si scopre che qualche miglioramento c’è stato, ma siamo ancora lontani dal poter dire che le grandi banche prendano sul serio la crisi climatica.
Cosa è cambiato per le banche europee dopo gli stress test climatici del 2022
Lo studio ha l’obiettivo di capire se i risultati degli stress test climatici abbiano influito sulle pratiche di erogazione dei prestiti da parte delle banche. Si apre con una notizia che, tutto sommato, appare rassicurante: le banche partecipanti, se confrontate con le altre, hanno ridotto i finanziamenti alle industrie più nocive in termini di emissioni.
È un segnale che, però, va letto con cautela. Innanzitutto, ci sono differenze strutturali tra le banche incluse negli stress test climatici e quelle escluse: differenze in termini di dimensioni, tipologia di clientela, norme a cui sono soggette e così via. In più, durante questi tre anni sono entrati in gioco altri fattori esterni, a partire dalla crisi energetica e dall’inflazione. Insomma, sarebbe imprudente affermare che questa variazione sia figlia solo ed esclusivamente degli stress test climatici.
Andando poi a vedere più da vicino come si sono comportate le banche, si scopre che a fare le spese di questa stretta al credito sono state le imprese più piccole. Per i cosiddetti large brown borrowers, cioè le grandi corporation che riversano enormi quantità di gas serra in atmosfera, non è cambiato quasi nulla. Inoltre, a rendere più severe le proprie politiche di finanziamento sono state soprattutto le banche che già in partenza erano più attente alle istanze climatiche.
Perché gli stress test climatici sono strumenti deboli e parziali
Insomma, gli stress test climatici sono strumenti molto parziali. Prendono spunto dagli stress test tradizionali, introdotti dopo la crisi finanziaria globale del 2008 per ristabilire la fiducia nel sistema bancario, ma rispetto a loro risultano ancora visibilmente più deboli. A cominciare dal fatto che prevedano solo la pubblicazione dei dati aggregati, senza dunque dare la possibilità di conoscere i risultati di ogni singola banca.
Per di più, per ora sono soltanto esercizi didattici che non espongono a sanzioni di alcun tipo. Una banca che non supera uno stress test tradizionale può essere costretta a rafforzare le proprie riserve di capitale. O, nei casi più gravi, essere soggetta a interventi straordinari da parte delle autorità di vigilanza. Una banca che “fallisce” uno stress test climatico, al contrario, riceve solo un’ammonizione.
Anche ipotizzando che in futuro gli stress test climatici abbiano ripercussioni più concrete, non è automatico che il clima ne tragga giovamento. Come spiega a Les Echos Paul Schreiber, analista della Ong Reclaim Finance, obbligando gli istituti a irrobustire i propri cuscinetti di capitale si assicurerebbe che dispongano delle risorse per tutelarsi da eventuali shock legati al clima. Una misura onerosa che, tuttavia, li lascerebbe liberi di elargire denaro ai colossi del petrolio e del gas.
Gravemente sottostimati i rischi climatici per le banche giapponesi
Non convincono nemmeno gli stress test climatici voluti dalla banca centrale giapponese insieme all’agenzia governativa che regola i mercati finanziari. Innanzitutto, coinvolgono soltanto tre istituti: Mitsubishi UFJ Financial Group, Mizuho Financial e Sumitomo Mitsui. I primi due sono rispettivamente al quarto e al quinto posto nella classifica dei maggiori finanziatori delle fonti fossili tra il 2021 e il 2024, il terzo non è monitorato nel rapporto Banking on Climate Chaos.
Per quest’analisi, inoltre, le tre banche si concentrano soltanto sui piani di transizione fino al 2030 (senza includere i rischi fisici). E lo fanno affidandosi a modelli grossolani che, invece di esaminare i piani di transizione delle singole aziende beneficiarie dei prestiti, si accontentano di dati generici di settore. Insomma: un compitino che le autorità hanno accettato senza sottolinearne a dovere i limiti. A seguito di queste simulazioni, le perdite di credito risultano contenute anche in presenza di una transizione ecologica disordinata. Ma è un risultato che, proprio per i suoi macroscopici limiti metodologici, appare ben poco affidabile.
Come spingere le banche a prendere davvero in considerazione il clima
Per innescare un cambiamento reale, insomma, serve molto di più degli stress test climatici così come sono stati concepiti finora. E proprio la Banca centrale europea ha una freccia al suo arco: intervenire sulle tipologie di asset che accetta come garanzie quando concede prestiti alle banche dell’area euro. Fin dal 2021, infatti, la Bce aveva promesso di iniziare a integrare considerazioni legate al clima. Ma l’idea sembrava caduta nel vuoto. Tant’è che, tra luglio 2024 e marzo 2025, aveva aggiunto alla sua lista di garanzie ammissibili le obbligazioni di nove colossi fossili. Un paradosso, perché le banche che investono nelle fossili finiscono per essere “premiate” con la liquidità della Bce.
Ma, a partire dal secondo semestre 2026, finalmente la Banca centrale europea introdurrà un “fattore climatico”. Ciò significa che, nell’accettare i bond come collaterale, ridurrà il valore di quelli emessi da compagnie petrolifere o altre società che hanno un impatto deleterio sul clima. Riconoscendo così il fatto che siano meno solide e affidabili nel medio-lungo periodo. «Qui parliamo di una misura che incide direttamente sulla politica monetaria e che potrebbe influenzare il modo in cui le banche percepiscono il rischio e trattano gli asset più inquinanti», chiosa Paul Schreiber di Reclaim Finance. Non è una panacea ma, perlomeno, invia un segnale chiaro al sistema bancario.
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