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AI Made in Italy: l’emergenza ignorata


L’Italia sogna l’intelligenza artificiale, ma resta inchiodata alla teoria. Strategie ambiziose, conferenze affollate, task force ministeriali: nel discorso pubblico l’AI è ovunque. Eppure, nella realtà produttiva è altrove. Le imprese comprano soluzioni estere, la ricerca accademica resta isolata, la pubblica amministrazione si limita a osservare. La filiera nazionale fatica a nascere. E quella che esiste non ha la forza per scalare. Le buone idee non mancano: esistono già piccoli modelli linguistici in italiano, piattaforme per settori verticali e Startup con competenze solide.

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Ciò che manca sono gli investimenti sistemici, l’interoperabilità tra ricerca e industria, un coordinamento vero.

Più di tutto, è il tempo a essere scarso. Perché mentre il Mondo costruisce, noi discutiamo. Il risultato è un ecosistema che funziona solo a tratti, per eccezioni. Con punte d’eccellenza, sì, ma senza struttura solida. Il rischio è di continuare a importare l’AI, invece di costruirla. Crescita veloce, impatto basso. Il Mercato italiano dell’intelligenza artificiale continua a salire nei numeri assoluti, ma resta irrilevante nelle proporzioni. Nel 2025 la spesa in AI ha superato gli 1,2 miliardi di euro, con un incremento del 58% rispetto all’anno precedente (Fonte: Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano). Una corsa accelerata, ma isolata. In Germania, lo stesso Mercato vale già oltre 5 miliardi. In Francia, ha sfondato quota 3. La distanza non è più tecnica: è sistemica.

Il nostro Paese si distingue per un’adozione superficiale. Quasi la metà degli investimenti è concentrata su strumenti “chiavi in mano”, sviluppati all’estero: ChatGPT, Copilot, Gemini. Il 53% delle grandi aziende ha integrato tool di AI generativa, un dato superiore alla media europea. Ma dietro i numeri c’è il vuoto: pochi progetti nativi, nessun prodotto proprietario, scarsa integrazione nei processi. L’AI viene acquistata, non progettata.

Il 59% delle grandi aziende ha avviato almeno un progetto di intelligenza artificiale, ma solo il 25% ha portato qualcosa a regime. La maggior parte si ferma a prototipi o proof of concept. Il resto del sistema è assente. Appena il 15% delle medie imprese ha messo mano a un progetto. Tra le piccole, meno del 7%. La frattura tra attori di grandi dimensioni e PMI è evidente quanto potenzialmente letale per il futuro: senza una diffusione capillare, il Mercato non diventa ecosistema.

Questa dinamica produce un effetto distorsivo. I numeri crescono, ma si concentrano in pochi settori: finanza, telecomunicazioni, assicurazioni. Altrove – manifattura, turismo, agroalimentare – l’intelligenza artificiale resta un oggetto ancora teorico. Il risultato è un’adozione diseguale, poco resiliente, esposta alla volatilità degli early adopter.

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La pubblica amministrazione non fa eccezione. Secondo i dati 2025, pesa appena per il 6% della spesa AI nazionale. In altri Paesi, al contrario, è tra i principali catalizzatori. Qui si muove con cautela, se non con immobilismo. Eppure è proprio il settore pubblico a disporre della maggiore quantità di dati, oltre che del potere di orientare la domanda.

Molti progetti AI made in Italy, pochi prodotti

Il talento non manca. I centri di ricerca italiani pubblicano, collaborano, partecipano ai principali progetti europei. L’Istituto Italiano di Tecnologia, il CNR, i Politecnici di Milano e Torino, le università di Roma, Pisa, Bologna: il capitale scientifico c’è, ed è competitivo. Il supercomputer Leonardo, installato al Tecnopolo di Bologna, è il quarto più potente al mondo. E il sistema FAIR – Future AI Research – mette in rete 25 enti e oltre 350 ricercatori, con l’obiettivo di sviluppare intelligenze artificiali «trasparenti, affidabili, inclusive e sicure».

Ma l’eccellenza, da sola, non fa un ecosistema. Manca il ponte con l’industria. La ricerca produce, ma spesso non trova sbocchi. I progetti restano confinati dentro ai laboratori o al massimo si traducono in paper. Pochi diventano prodotto. Ancora meno diventano impresa. I meccanismi di trasferimento tecnologico sono lenti, burocratici, frammentati. E le imprese, specie le PMI, non sono attrezzate per dialogare con il mondo accademico.

L’Istituto AI4I, nato a Torino nel 2024 con l’obiettivo di favorire l’incontro tra mondo produttivo e ricerca, è un passo nella direzione giusta. Ma è un nodo ancora isolato. La sua esistenza conferma quanto manchi una rete capillare e funzionante. L’Italia non ha veri hub nazionali, solamente poli che funzionano a compartimenti stagni. E dove la comunicazione si interrompe, la tecnologia rischia di non crescere.

Lo stesso vale per i modelli linguistici. La Francia finanzia Mistral AI, la Germania ha Aleph Alpha. Entrambe lavorano su modelli proprietari di nuova generazione. Per il momento, noi siamo fuori da questa corsa. Esistono LLM italiani open source, piccoli e promettenti – Fauno, Dante, Licentia – ma restano confinati nella sfera accademica o dentro a comunità di sviluppatori indipendenti. Nessuno ha superato la massa critica. Nessuno ha ricevuto finanziamenti significativi.

Non è questione di capacità, ma di struttura. L’AI Made in Italy esiste, in bolle che non comunicano tra loro. E se non si riesce a far parlare ricerca, industria e politica, pare difficile costruire un’AI nazionale.

Startup che non scalano

Il paradosso italiano è tutto qui: ci sono più idee che capitale. Le Startup che lavorano su intelligenza artificiale non mancano. Secondo i dati aggiornati del Registro delle Imprese, sono oltre 300 quelle iscritte come attive nel settore AI. Alcune hanno sviluppato prodotti verticali per ambiti strategici – sanità, manifattura, finanza, agritech. Altre operano nel campo della visione artificiale, dei digital twin, dell’analisi predittiva. Il problema non è la qualità. È la dimensione.

Queste realtà faticano a scalare. Raccolgono seed round da business angel o fondi early stage, poi si fermano. Troppo piccole per attrarre investitori internazionali, troppo in anticipo per interessare le grandi aziende italiane. Soprattutto, troppo isolate per creare reti di collaborazione. Senza un ecosistema che le accompagni, rimangono confinate nella fase prototipale. E quando riescono a crescere, spesso si trasferiscono all’estero.

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Il capitale di rischio in Italia resta debole. Dopo il picco del 2022, gli investimenti in Startup AI si sono ridotti, allineandosi al trend europeo. Ma mentre in Francia e Germania le grandi scaleup hanno continuato a raccogliere fondi – con Mistral AI e Aleph Alpha che superano i 500 milioni di euro ciascuna – in Italia non si registrano round superiori ai 10 milioni nell’ultimo anno.

Il Governo ha annunciato nel 2024 la nascita di un fondo pubblico da 600 milioni, gestito da CDP Venture Capital, dedicato proprio a Startup e PMI innovative nel settore dell’intelligenza artificiale. È una mossa strategica, sulla carta. Ma l’effettiva operatività è ancora in fase di avvio. Mancano criteri chiari, scadenze certe, una regia tecnica. Il rischio è che si tratti dell’ennesimo fondo promesso ma non attivato.

Nel frattempo, il sistema continua a girare a vuoto. Le imprese innovative chiedono risorse, i fondi aspettano progetti maturi, e gli incumbent cercano soluzioni pronte. Nessuno fa il primo passo. E in questo stallo, le migliori idee rischiano di non sopravvivere abbastanza da diventare impresa.

Pubblica Amministrazione: un motore spento

Nel dibattito sull’intelligenza artificiale, la pubblica amministrazione italiana è il grande assente. Ha i dati, ha il potere di indirizzo, ha il potenziale per diventare motore dell’innovazione. Ma non agisce.

Eppure, le occasioni non mancano. I dataset pubblici – anagrafiche, sanità, giustizia, tributi, catasto – potrebbero alimentare modelli linguistici, sistemi predittivi, piattaforme conversazionali. Ma restano frammentari, chiusi, inaccessibili. La cultura del dato non è mai diventata politica.

La strategia AI 2024-2026 prevede almeno 150 progetti candidabili all’adozione nella PA. Ma senza interoperabilità, team tecnici interni e un quadro normativo chiaro, il rischio è che tutto resti sulla carta. I bandi si moltiplicano, i progetti arrancano, gli impatti non si vedono.

Invece di fare da traino, la pubblica amministrazione si limita a osservare. In alcuni casi, frena. In altri, delega.

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Connessioni deboli

Il sistema è fragile, ma non è vuoto. L’Italia non è in ritardo perché mancano le idee. È in ritardo perché non sa come trasformarle in sistema. Ha università eccellenti, laboratori avanzati, Startup competenti. Ma le connessioni tra questi elementi restano deboli, occasionali, non strategiche. Manca la visione industriale, manca la continuità degli investimenti, manca una regia stabile. La filiera c’è, ma è incompleta. E una catena incompleta non genera valore: disperde energie, disperde competenze, disperde opportunità.

L’AI italiana oggi vive in bolle: la ricerca lavora per conto suo, le imprese comprano tool esteri, la PA osserva. Quando il sistema funziona, lo fa per eccezioni. L’obiettivo è fare in modo che quelle eccezioni diventino normalità, passando dall’adozione allo sviluppo e alla produzione.

C’è anche qualche segnale incoraggiante. Il fondo da 600 milioni promesso da CDP, se ben allocato, può diventare un catalizzatore. I centri come FAIR e AI4I, se connessi all’impresa, possono ridurre la distanza tra chi progetta e chi costruisce. I dati pubblici, opportunamente resi accessibili, possono alimentare modelli utili al Paese. I dottorati in AI – qualora si riuscissero a trattenere i ricercatori – possono creare una generazione di innovatori nazionali.

La tecnologia non aspetta. Ma nemmeno è esclusiva dei Paesi più grandi. La differenza la fa la capacità di mettere a sistema ciò che si ha. L’Italia, a differenza di altre rivoluzioni industriali, questa volta parte con un certo vantaggio: conosce i suoi punti deboli. Ora deve solo decidere se ha intenzione di superarli.

La finestra per costruire un’AI Made in Italy è ancora aperta. Ma non durerà per sempre. ©

📸 Credits: Canva  

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Articolo tratto dal numero del 1 settembre de il Bollettino. Abbonati!





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