Dall’intelligenza artificiale al quantum computing, la battaglia tecnologica ridisegna i rapporti di forza mondiali.
Mentre Stati Uniti e Cina si sfidano a colpi di investimenti miliardari, l’Europa cerca la sua strada tra regolamentazione e competitività. L’Italia non può permettersi di restare a guardare.
La tecnologia come arma geopolitica
Il mondo è cambiato. Se nel Novecento il potere si misurava in barili di petrolio e riserve auree, oggi la vera moneta di scambio geopolitico è l’innovazione tecnologica. L’intelligenza artificiale, i semiconduttori avanzati, il quantum computing e le biotecnologie non sono più semplici settori industriali: sono diventati strumenti di influenza economica, politica e militare.
La geografia dei brevetti rivela la vera battaglia in corso. Nel 2023, la Cina ha depositato 69.540 brevetti legati all’intelligenza artificiale, contro i 43.430 degli Stati Uniti e appena 7.850 dell’intera Unione Europea, secondo l’Ufficio Mondiale della Proprietà Intellettuale. Una sproporzione che racconta di investimenti, priorità strategiche e visioni del futuro profondamente diverse.
La posta in gioco è altissima. Chi controllerà le tecnologie del futuro determinerà anche le regole del commercio globale, della sicurezza informatica e persino dei diritti digitali di miliardi di persone.
Stati Uniti: il modello Silicon Valley va in guerra
L’America ha trasformato la sua tradizionale supremazia tecnologica in una vera strategia di sicurezza nazionale. Il CHIPS and Science Act, con i suoi 280 miliardi di dollari di investimenti, non è solo politica industriale: è geopolitica applicata. Gli Stati Uniti ospitano 666 delle 1.361 “unicorni” globali (startup valutate oltre 1 miliardo), quasi la metà del totale mondiale.
Il successo americano affonda le radici in una cultura dell’innovazione unica al mondo. La Silicon Valley non è solo un luogo geografico, ma un ecosistema mentale che celebra il fallimento come apprendimento, premia la velocità di esecuzione e trasforma idee visionarie in imperi economici. Questa mentalità si è estesa ben oltre la California: da Boston a Seattle, da Austin a Miami, ogni città americana ambisce a replicare il modello vincente.
Il modello funziona perché combina tre ingredienti vincenti. Capitali privati illimitati, università che sfornano talenti a ciclo continuo, e soprattutto un ecosistema dove startup e giganti tech collaborano con il governo senza complessi ideologici. Il 71% dei ricercatori stranieri in AI sceglie di rimanere in America dopo la laurea, secondo uno studio MIT, attirati non solo da stipendi elevati ma da una libertà di ricerca e sperimentazione impensabile altrove.
La collaborazione tra settore pubblico e privato è diventata sistematica. DARPA, l’agenzia di ricerca del Pentagono, finanzia progetti all’avanguardia che poi diventano standard commerciali. Google, nata da un progetto universitario finanziato dalla NSF, oggi lavora a stretto contatto con la NASA per l’informatica quantistica. Un circolo virtuoso che trasforma la ricerca di base in vantaggi competitivi globali.
ChatGPT rappresenta un caso emblematico di questa capacità, avendo raggiunto 100 milioni di utenti in appena due mesi dal lancio, un record assoluto che dimostra come l’America riesca a trasformare l’innovazione in soft power globale.
Cina: pianificazione centralizzata e ambizioni globali
Pechino ha scelto una strada diversa, ma altrettanto efficace: la pianificazione di lungo termine combinata con investimenti statali massicci. Il piano “Made in China 2025” ha portato la Cina a diventare seconda al mondo per spesa in ricerca e sviluppo, con una crescita del 44% negli investimenti R&D tra il 2018 e il 2023.
Il modello cinese combina controllo strategico statale e competizione di mercato in modo sorprendentemente efficace. Mentre il governo definisce le priorità tecnologiche attraverso piani quinquennali, le aziende competono ferocemente tra loro per conquistare quote di mercato. Giganti come Alibaba, Tencent e Baidu operano in un ecosistema dove l’innovazione è incentivata ma sempre allineata agli obiettivi nazionali.
La forza cinese sta nella scala e nella velocità di implementazione. Shenzhen, da villaggio di pescatori negli anni ’80, è oggi il cuore tecnologico mondiale per l’elettronica di consumo, con oltre 14.000 aziende high-tech in 40 chilometri quadrati. La città produce il 90% dei droni commerciali globali e ospita giganti come Huawei, Tencent e DJI.
I risultati sono evidenti: il 40% dei paper scientifici mondiali in intelligenza artificiale porta la firma di ricercatori cinesi, contro il 29% americano, secondo Nature Index. Ma è nell’applicazione commerciale che la Cina eccelle davvero. WeChat combina messaggistica, pagamenti e servizi in un super-app utilizzata da 1,3 miliardi di persone, un modello che l’Occidente sta ancora cercando di replicare.
ByteDance (TikTok), valutata 268 miliardi di dollari, dimostra come l’innovazione cinese riesca a competere globalmente anche in settori dominati dalle big tech americane. Ma il modello centralistico mostra anche i suoi limiti: solo 168 unicorni cinesi contro i 666 americani, segnale di un ecosistema che fatica ad attrarre capitali e talenti internazionali.
Europa: tra regolamentazione e ritardo competitivo
L’Unione Europea ha scelto di giocare una partita diversa, puntando sulla “sovranità digitale” attraverso la regolamentazione. L’AI Act, il Digital Services Act e il GDPR hanno fatto dell’Europa il legislatore globale del digitale. Una strategia intelligente che però fatica a tradursi in innovazione industriale concreta.
Il paradosso europeo ha radici profonde nella propria storia. L’Europa eccelle nella ricerca fondamentale – il CERN ha inventato il World Wide Web, il Max Planck Institute guida la ricerca quantistica – ma fatica a trasformare le scoperte in giganti commerciali. La frammentazione normativa tra 27 Paesi, la scarsità di capitali di rischio e una cultura avversa al fallimento creano ostacoli strutturali alla crescita delle startup.
Il fenomeno del brain drain europeo è particolarmente preoccupante. Il 40% dei laureati in AI e computer science emigra negli Stati Uniti entro 5 anni dalla laurea, secondo uno studio del MIT. Ma dietro questo esodo si nascondono eccellenze che meritano attenzione. L’École Polytechnique Fédérale di Losanna è tra i top-5 mondiali per la robotica, mentre l’Università di Oxford guida la ricerca in quantum computing attraverso spin-off come Oxford Quantum Computing.
Eppure l’Europa eccelle in nicchie specifiche dove combina tradizione industriale e innovazione tecnologica. ASML (Olanda) detiene il 90% del mercato mondiale delle macchine per litografia EUV, essenziali per i chip più avanzati, mentre Spotify ha rivoluzionato l’industria musicale globale partendo dalla Svezia. Nel fintech, Londra compete alla pari con New York, con aziende come Revolut e Wise che ridefiniscono i servizi bancari.
Il modello nordico offre spunti interessanti: Finlandia e Danimarca, pur con popolazioni ridotte, producono più unicorni per milione di abitanti di Francia e Germania. La chiave? Governi che investono pesantemente in ricerca, sistemi educativi eccellenti e una cultura imprenditoriale pragmatica.
Il GDPR è stato adottato da 132 Paesi nel mondo, dimostrando che l’Europa può ancora dettare standard globali. Ma con solo 127 unicorni contro i 666 americani e 168 cinesi, il gap competitivo resta significativo.
L’Italia di fronte al bivio
In questo scenario, l’Italia presenta luci e ombre che riflettono le contraddizioni del nostro sistema Paese. Il nostro Paese investe l’1,47% del PIL in ricerca (contro il 3,14% della Germania), ma vanta eccellenze riconosciute a livello mondiale che spesso non riescono a esprimere tutto il loro potenziale.
Leonardo compete nella top-5 mondiale dell’aerospazio e difesa, con tecnologie all’avanguardia nei droni militari e nei sistemi di combattimento che equipaggiano le forze armate di mezzo mondo. Ma è nell’automazione industriale che l’Italia mostra il suo DNA innovativo più profondo. Comau, oggi parte di Stellantis, ha rivoluzionato le linee di produzione automotive globali, mentre aziende come Brembo dominano i sistemi frenanti delle auto sportive più esclusive al mondo.
Il tessuto delle PMI innovative italiane nasconde gioielli sconosciuti al grande pubblico, ma leader nei rispettivi settori. Datalogic, nelle soluzioni di identificazione automatica, compete con i giganti americani e asiatici. Prysmian, nel settore dei cavi sottomarini per telecomunicazioni, è leader mondiale e sta cablando il futuro digitale del pianeta con investimenti da miliardi.
È nel deep tech che l’Italia mostra potenzialità inespresse. Il più alto tasso di crescita europeo nelle startup greentech (+127% negli ultimi 3 anni) e agritech (+89%) secondo il Digital Economy and Society Index rivela un fermento che combina tradizione manifatturiera e innovazione digitale. L’agritech italiano, forte di una tradizione agricola millenaria, sta sviluppando soluzioni per l’agricoltura di precisione che attraggono investimenti da tutto il mondo.
Il posizionamento geografico dell’Italia offre opportunità uniche. Essere il ponte naturale tra Europa, Africa e Medio Oriente significa potenziali vantaggi nella gestione dei dati, nelle telecomunicazioni e nell’economia digitale del Mediterraneo. Milano sta emergendo come hub fintech europeo, mentre il Nord-Est sviluppa competenze uniche nella meccatronica e nell’automazione.
La sfida è trasformare questi punti di forza dispersi in una strategia nazionale capace di attrarre investimenti internazionali e creare campioni tecnologici globali. Il talento c’è – i cervelli italiani emigrati guidano innovazione in Silicon Valley, Londra e Singapore. Manca ancora la capacità di sistema di trattenerli e valorizzarli.
Il futuro appartiene a chi saprà innovare strategicamente
La geopolitica dell’innovazione non è una tendenza passeggera: è la nuova normalità. McKinsey stima che entro il 2030 il 70% del valore economico globale dipenderà da tecnologie digitali avanzate, mentre il World Economic Forum prevede che 50 milioni di posti di lavoro saranno trasformati dall’automazione nei prossimi 5 anni.
I modelli in competizione sono chiari. Gli Stati Uniti puntano sulla potenza del capitale privato (1,2 trilioni di dollari di dry powder nei fondi VC) e sulla capacità di attrarre il 40% dei migliori talenti STEM mondiali. La Cina scommette sulla pianificazione statale e sulla scala dimensionale: 1,4 miliardi di utenti digitali e 854 milioni di lavoratori della knowledge economy.
L’Europa cerca di affermarsi come standard-setter globale – il GDPR è stato adottato da 132 Paesi – ma deve ancora tradurre questa influenza normativa in leadership industriale. Con solo 127 unicorni contro i 666 americani e 168 cinesi, il gap competitivo resta significativo.
L’Italia ha margini di manovra, ma deve accelerare. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza destina 48,7 miliardi alla transizione digitale, una chance unica per colmare il divario. La domanda finale resta aperta: saremo protagonisti di questa rivoluzione o semplici spettatori del cambiamento più importante del XXI secolo?
Gabriella Scapicchio
Direttrice Generale Fondazione NEST
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