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India–USA: il ritorno della guerra dei dazi e la rotta verso il Mediterraneo


LIVORNO – La guerra commerciale esplosa tra Stati Uniti e India nell’estate del 2025 è il segnale di una frattura ben più ampia del mero scambio di merci. Washington ha deciso di colpire Nuova Delhi con dazi fino al 50% su oltre metà delle esportazioni, ufficialmente per punire le importazioni di petrolio russo che l’India ha incrementato a prezzi scontati, garantendosi approvvigionamenti energetici vitali. In realtà, la mossa americana ha un valore politico e simbolico: si tratta di un monito diretto a un Paese che, pur legato storicamente al mondo anglosassone, non ha mai accettato di farsi imbrigliare in un’alleanza rigida.

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Il paradosso è evidente: mentre Londra ha scelto la via della cooperazione, firmando un accordo di libero scambio con Nuova Delhi, la Casa Bianca ha imboccato la strada opposta, sacrificando anche l’eredità della “special relationship”. Gli Stati Uniti, nel solco della dottrina America First rilanciata da Trump, trasformano i dazi in arma politica interna ed esterna: uno strumento per proteggere le industrie domestiche e, al contempo, un avvertimento ai Paesi che mantengono rapporti con Mosca e Pechino.

Questo schema si ripete in Brasile e Sudafrica, anch’essi nel mirino di Washington con dazi e sospensioni di aiuti. Nel primo caso, pesa anche la solidarietà verso Bolsonaro e la sfida aperta all’attuale establishment; nel secondo, le accuse di eccessiva vicinanza a Mosca hanno accelerato la rottura. In tutti i casi, gli Stati Uniti colpiscono i membri più esposti dei BRICS, considerati il nucleo di un blocco alternativo all’egemonia occidentale.

Gli effetti non hanno tardato: la rupia è crollata oltre quota 88 per dollaro, toccando un minimo storico prima dell’intervento della Reserve Bank of India, costretta a immettere liquidità per evitare un effetto valanga. Reuters ha calcolato in 9,7 miliardi di dollari i deflussi di capitale estero in poche settimane, mentre gli indici azionari hanno registrato la peggiore caduta da marzo. Eppure, secondo l’Economic Times, l’impatto, per quanto doloroso, è considerato “gestibile”: l’India dispone di fondamentali robusti, di una domanda interna ancora in crescita e di una diversificazione commerciale in atto da tempo. Non è la prima volta che Nuova Delhi affronta tempeste protezionistiche: la memoria storica della sua industria e il pragmatismo dei governi le hanno già insegnato a trasformare i vincoli in opportunità.

 Le risposte di Nuova Delhi e l’evoluzione strategica

L’India, dal canto suo, ha reagito rilanciando sul piano diplomatico ed economico. Ha intensificato i rapporti con Cina e Russia nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, e ha predisposto misure di sostegno per i settori più colpiti. L’autonomia strategica resta la bussola: diversificazione delle rotte commerciali, espansione verso Africa, Medio Oriente e Mediterraneo, e ricerca di nuove catene di fornitura. Non è solo sopravvivenza: è l’affermazione di un ruolo guida per i Paesi del Sud globale, che trovano nell’India un riferimento politico ed economico.

Il governo indiano tramite Il ministro delle Finanze Nirmala Sitharaman ha annunciato pacchetti di sostegno per gli esportatori, esenzioni fiscali e misure di credito agevolato, mentre diversi Stati federati hanno predisposto strumenti locali per proteggere comparti chiave. L’Odisha, ad esempio, ha avviato programmi di emergenza per l’industria ittica e tessile, cruciali per l’economia regionale. Questa resilienza istituzionale si accompagna a un chiaro disegno geopolitico: Narendra Modi, colpito dai dazi statunitensi, ha scelto proprio in questi giorni di recarsi in Cina per il summit dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. È il primo viaggio ufficiale in sette anni e, come sottolineato dal Guardian, ha il valore di un gesto politico dirompente: riaprire un canale diretto con Xi Jinping e rinsaldare al contempo il legame con Vladimir Putin.

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Non è un caso che, secondo il Times of India, l’India stia programmando di aumentare gli acquisti di petrolio russo già da settembre, assicurandosi così energia a basso costo per alimentare l’apparato industriale. La sua “ambiguità strategica” non è altro che la prosecuzione di una linea storica: mantenere indipendenza da blocchi rigidi, sfruttare la competizione fra grandi potenze, e riaffermarsi come leader dei Paesi non allineati. McKinsey, in un recente studio, ha stimato che, se saprà accelerare le riforme interne e valorizzare i settori emergenti – semiconduttori, veicoli elettrici, medicale – l’India potrebbe aggiungere fino a 2.000 miliardi di dollari al suo PIL entro il 2030.

Rotte e porti del Mediterraneo: una finestra da cogliere

Il Mediterraneo si prepara a essere uno dei principali beneficiari indiretti della disputa. Se le esportazioni indiane ridurranno la dipendenza dagli Stati Uniti, sarà naturale orientarle verso l’Europa. Porti come  Trieste, Livorno, Genova, Valencia, Pireo e Gioia Tauro possono intercettare quote di traffico containerizzato in crescita, specie se le grandi compagnie marittime decideranno di potenziare i collegamenti diretti India–Mediterraneo via Suez. In un contesto globale in cui le rotte del Mar Rosso restano minacciate dagli Houthi e il Mar Nero è ancora segnato dalla guerra, ogni ricalibrazione dei flussi assume un peso cruciale.

La visione del Messaggero Marittimo

Per il Messaggero Marittimo non è lecito limitarsi ai numeri. Per noi l’India è la vera cartina di tornasole del nuovo ordine mondiale: una potenza economica emergente che non si lascia irreggimentare né dall’Occidente né dalla Cina, e che sfrutta la propria posizione geografica, la sua enorme popolazione e i legami storici per proporsi come guida dei Paesi non allineati. I suoi punti di forza sono evidenti: una forza lavoro giovane, un mercato interno vastissimo, un’industria tecnologica in rapida crescita, un apparato militare che resta tra i più imponenti al mondo e un’autonomia energetica favorita dai rapporti privilegiati con Mosca.

Ma accanto a queste doti, non possiamo dimenticare le contraddizioni. All’interno, l’India resta divisa da fratture sociali e culturali profonde: il sistema delle caste continua a pesare sui Dalit e sugli Adivasi; la povertà estrema affligge ancora centinaia di milioni di persone; le campagne rimangono indietro rispetto a metropoli avveniristiche come Bangalore o Mumbai. Sul piano religioso, assistiamo a una progressiva egemonia dell’induismo nazionalista promosso dal Bharatiya Janata Party, che ridisegna i rapporti con le minoranze musulmane e cristiane, accrescendo tensioni interne. Sul piano militare e regionale, i rapporti con Pakistan e Cina restano carichi di diffidenza: dal Kashmir conteso ai confini himalayani, fino alle rivalità nell’Oceano Indiano, dove Nuova Delhi cerca di frenare la penetrazione della flotta cinese (anche se con la Cina sembra che gioco forza un legame stia nascendo).

Il nostro giornale osserva che queste contraddizioni non cancellano, ma anzi amplificano, il valore geopolitico dell’India. È proprio nel suo oscillare tra potenza emergente e fragilità strutturale che si gioca la partita del XXI secolo. Per i porti del Mediterraneo, comprenderne dinamiche e traiettorie è essenziale: oggi più che mai, i container che salpano da Chennai o Mumbai non portano solo merci, ma il segno tangibile di un equilibrio globale in trasformazione. L’India, con i suoi legami storici con Mosca, il suo avvicinamento tattico alla Cina e la sua sfida aperta a Washington, si conferma il nodo cruciale di un mondo multipolare, e da qui la riflessione centrale:

“La cosiddetta dottrina America First 2.0 non sta solo erodendo i rapporti commerciali, ma rischia di riscrivere l’architettura del mondo. Inseguendo la logica del dazio come clava, gli Stati Uniti si allontanano dagli alleati storici e spingono, paradossalmente, i BRICS a compattarsi in un fronte politico ed economico comune. Ne nascono legami che solo pochi anni fa sarebbero stati impensabili, come il dialogo costante tra Cina e India, rivali storici nel Pacifico, ora cementato anche dalla convergenza con Mosca. Questo blocco, dieci volte più forte dell’Urss per dimensioni economiche e demografiche, sta assumendo un peso crescente.

Nel frattempo, gli amici veri – Europa e Gran Bretagna – storcono il naso di fronte alle prepotenze di Trump, mentre i paesi arabi, amici per convenienza, osservano, godono e sfruttano l’occasione. Ma il punto interrogativo resta: gli Stati Uniti sono davvero più forti di Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica, con un’Europa indispettita e il mondo arabo alla finestra?



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