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i tre ostacoli che frenano il paese


Quest’estate il turismo in Italia restituisce un’immagine in parte inattesa: località balneari, città d’arte e borghi risultano vivaci e frequentati soprattutto da visitatori stranieri, mentre la presenza nazionale appare più contenuta. Un dato che sorprende se si considera che l’Italia è, per tradizione e vocazione, il Paese turistico per eccellenza, custode di un patrimonio paesaggistico e culturale riconosciuto a livello mondiale, oggi sempre più orientato verso una domanda internazionale. Americani, nordeuropei e viaggiatori con alta capacità di spesa non si lasciano dissuadere da costi elevati, che invece incidono in misura maggiore sulla classe media italiana, in particolare lungo le coste.

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Prezzi come 80 euro per un ombrellone giornaliero, pernottamenti paragonabili a un canone mensile e proposte gastronomiche declinate in chiave “esperienziale” anche nello street food testimoniano una trasformazione del mercato, legata tanto alla crescente attrattività dall’estero quanto agli effetti dell’inflazione sull’intero comparto. Per gli operatori si tratta della terza stagione consecutiva di forte crescita, mentre per molte famiglie italiane l’estate si configura come un’occasione da vivere in forme diverse, con una rinnovata attenzione al turismo di prossimità.
C’è però chi osserva che il turismo non arretra, ma si ridistribuisce, con nuove mete e territori capaci di intercettare flussi crescenti e offrire alternative alle destinazioni più tradizionali. È una lettura che coglie una parte della realtà, ma non esaurisce il quadro complessivo. Perché quella che oggi appare sulle pagine dei giornali come una fotografia suggestiva rimanda in realtà a dinamiche più profonde, riconducibili a un dato evidente: negli ultimi trent’anni il reddito medio degli italiani non ha conosciuto una crescita significativa. In termini reali, anzi, il potere d’acquisto ha registrato una progressiva erosione, fenomeno ampiamente documentato. L’estate, che nel nostro Paese continua a rappresentare una stagione a sé, nonostante i tentativi mai pienamente riusciti di annualizzare i flussi turistici, può offrire l’occasione per riflettere su queste tendenze di fondo, spesso lasciate in secondo piano.

Spesa turistica dei viaggiatori internazionali
(medie mobili di 3 mesi; variazioni percentuali sul corrispondente periodo dell’anno precedente)

Fonte: Banca d’Italia, statistiche sul turismo internazionale agosto 2025 (dati aggiornati a maggio’25)

 

Primo nodo: tra salari fermi e produttività stagnante, la scorciatoia del cuneo fiscale

I salari non crescono perché la produttività è ferma, si ripete sovente. È un problema cronico, radicato in un sistema produttivo composto in larga parte da micro e piccole imprese sottocapitalizzate, con scarsi investimenti in tecnologia, ricerca e risorse umane, cui si aggiungono l’assenza di infrastrutture di trasporto adeguate, realizzate con ritardi e costi eccessivi, e la tanto biasimata burocrazia che rallenta invece di facilitare.
A questo si somma l’illusione ricorrente, soprattutto nel dibattito pubblico nel Mezzogiorno, che si possa vivere di turismo. L’obiettivo malcelato di trasformare un Paese di 60 milioni di abitanti, o una macroarea di 20 milioni al Sud, in un esercito di baristi, camerieri e operatori stagionali è comune a molti, magari confidando di beneficiare indirettamente degli alti stipendi degli high quality jobs dei turisti altospendenti che qui vengono solo a svagarsi.
Va ricordato, tuttavia, che la gran parte di quei turisti, nella vita quotidiana, non serve cappuccini ma li consuma. Inoltre i servizi a basso valore aggiunto, per loro natura, non sono in grado di sostenere una crescita salariale ampia e duratura, quella che permette di accedere a un mutuo o di costruire una prospettiva pensionistica adeguata. Affidarsi quasi esclusivamente al turismo come motore di sviluppo rischia di esporre il sistema economico a fragilità strutturali, legate alla stagionalità e alla presenza ancora significativa di attività poco consolidate.

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La questione della produttività rappresenta un nodo complesso, che richiederebbe una strategia condivisa e di lungo periodo. Nonostante le criticità ancora aperte, le associazioni datoriali continuano a porre con forza l’esigenza di riduzioni fiscali e di strumenti di sostegno, mostrandosi però restie a collegare tali misure a impegni concreti e verificabili in termini di investimenti in digitale e innovazione.
I sindacati concentrano la loro azione sulla tutela del potere d’acquisto e sulla richiesta di un incremento del netto in busta paga, talvolta evocando strumenti adottati in passato come la “scala mobile”, senza tuttavia includere in maniera strutturale la produttività tra gli obiettivi della contrattazione. I governi, a prescindere dall’orientamento politico, tendono a privilegiare interventi caratterizzati da un ritorno immediato in termini di consenso.
Da qui la scelta ricorrente di intervenire sul cuneo fiscale, misura di immediata comprensione per l’opinione pubblica, utile alle imprese che beneficiano di un alleggerimento dei costi, apprezzata dai lavoratori che vedono un incremento, seppur contenuto, in busta paga e spendibile politicamente come risultato tangibile. Invero, si tratta di un intervento che non incide sulle condizioni strutturali dell’economia, non stimola la produttività né favorisce la crescita del capitale umano. Inoltre, il taglio del cuneo fiscale presenta un effetto collaterale rilevante: la riduzione del gettito contributivo dell’INPS, in un contesto in cui la platea dei versanti si restringe. Meno occupati per ragioni demografiche e minori contributi significano maggiore pressione sul sistema previdenziale, con rischi di sostenibilità nel medio-lungo periodo superiori a quanto spesso emerge nel dibattito politico.
In questo quadro, assume rilievo il discorso che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pronunciato al Congresso della Cisl di luglio. In quella sede, nel celebrare i “mille giorni” di governo, la premier ha indicato con chiarezza la centralità della produttività del lavoro nell’agenda politica, definendola “il vero motore di ogni sistema economico” e collegandola esplicitamente all’andamento dei salari. Un messaggio che segna una discontinuità rispetto agli anni recenti, in cui il tema era stato in larga parte marginalizzato a favore di misure più immediate.

Fonte: Youtrend

Secondo nodo: la demografia e le soluzioni che non ci sono

A questa stagnazione della produzione si somma un fattore strutturale di lungo periodo che ci riguarda più di altri: il rapido invecchiamento della popolazione. L’Italia è tra i Paesi al mondo in cui la quota di anziani cresce più velocemente e quella di persone in età lavorativa, che comprende una drammatica sacca di inattivi, si riduce in modo costante.
Le implicazioni sono significative, in particolare per i servizi pubblici. Sanità, istruzione, trasporti e utilities dovranno rispondere a una domanda crescente a fronte di un gettito contributivo in diminuzione. Numerose società partecipate degli enti locali continuano a operare facendo leva su rendite consolidate, livelli tariffari elevati o su forme di sostegno pubblico, elementi che pongono ulteriori interrogativi sulla loro sostenibilità di lungo periodo.
Se non è possibile invertire questa tendenza strutturale, sarebbe urgente attutirne l’impatto con investimenti mirati in soluzioni tecnologicamente avanzate: la telemedicina e l’assistenza domiciliare digitale per ridurre la pressione sul sistema sanitario, l’automazione nei servizi pubblici per mantenere gli standard con meno personale, e in futuro l’applicazione dell’intelligenza artificiale nella gestione amministrativa e nelle infrastrutture sociali.
Tuttavia, queste tecnologie richiedono competenze che oggi mancano: le università italiane non producono abbastanza laureati in discipline STEM, il numero di diplomati tecnici è insufficiente, gli ITS (Istituti Tecnici Superiori) restano marginali nel sistema formativo e poco valorizzati al Sud, dove persiste inalterata la piaga degli inattivi. È un doppio deficit: di visione, perché non si pianifica per tempo come compensare il calo della forza lavoro con il capitale tecnologico, e di strumenti, perché mancano i profili in grado di progettare, gestire e implementare la trasformazione digitale.
La questione demografica è oggi aggravata più dall’assenza di una strategia immediata per dotare il Paese delle capacità tecniche necessarie per fronteggiarla, che dal problema delle culle vuote. Col passare degli anni, questa inerzia rischia di trasformare una criticità grave in un’emergenza irreversibile, destinata a diventare il tema principale delle prossime manovre di bilancio, perché lo spazio fiscale a disposizione per misure correttive sarà sempre di meno, con inevitabili ripercussioni sul gradimento dei governi in carica.

Terzo nodo: la macchina dello Stato e il disastro del livello locale

Il terzo grande problema riguarda la struttura stessa dello Stato, soprattutto nella sua dimensione territoriale. Se a livello centrale la qualità della classe dirigente è in declino, a livello locale la situazione è spesso catastrofica.
Le regioni, con poche eccezioni, sono diventate focolai di clientelismo e inefficienza. La devolution non ha migliorato i servizi, in molti casi li ha peggiorati, e la sussidiarietà verticale e soprattutto orizzontale è sconosciuta nel Meridione. Il decentramento non ha contribuito a una maggiore responsabilità delle classi dirigenti, ma ha favorito un permanente “scaricabarile” tra regioni e Stato centrale, in cui ciascuno recita alternativamente il ruolo di poliziotto buono o cattivo. La sanità è l’esempio più evidente, con disuguaglianze territoriali crescenti che dimostrano come le classi dirigenti regionali, con poche rilevanti eccezioni, non siano state all’altezza della sfida di garantire servizi di qualità ai cittadini.
L’esempio di questi giorni del Comune di Taranto e del rigassificatore è emblematico. La localizzazione di un’infrastruttura strategica per la sicurezza energetica e per il rilancio del più importante sito siderurgico del Paese è ostacolata e rallentata da giochi politici in un territorio che avrebbe bisogno di sviluppo e certezze, e che non può certo pensare di trasformare ventimila operai in operatori turistici. Un copione già visto anche in Toscana, dove il rigassificatore di Piombino ha incontrato forti resistenze, con il Governatore e il Movimento 5 Stelle in prima linea nel contestarne la realizzazione.
Ma casi analoghi si riscontrano in diversi ambiti, dalla realizzazione degli impianti per la gestione dei rifiuti alla risposta alle emergenze idriche, rispetto alle quali gli enti locali hanno spesso mostrato difficoltà nel definire e attuare soluzioni efficaci e tempestive.
Questa fragilità istituzionale emerge in maniera plastica nella capacità di spesa dei fondi europei, con progetti che si arenano, bandi che slittano e lo scandalo delle risorse mai utilizzate e restituite a Bruxelles. Il cittadino sperimenta queste inefficienze soprattutto nel rapporto quotidiano con la pubblica amministrazione di prossimità: comuni, regioni, aziende partecipate. È in quel contatto diretto che si misura la credibilità dello Stato.

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Eppure, nulla è ancora perduto. Gli sviluppi della tecnologia possono ancora arrivare in nostro soccorso in modi oggi difficili da prevedere. Le applicazioni dell’intelligenza artificiale, per esempio, potranno aiutarci a compensare parte delle debolezze che ci trasciniamo, a ridurre l’impatto dell’invecchiamento, a far crescere la produttività, a rendere più competitivi i servizi.
Intendiamoci poi, non tutto il turismo è a basso valore aggiunto. Ci sono esempi in cui, puntando sul lusso e sull’alta qualità dei servizi si è riusciti a creare ricchezza e a distribuirla nei territori. La Costa Smeralda lo dimostra ancora oggi e in generale sono diverse le aree capaci di attrarre un turismo internazionale di fascia alta, con ricadute positive sull’economia locale. Ma sono eccezioni, e come tali vanno considerate, perché il quadro generale purtroppo è quello che abbiamo fin qui descritto.
Per questo serve un’agenda capace di fissare alcune priorità condivise. Solo se la politica saprà individuarle e mantenerle nel tempo, sarà possibile non solo difendere ciò che abbiamo, ma anche costruire nuove opportunità di crescita e benessere per le prossime generazioni.





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