Nelle giornate grigie della pandemia di Covid, un esperimento sociale ha cambiato il volto del lavoro in Italia: lo smart working. Da pratica emergenziale, il lavoro da remoto è diventato un tassello stabile della nuova normalità, spesso in forma ibrida. Secondo un recente occasional paper della Banca d’Italia intitolato Work from home, labour market participation and employment, il suo impatto non si limita tuttavia a una semplice questione di organizzazione aziendale e alla sfera del singolo dipendente.
Lo smart working ha infatti avuto un effetto concreto e misurabile sulla partecipazione al mercato del lavoro e sull’occupazione, garantendo stabilità a categorie a rischio spesso interessate da bonus: donne e abitanti del Sud Italia.
Lo smart working incentiva l’occupazione
L’analisi è stata condotta sull’intera popolazione di lavoratori da remoto denunciati all’Inail tra il 2019 e il 2023.
Mostra che a un aumento del telelavoro corrisponde un incremento medio di 0,9 punti percentuali nella partecipazione e di 0,7 punti percentuali nell’occupazione. Numeri che, tradotti, significano più persone disposte a lavorare e più contratti effettivamente attivati.
A trainare il cambiamento non sono i grandi centri urbani del Nord, dove il fenomeno era già diffuso, ma le aree meno dense e più svantaggiate del Sud. Qui lo smart working, pur meno praticato, ha rappresentato la svolta che ha convinto molti a entrare nel mercato del lavoro.
Donne al Sud agevolate dallo smart working
Il vero spartiacque riguarda le donne con un’età compresa tra i 25 e i 49 anni, spesso alle prese con responsabilità di cura dei figli e dei familiari con disabilità. Per loro, lavorare da casa può significare meno vincoli di orario e meno ore di spostamento. È in questa fascia che la crescita della partecipazione risulta più marcata.
Il dato è ancora più evidente laddove i servizi per l’infanzia sono carenti. Al Sud, dove i posti negli asili nido sono più scarsi, il lavoro da remoto diventa un sostituto parziale del welfare mancante, permettendo alle madri di non dover scegliere tra figli e carriera.
La ricerca restituisce quindi un’immagine inedita, dello smart working come strumento di inclusione economica e sociale, capace di ridurre i divari territoriali e di genere, con benefici che si estendono oltre l’emergenza sanitaria.
Il Governo insiste su limiti al telelavoro e bonus
Ed è qui che si apre il paradosso politico. Mentre la Banca d’Italia mostra che il lavoro agile può rafforzare la partecipazione femminile e ridurre i divari territoriali, l’attuale Governo continua a privilegiare strumenti di breve periodo, come bonus e sgravi, anziché trasformare lo smart working in una politica strutturale.
Il bonus Donne 2025, ad esempio, concede ai datori di lavoro privati un esonero contributivo fino a 650 euro al mese per 24 mesi per ogni assunzione stabile di lavoratrici disoccupate. L’incentivo è nazionale, ma diventa più facile da attivare nelle Zes: qui basta una disoccupazione di 6 mesi (contro i 24 richiesti altrove). Misura utile, certo, ma che resta confinata alla logica del sussidio temporaneo, vincolato a determinate condizioni aziendali.
In parallelo, sul fronte normativo lo smart working viene trattato più come un dossier tecnico che come una leva di politica economica. Con la Legge 203/2024, il Collegato lavoro, è stato introdotto l’obbligo di comunicazione telematica al Ministero del Lavoro per ogni accordo agile, con sanzioni per chi non rispetta i termini.
Cambiano anche i requisiti, con la priorità riconosciuta solo a genitori, caregiver e lavoratori fragili. È una scelta che normalizza il lavoro agile, ma lo relega a strumento residuale senza prendere in considerazione la sua natura, finora solo ipotizzata, di motore di inclusione.
Anche nella Pubblica Amministrazione l’impostazione è la stessa: i contratti integrativi reintroducono buoni pasto e fissano regole più rigide, mentre il numero degli smart worker è salito da 500mila nel 2024 a oltre 600mila nel 2025. La domanda cresce, ma la politica resta prudente, puntando sul ben più dispendioso e meno sostenibile viaggio in ufficio.
Il modello bonus è più facile da promuovere
Ma se i dati dimostrano che il lavoro agile produce occupazione inclusiva e riduce divari reali, perché concentrare risorse in bonus temporanei invece di promuovere una riforma sistemica? Perché continuare con incentivi a scadenza invece di puntare su uno strumento che agisce in profondità su genere, territori e natalità?
La risposta sembra stare nella cultura del lavoro italiana e nella facilità di distribuire bonus contrapposta alla difficoltà del dover ripensare il modello produttivo, anche con riforme praticamente a costo zero. Forse lo smart working è più difficile da “vendere” e rivendicare sui titoli dei giornali.
Le criticità dello smart working e la qualità della vita
Vale la pena comunque sottolineare che il lavoro agile non è una panacea per tutti i mali e per le diseguaglianze nel mondo dell’occupazione. Bankitalia stessa sottolinea nell’occasional paper sullo smart working che i benefici si concentrano sono in alcuni settori e sono validi solo per alcune categorie professionali. La pratica rischia di penalizzare ulteriormente chi vive il gap digitale e vive in aree con connessioni lente e servizi inadeguati.
Rimane poi il nodo della qualità del lavoro, con fenomeni di isolamento, difficoltà nel portare avanti attività formative (o dimostrarne l’efficacia), carriere che avanzano più lentamente, strumentazione da acquistare in autonomia e bollette gonfiate dalla permanenza in casa per tutta la giornata.
Senza considerare che proprio le mamme e le caregiver, come abbiamo visto durante i lockdown, rischiano di dover fare più lavori contemporaneamente, stando alla scrivania, occupandosi di figli e parenti e della cura della casa. Con maggiore stress e una qualità della vita ridotta.
Soluzione? Forse basterebbe solo maggiore elasticità per garantire ai lavoratori (e soprattutto alle lavoratrici) di decidere l’organizzazione migliore e più adeguata, in linea con gli obiettivi da raggiungere e i valori aziendali.
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