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il dragone domina il mercato dei principi attivi


Lo scorso anno Pechino è stata al vertice mondiale per il lancio di nuove molecole e ormai ha il monopolio globale nella produzione di principi attivi farmaceutici. Scavalcando gli Stati Uniti e l’Europa, ferma al palo. E l’Italia? La nostra leadership nella Ue resta forte, ma servono  strategie e investimenti per crescere.  

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I riflettori finora sono stati puntati sui dazi imposti dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ma per l’industria farmaceutica europea e italiana il pericolo non viene da oltre oceano ma dal Far East. È la Cina il nemico numero uno. Le tariffe doganali americane (ancora da definire quando questo numero è andato in stampa) fanno male, ma non saranno quelle gabelle a segnare il declino della competitività del Vecchio continente, che ha ben altre cause. Bastano alcuni dati per capire la situazione. L’ultimo rapporto della Efpia (European federation of pharmaceutical industries and associations) offre un’analisi dettagliata di questo settore strategico nei 27 Paesi membri dell’Ue. Un comparto in continua crescita – con 950 mila addetti diretti e 2,8 milioni nell’indotto – e che nel solo 2024 ha puntato 55 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, confermandosi quello con il maggiore reinvestimento percentuale dei ricavi. Tuttavia, i dati rivelano anche segnali preoccupanti: l’Europa sta rapidamente perdendo terreno rispetto ai competitor orientali, in particolare alla Cina, diventata nuova superpotenza dell’innovazione farmaceutica. Nel 2024, il Paese è stato primo al mondo per numero di nuove sostanze attive lanciate sul mercato, relegando l’Europa, che nel 2000 aveva il primato globale, al terzo posto dopo gli Usa.

Attualmente dall’ex Celeste impero arrivano il 75 per cento dei principi attivi e il 60 dell’alluminio necessario al confezionamento. Per gli antibiotici, la dipendenza mondiale dalla sua produzione di princìpi attivi si colloca addirittura fra l’80 e il 90 per cento. Il mercato farmaceutico più grande continua a essere quello americano, che nel 2024 ha rappresentato il 54,8 per cento delle vendite mondiali di medicine contro il 22,7 del Vecchio continente e il 7,1 della Cina. Quest’ultima, pur non avendo ancora i numeri di vendite degli Stati Uniti, punta però tutto su ricerca e innovazione.

Dal 2009 al 2024, Pechino ha visto crescere il suo peso arrivando, con il 30 per cento degli studi scientifici globali, a ridosso dagli Usa (35 per cento) mentre l’Europa è scivolata dal 44 al 21 per cento. Negli ultimi 25 anni il Vecchio continente ha perso un quarto degli investimenti in ricerca e sviluppo rispetto agli Stati Uniti. Su un totale di 155 prodotti farmaceutici importati dall’Ue, 14 presentano un livello di dipendenza dagli scambi extra Ue elevato e critico. Per l’Italia la dipendenza sale addirittura a 24.

Un recente rapporto pubblicato dalla National security commission on emerging biotechnology, istituita dal Congresso americano nel 2022, ha lanciato un allarme: senza un intervento strategico e immediato, Washington potrebbe non essere più in grado di recuperare il vantaggio perduto.

La Commissione ha fatto notare che la Cina ha posto le biotecnologie al centro delle sue priorità politiche e industriali da almeno due decenni, avviando un programma di investimenti pubblici e privati volto a ottenere la leadership globale. L’uso sempre più avanzato dell’Intelligenza artificiale e il sostegno governativo a imprese strategiche come WuXi AppTec – gigante della produzione biofarmaceutica conto terzi – hanno reso Pechino un concorrente sempre più difficile da contrastare. Come affermato dal presidente della Commissione, il senatore repubblicano Todd Young, la competizione con il Dragone «definirà il prossimo secolo» e la biotecnologia rappresenta una fase decisiva di questa sfida.

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Eppure nonostante le tensioni commerciali, le aziende farmaceutiche statunitensi stanno stringendo accordi con i colossi biotech cinesi, soprattutto nel settore dei farmaci antitumorali, a conferma della maturità della ricerca nel settore. C’è un aumento delle transazioni di out-licensing, con accordi che superano il miliardo di dollari, come nel caso dell’acquisizione da parte di Pfizer, di un prodotto sperimentale per trattare il cancro da un’azienda cinese per 1,25 miliardi di dollari, mentre Roche ha siglato un’intesa con MediLink Therapeutics per lo sviluppo e la commercializzazione di un trattamento oncologico. AstraZeneca ha acquistato Gracell Biotechnologies, big nelle terapie cellulari CAR-T, per 1,2 miliardi di dollari.

La Cina è diventata la farmacia del mondo. Ce ne siamo resi conto durante il Covid. Perfino le banalissime mascherine venivano prodotte tutte lì. Se Pechino fermasse le esportazioni, in pochi mesi gli scaffali delle farmacie americane ed europee si svuoterebbero e gli ospedali andrebbero in crisi. Gli Usa dipendono dalla Cina, per esempio, per l’eparina, un anticoagulante che viene utilizzato, tra le altre cose, per le flebo. Niente eparina, niente trattamenti endovenosi. Ma dagli stabilimenti del Far East viene anche quasi tutta la fornitura mondiale di principi attivi dell’ibuprofene e della ciprofloxacina.

Con esportazioni che superano i 4 miliardi di dollari (quattro volte superiori ai suoi rivali, Stati Uniti e India), il Paese guidato da Xi Jinping detiene una posizione dominante nel mercato mondiale degli antibiotici. In alcuni specifici, come le tetracicline, la sua quota nel commercio mondiale supera abbondantemente il 50 per cento, il che lo rende un fornitore indispensabile per il settore farma europeo.

Il dragone ha una posizione ancora più rilevante nel settore degli amminoacidi: le sue esportazioni rappresentano i tre quarti dell’export mondiale. Un esempio di questa supremazia è la lisina (fondamentale per la crescita muscolare e il sistema immunitario) di cui detiene circa i tre quarti del commercio mondiale. Inoltre, è il primo esportatore mondiale di vitamine, di opoterapici e, soprattutto, di eterosidi, dove controlla l’80 per cento del mercato globale.

È un’avanzata inarrestabile facilitata dalla strategia delle industrie farmaceutiche occidentali che hanno preferito delocalizzare le produzioni dei farmaci meno redditizi in Asia, dove grazie alla manodopera a basso costo si fanno ancora buoni profitti anche dai prodotti non più sotto brevetto. In Europa pesano i costi della ricerca, la burocrazia eccessiva e l’eredità delle politiche di austerità che, a partire dal 2010, hanno indebolito la capacità d’investimento di molti Paesi membri. Di contro, il governo di Pechino ha incentivato gli investimenti creando un ambiente più attrattivo.

Il quadro normativo europeo è complesso e oneroso. Basti pensare a misure come il payback in Italia che ha imposto di restituire alle Regioni parte delle spese farmaceutiche che superano determinati tetti. E poi c’è il tempo medio che intercorre tra l’approvazione di un farmaco e il suo effettivo uso per i pazienti, che nei Paesi membri può arrivare a 578 giorni a causa delle complesse procedure di rimborso e fissazione del prezzo che ogni Stato deve seguire dopo l’autorizzazione dell’Ema (l’Agenzia europea dei medicinali). Tempi nettamente superiori alla Cina come pure agli Usa. Inoltre, l’Europa offre una protezione dei brevetti più breve. La proposta di revisione della legislazione farmaceutica comunitaria, promossa da Bruxelles, prevede una riduzione della protezione dei dati regolatori da otto a sei anni e un sistema di incentivi meno efficace per l’innovazione. «Questo rende l’Europa meno attrattiva per gli investitori», afferma il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani.

In questo contesto come si colloca l’Italia? «L’autonomia strategica della Ue è di circa il 25 per cento del totale dei principi attivi e circa un quarto di questa percentuale è di produzione italiana. Quindi abbiamo una posizione di leadership, ma questa quota di minoranza che deve crescere. E può farlo solo grazie a investimenti e a una strategia che oggi non c’è», continua Cattani che punta il dito contro Ursula von der Leyen, la quale «finora ha seguito la linea della sua prima legislatura, senza alcun cambio di marcia».

Il farmaco made in Italy ha un posizionamento importante: 56 miliardi  di euro di produzione e 54 di export. «Farmaci e vaccini sono al primo posto in Italia per surplus con l’estero, con oltre 21 miliardi di attivo nel 2024», commenta Cattani. «Le nostre  imprese si distinguono anche per l’incremento del valore aggiunto, con un +18 per cento dal 2022 al 2024, ben al di sopra della crescita cumulata del Pil italiano».

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Non tutto è perduto ma servono riforme urgenti. La Cina incalza.



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