La spinta sulla digitalizzazione e l’avvento dell’AI stanno cambiando le carte in tavola nella sfida per la competitività. Oggi il fattore di differenziazione competitiva più rilevante non è più la capacità di possedere materialmente le tecnologie più avanzate, ma la capacità di comprenderle, governarle e sfruttarle per trarne i benefici promessi. Più che installare sensori o implementare software, oggi è imprescindibile coltivare un nuovo patrimonio di competenze, capace di dialogare con macchine sempre più intelligenti senza abdicare al ruolo decisionale umano. Su questo terreno si sono confrontati Paolo Foglio, Manufacturing Digitalization Strategy Manager di Iveco Group, e Gabriele Guzzetti, Operations Director di Galbusera, entrambi membri del comitato scientifico della fiera SPS Italia, con i quali abbiamo discusso ricavandone un insegnamento fondamentale: che la formazione continua e il pensiero critico sono i pilastri di una manifattura che voglia realmente essere a prova di futuro.
Istruzione, formazione ed esperienza
La discussione prende le mosse da un’equazione apparentemente semplice: “competenza = istruzione + formazione”. Una formula ‘storica’ che, secondo Foglio, rimane valida anche nel 2025, a patto di comprenderne le sfumature. “Tendiamo a utilizzare formazione e istruzione come sinonimi, in realtà non è così”, precisa Foglio. La formazione risponde alla domanda Come si usa uno strumento?, come quando si impara a operare su una macchina leggendo le istruzioni. L’istruzione, invece, è un processo più profondo: “È capire come funziona la tecnologia al di là di quello che sta facendo per noi”.
A questa somma, poi, Foglio aggiunge un terzo, fondamentale elemento: l’esperienza, che consolida il sapere e lo trasforma in capacità pratica.
Se la formazione è un compito che le aziende possono e devono assolvere per rendere operativo il personale, l’istruzione spetta al sistema scolastico e fornisce le basi concettuali per ragionare, interpretare e, infine, innovare. Senza una solida istruzione di base, la formazione rischia di diventare un mero addestramento meccanico, inadeguato a gestire la complessità e l’incertezza dei mercati attuali.
Le competenze digitali
L’avvento di tecnologie come l’intelligenza artificiale e l’analisi dei big data ha reso le competenze digitali un tema centrale. Tuttavia, come osserva Guzzetti, sarebbe un errore considerarle una categoria a sé stante: “Le competenze digitali non rappresentano di per sé né una categoria a sé stante e nemmeno uno standard, semplicemente sono delle hard skills”, dice Guzzetti. “Si tratta dunque delle abilità tecniche fondamentali richieste oggi per interagire con qualsiasi strumento, dalla friggitrice ad aria domestica all’MRP aziendale. L’interfaccia digitale è diventata l’elemento di mediazione universale tra l’uomo e la macchina.
Questo non significa che l’apprendimento sia identico. Imparare a usare un’interfaccia software o un attrezzo fisico, pur essendo entrambe attività che richiedono hard skill, “toccano corde e inclinazioni personali molto diverse”, sottolinea Guzzetti. Riconoscere questa differenza è fondamentale per le aziende, perché implica che “non esiste un percorso formativo general purpose adatto a tutti”. L’efficacia del trasferimento di competenze dipende dalla capacità di calibrare il percorso formativo sul singolo individuo, valorizzandone le attitudini.
L’AI? Non è un oracolo, ma un koala informatico
Il convitato di pietra del dibattito è l’intelligenza artificiale. La sua integrazione nei processi produttivi solleva interrogativi anche sul tema delle competenze. Come si insegna a un operatore o a un manager a collaborare con un algoritmo, fidandosi dei suoi suggerimenti ma mantenendo al contempo una sana diffidenza?
Guzzetti mette in guardia da una visione quasi magica della tecnologia: “Non siamo di fronte a un oracolo. L’intelligenza artificiale non deduce, ma induce, possiamo dire scommette”. La sua performance dipende dalla qualità e dalla vastità del set di dati su cui è stata addestrata. “Noi non conosciamo il set di dati su cui si basa e soprattutto non conosciamo il modello che possiede al suo interno”, spiega Guzzetti.
Questa “opacità” rende il pensiero critico la soft skill più importante. È necessario analizzare l’output dell’IA, interrogarsi sulla sua plausibilità e contestualizzarlo prima di prendere una decisione. La responsabilità finale, con le relative conseguenze, resta umana. Per questo Guzzetti definisce l’AI un “koala informatico: si nutre di una cosa sola, di dati”. Di conseguenza, una delle hard skill più richieste sarà proprio la capacità di gestire e analizzare i big data, ovvero la materia prima che alimenta questi sistemi.
Il valore irriducibile delle hard skill e del pensiero critico
In un’epoca che celebra il trionfo delle soft skill, Foglio lancia un avvertimento contro la tentazione di considerarle sostitutive delle competenze tecniche. Gettare dalla torre una delle due categorie sarebbe un errore fatale. “Tutto quello che noi facciamo prima o poi deve avere un riscontro nel mondo fisico”, ricorda. “Se ti casca sulla testa un trave di ferro, l’intelligenza artificiale non ne sa niente. Ti fa male e basta”. Al contempo, per muovere quella stessa trave in modo sicuro ed efficiente, “servono bit e byte”.
La sfida, secondo Foglio, è duplice. Da un lato, è necessario possedere una conoscenza hardware di base, “sapere fisicamente che cosa hai di fronte”, per demistificare la tecnologia e comprenderne i limiti. Dall’altro lato, occorre sviluppare un approccio quasi filosofico, chiedendosi non solo come funziona una tecnologia, ma perché è importante. L’IA, ad esempio, è fondamentale “perché crea un ponte tra due mondi: da una parte la massa enorme di dati che il digitale ha prodotto e produce ogni istante, dall’altra la vastità dei dati gestiti del nostro cervello con i suoi trilioni di sinapsi. Senza questo ponte, questi due mondi non comunicano in quanto, come esseri umani, siamo vincolati a una velocità di comunicazione sorprendentemente limitata, appena 40–50 bit al secondo”.
Comprendere questo “perché” è ciò che permette di usare la tecnologia in modo strategico e non puramente esecutivo. Lavorare in gruppo, risolvere problemi e pensare criticamente diventano quindi le abilità che permettono di orchestrare le hard skill in vista di un risultato concreto, chiudendo il cerchio di una competenza realmente efficace per l’industria del futuro.
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