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Comuni italiani verso l’AI: la sfida delle competenze


Fino a pochi anni fa, “digitale” nella pubblica amministrazione locale significava essenzialmente gestire computer, reti interne e qualche server. In alcuni comuni c’era il tecnico informatico “bravo coi computer” incaricato di far funzionare il sistema: una figura spesso autodidatta, a cui ci si affidava perché pochi altri avevano competenze ICT, perchè era parte dell’ufficio tecnico o perchè era quell* brav* nel risolvere problemi. E l’informatica era un nuovo problema.

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L’evoluzione delle competenze digitali nei Comuni

Oggi, però, il mondo è cambiato. La trasformazione digitale della PA ha accelerato, spinta anche da obblighi normativi stringenti e investimenti nazionali (come il Piano Triennale e il PNRR), introducendo le piattaforme abilitanti – servizi digitali centralizzati come SPID, CIE, pagoPA, l’app IO e la piattaforma di notifiche digitali (SEND) – che tutti i comuni hanno dovuto adottare negli ultimi 5-10 anni.

A ciò si aggiunge la nuova frontiera dell’Intelligenza Artificiale (AI) nella PA, con potenzialità enormi ma anche notevoli complessità tecniche. Il risultato?

Molti comuni si trovano con le stesse persone di qualche anno fa a gestire sfide ben più grandi: in pratica, si sta chiedendo al vecchio responsabile informatico di occuparsi oggi anche di servizi digitali avanzati e progetti di AI. Il che è come chiedere a un medico di base di diventare cardiologo, ortopedico e psicologo allo stesso tempo – un salto impossibile senza formazione specialistica adeguata. Alla peggio allora si gira il problema sul povero RTD, ma il risultato non cambia: si sta chiedendo al medico di base digitale di diventare da solo un intero ospedale digitale.

Dal tecnico di rete alle piattaforme digitali nazionali

Negli ultimi anni la Pubblica Amministrazione italiana ha attraversato una trasformazione profonda sul piano digitale. In particolare i comuni, enti di prossimità per eccellenza, hanno dovuto integrare nei propri sistemi una serie di piattaforme nazionali pensate per standardizzare e migliorare i servizi ai cittadini. Un passaggio cruciale è avvenuto con il Decreto Semplificazioni 2020 (DL 76/2020, convertito in L.120/2020), che ha fissato al 28 febbraio 2021 una serie di scadenze inderogabili: entro quella data tutti gli enti pubblici locali dovevano adottare SPID e CIE come credenziali uniche di accesso per i cittadini, utilizzare esclusivamente il sistema pagoPA per i pagamenti verso la PA e rendere disponibili i propri servizi sull’App IO. In altre parole, dal 1° marzo 2021 i vecchi sistemi locali dovevano essere definitivamente soppiantati: i comuni che non si erano adeguati non avrebbero più potuto riscuotere pagamenti se non tramite pagoPA, né permettere ai cittadini di accedere ai servizi online se non tramite identità digitali.

Questa rivoluzione “abilitante” ha richiesto uno sforzo enorme soprattutto ai comuni medio-piccoli, spesso privi di strutture ICT robuste.

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I dati evidenziano come la stragrande maggioranza dei comuni si sia effettivamente attivata in tal senso: oltre 91% dei comuni ha integrato i propri servizi con SPID/CIE e circa il 79% ha adottato pagoPA per i pagamenti elettronici; significativa (68%) anche l’integrazione dei servizi comunali nell’app IO. Parallelamente, molti comuni hanno iniziato a investire nella formazione del personale su temi come servizi online, gestione dati e sicurezza informatica. Ciò nonostante, permane un forte divario tra enti più avanzati ed enti in ritardo: secondo indagini recenti, solo il 6% dei comuni italiani può dirsi ad alta maturità digitale, mentre oltre la metà si colloca ancora a un livello medio-basso.

Le cause di queste differenze includono spesso budget limitati, carenza di competenze interne e resistenze culturali al cambiamento. In particolare, la carenza di competenze tecniche è emersa presto come uno dei principali ostacoli alla digitalizzazione locale.

L’arrivo dell’intelligenza artificiale e il “gap” di competenze

Ipoteizzando sia superata (non senza fatica) l’era dell’implementazione delle piattaforme abilitanti, oggi all’orizzonte c’è un nuovo cambio di paradigma: l’Intelligenza Artificiale nella PA locale. Si parla di chatbot comunali per informazioni ai cittadini, algoritmi per ottimizzare servizi (dalla gestione dei rifiuti al traffico), sistemi di analisi predittiva per manutenzioni urbane, fino a sperimentazioni di AI generativa per supportare i funzionari nelle attività ripetitive.

Il Governo spinge sull’innovazione (anche attraverso linee guida e sandbox normative), ma sul territorio l’adozione reale dell’AI è ancora lenta e inferiore alle aspettative, nonostante gli enti riconoscano l’alto valore potenziale di queste tecnologie. Più che un problema di fondi dedicati (il PNRR include investimenti anche per progetti innovativi e i residui PNRR possono essere utilizzati per spingere il tema AI), il freno maggiore è la scarsa maturità digitale di base e la carenza di soluzioni AI “pronte” per i piccoli enti.

Implementare l’AI in un comune richiede competenze avanzate in gestione dei dati, conoscenza di algoritmi, capacità di affrontare temi etici e di privacy – tutte capacità che raramente fanno parte del bagaglio di un tradizionale ufficio comunale e forse anche provinciale o regionale.

Il ruolo del Responsabile per la Transizione Digitale (RTD)

È qui che il gap di competenze diventa evidente. La legislazione vigente già prefigurava la necessità di figure con un profilo molto ampio: l’ormai noto Responsabile per la Transizione Digitale (RTD), istituito dal Codice dell’Amministrazione Digitale, deve essere in possesso di “adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali”. In teoria, ogni PA deve averne uno (idealmente un dirigente dedicato); nella pratica, soprattutto nei comuni minori, tale ruolo viene spesso assegnato a funzionari esistenti – in base a una circolare del 2018 può essere nominato RTD un dipendente apicale o con posizione organizzativa, anche se l’ente non ha dirigenti oppure al segretario e in alcuni casi al Sindaco, giusto per non fargli mancare anche questo ruolo

Ci troviamo dunque con personale interno che deve padroneggiare non solo la manutenzione informatica di base, ma anche la gestione strategica di servizi digitali complessi e ora addirittura valutare progetti di intelligenza artificiale. C’è una carenza di competenze digitali tra i dipendenti comunali… coloro che non sono molto digitalizzati fanno fatica a capire cosa sia l’interoperabilità e perché può essere utile”. Se manca comprensione su concetti come interoperabilità (fondamentale per far dialogare basi dati e sistemi), figurarsi sulle potenzialità e i rischi dell’AI!

La carenza di personale e il rischio di disallineamento

A peggiorare il quadro, molti comuni soffrono anche di carenza di personale in generale. Anni di blocco del turnover e pensionamenti (uniti alle dimissioni volontarie di molti dipendenti attratti da stipendi migliori altrove) hanno svuotato gli organici: in tutta Italia, tra il 2017 e il 2023 si sono registrate oltre 95 mila uscite volontarie dal lavoro comunale. Queste defezioni colpiscono spesso i profili più giovani e qualificati, creando un duplice problema: da un lato meno persone a gestire i progetti, dall’altro un aumento dell’età media dei dipendenti rimasti, con possibili maggiori difficoltà nell’aggiornare le competenze digitali.

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Insomma, mentre il Comune digitale corre (reti, piattaforme, cloud, AI), il personale comunale rischia di rimanere indietro. Come affrontare allora questo disallineamento? Di seguito esaminiamo tre possibili soluzioni, ciascuna con i suoi pro e contro, per colmare il gap di competenze digitali nei comuni.

Tre possibili soluzioni per colmare il gap di competenze digitali

Di fronte alla sfida di aggiornare le competenze e le capacità operative dei comuni in ambito digitale e AI, si delineano almeno tre strategie complementari. Nessuna è risolutiva da sola; tutte comportano vantaggi e criticità che vanno ponderati. Vediamole nel dettaglio.

Formazione e aggiornamento del personale interno

Una prima soluzione è investire sulla formazione dei dipendenti comunali attuali, in particolare di quei funzionari che già operano nell’area informatica se presenti. L’idea è colmare il gap tramite corsi di formazione mirati, certificazioni digitali e affiancamento on-the-job, affinando sia le competenze tecniche (es. gestione dati, cybersecurity, basi di AI) sia le competenze trasversali (project management, innovazione). Iniziative come il programma nazionale “Syllabus Competenze digitali PA” o le “Academy” promosse da ANCI e Team Digitale vanno in questa direzione.

  • Vantaggi: valorizza e motiva il personale esistente (evitando di disperdere l’esperienza pregressa); può creare una cultura digitale diffusa all’interno dell’ente; costi relativamente contenuti rispetto a nuove assunzioni (alcuni corsi sono finanziati centralmente, es. tramite PNRR). Inoltre garantisce continuità: i dipendenti già conoscono le procedure e le esigenze locali, quindi applicano meglio le nuove competenze nel contesto specifico del Comune.
  • Svantaggi: tempi medio-lunghi prima di vedere risultati (il personale deve studiare e fare pratica, e nel frattempo i progetti digitali incombono); rischio di sovraccarico di lavoro se la formazione avviene in aggiunta alle mansioni quotidiane. Non tutti i dipendenti potrebbero avere attitudine o volontà di riconversione verso competenze digitali avanzate, specialmente nelle fasce più anziane. Inoltre, formare molto un dipendente aumenta la sua appetibilità sul mercato: senza adeguati incentivi, c’è il rischio che dopo aver acquisito nuove skill, cerchi impiego altrove (dato anche il gap retributivo PA-privato già citato). infine, si potrebbe avere formazione ma non personale da formare visto che i comuni si stanno svuotando.

Assunzione di nuove figure specializzate

Un secondo approccio è inserire nuove risorse nell’organico comunale: giovani laureati o esperti esterni con competenze specifiche in informatica, data science, gestione di progetti digitali. Ad esempio, prevedere in pianta organica un data analyst o uno specialista ICT dedicato, oppure assumere figure di esperti di transizione digitale che affianchino il personale interno. Diverse normative recenti hanno semplificato le assunzioni mirate per la gestione dei progetti PNRR, proprio per colmare carenze di personale tecnico. Con il PNRr si è tentato con risultati alterni questo approccio, mediante gli esperti del PNRR o il Transformation Office del Dipartimento per la Trasformazione Digitale.

  • Vantaggi: apporta competenze fresche e specialistiche immediatamente utilizzabili – professionisti aggiornati sulle ultime tecnologie, capaci di impostare da zero un progetto di AI o di cloud computing. Può alleviare il carico sui funzionari “tuttofare”, assegnando a ciascuno compiti più mirati. Inoltre, la presenza di giovani digital native può accelerare anche il cambiamento culturale in ufficio, portando nuove idee e approcci. In prospettiva, creare team interni di innovazione rende il comune più autonomo nelle evoluzioni future.
  • Svantaggi: costi elevati e limiti normativi: assumere personale stabile nella PA richiede concorsi e budget, spesso scarsi nei piccoli comuni. Le figure più qualificate sul digitale tendono inoltre a preferire il settore privato o le big corp pubbliche (con stipendi più alti), dunque attrarre un bravo data scientist in un Comune di piccole dimensioni è difficile. Anche trovando le risorse, c’è il rischio di turnover: se l’ambiente lavorativo o la retribuzione non soddisfa, il nuovo assunto potrebbe usare il Comune come trampolino per poi passare altrove. Infine, l’inserimento di esterni va gestito evitando attriti con il personale in essere: servono piani di onboarding e sensibilizzazione per integrare i nuovi arrivati nel contesto pubblico. Infine, spesso ci sono esperti della materia ma con scarze competenze di PA e quindi servono anni per formare le persone sul dominio specifico e sull’ambiente della PA e può essere un trauma per chi arriva dal privato.

Collaborazione esterna e uffici digitali condivisi

La terza via punta sulla cooperazione e sul fare rete. Qui rientrano varie soluzioni: dall’outsourcing di alcuni servizi digitali (es. utilizzare società in-house o partner tecnologici per gestire infrastrutture, cybersecurity, sviluppo di software) alla creazione di uffici associati tra più comuni.

Un esempio è l’idea dell’RTD sovracomunale o di un Ufficio per la Transizione Digitale condiviso: invece di ogni piccolo comune con un proprio responsabile isolato, più enti si consorziano e nominano un unico RTD che coordina la trasformazione digitale per tutti, supportato magari da un team tecnico centralizzato a livello territoriale (ad es. unioni di comuni, province o comunità montane). Questa possibilità è esplicitamente contemplata dal CAD, che all’art. 17 comma 1-septies consente l’esercizio associato delle funzioni di RTD.

  • Vantaggi: economie di scala – mettere in comune risorse permette a enti piccoli di avere accesso a competenze che da soli non potrebbero permettersi. Un ufficio digitale territoriale può assumere uno specialista AI o un esperto cybersecurity il cui costo è ripartito tra molti comuni. Si favorisce anche la circolazione di buone pratiche: il comune capofila più avanzato aiuta gli altri a recuperare terreno, condividendo soluzioni già sviluppate. L’outsourcing mirato a soggetti qualificati assicura qualità e rapidità (es: aderire a una piattaforma cloud nazionale anziché costruire data center interni migliora sicurezza e continuità). In generale, la collaborazione con partner esterni o centrali (come Dipartimento per la Trasformazione Digitale, software house, università per progetti sperimentali) riduce il rischio di isolamento tecnologico dei piccoli enti.
  • Svantaggi: coordinamento complesso – gestire progetti in forma associata richiede accordi chiari, governance condivisa e può incontrare ostacoli burocratici (convenzioni, ripartizione costi, ecc.). Ogni comune ha le sue specificità e priorità politiche: trovare una linea comune non è sempre facile, col rischio che i più piccoli vengano marginalizzati nelle decisioni. Affidarsi troppo a soggetti esterni, poi, può risultare in dipendenza: se il partner privato cambia strategia o pratica costi maggiori, il Comune si trova vincolato senza aver sviluppato competenze in casa. Inoltre va assicurato che l’outsourcing non violi norme su privacy e controllo dei dati pubblici. Infine, sul piano politico-amministrativo, non tutti gli amministratori locali vedono di buon occhio la gestione associata (si teme di “perdere il controllo” sul proprio territorio): serve lungimiranza e fiducia reciproca tra enti per far funzionare questa soluzione.

Verso una strategia integrata e sostenibile

La sfida di portare i comuni italiani nell’era dei servizi digitali evoluti e dell’intelligenza artificiale richiede azioni multilivello. Dai ragionamenti sopra appare chiaro che nessuna soluzione unica risolve il problema: probabilmente è necessario un mix intelligente di formazione, nuove assunzioni mirate e cooperazione intercomunale. In effetti, molte di queste strade possono e devono integrarsi.

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Ad esempio, i comuni potrebbero consorziarsi per assumere insieme esperti digitali che facciano anche da formatori interni (unendo soluzione 2 e 3). Oppure, formare il personale interno è fondamentale, ma andrebbe accompagnato da un ricambio generazionale dove possibile, sfruttando al contempo il supporto di partner esterni per i progetti più avanzati.

Dal punto di vista normativo, sarebbe utile prevedere incentivi e semplificazioni sia per la formazione continua (ad esempio riconoscendo professionalmente le competenze digitali acquisite dai dipendenti pubblici), sia per le assunzioni di profili ICT nei piccoli enti (ad esempio creando profili professionali ad hoc nel contratto degli enti locali, con retribuzioni adeguate al mercato). Il dibattito su questi temi è aperto. Del resto, le stesse linee strategiche nazionali (si veda il Piano Triennale ICT 2024-26) insistono sul rafforzamento delle competenze e sulla rete degli RTD come leve imprescindibili.

In conclusione, i comuni si trovano in una fase cruciale: il mondo digitale corre e non aspetta – nuovi obblighi e regolamenti proliferano: NIS2, GDPR, AI ACT – e le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica sono immense per migliorare i servizi ai cittadini. Ma serve personale preparato per coglierle. Affrontare il tema delle competenze non è più rimandabile: investire sulle persone, organizzarsi in modo nuovo e aprirsi alla collaborazione saranno le chiavi per evitare che i “quattro gatti” dell’ufficio informatico (o non informatico) comunale soccombano sotto il peso di una trasformazione troppo grande.

Soprattutto ora che il lavoro di queste figure si sta trasformando da operatori sul campo a orchestratori di soluzioni tecnologiche e organizzative.

Il rischio, altrimenti, è che le migliori piattaforme e tecnologie rimangano sotto-utilizzate, o che solo i grandi centri urbani riescano a beneficiarne, ampliando il divario digitale territoriale. Al contrario, con le giuste politiche e scelte strategiche, anche il più piccolo comune può cavalcare l’onda AI-digitale in modo sostenibile.

in altre parole, si sta chiedendo a un medico di base digitale a cui 10 anni fa si è chiesto di gestire l’informatica in toto, di diventare un intero ospedale, da solo, ora che c’è anche il reparto digitalizzazione e il reparto AI. Siamo sicuri che vorremmo essere operati al cuore digitale del nostro ente da un medico digitale di base?

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