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Draghi a Rimini “L’illusione europea è finita, ora serve una strategia tecnologica comune”


Il 2025 passerà alla storia come l’anno in cui è definitivamente “evaporata l’illusione” che la dimensione economica dell’Unione possa tradursi automaticamente in potere geopolitico. A dirlo è l’ex presidente della Commissione e autore del recente Rapporto sulla Competitività dell’Unione, Mario Draghi. Dal palco del Meeting di Rimini, l’ex Presidente del Consiglio ha di fatto certificato la fine di un’epoca: quella in cui si è potuto credere che la dimensione economica, forte di 450 milioni di consumatori, fosse di per sé sufficiente a garantirle un peso geopolitico.

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“Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata”, ha esordito Draghi, descrivendo un continente costretto a subire i dazi del suo principale alleato, spinto ad aumentare le spese militari secondo priorità altrui e marginalizzato nei principali tavoli negoziali, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ma quello di Draghi non è solo un requiem in memoria di ciò che non è stato. L’ex presidente della Commissione ha infatti posto fortemente l’accento sul futuro: l’Europa, secondo l’ex numero uno della BCE, deve abbandonare il ruolo di “spettatore” per diventare “attore protagonista” in un mondo dove controllo tecnologico e sovranità politica sono ormai inscindibili.

Il mondo è cambiato e l’Europa deve adeguarsi

Al centro dell’analisi di Draghi c’è una constatazione: che il mondo basato sulla fede nel libero scambio e sul rispetto delle regole multilaterali, l’ordine neoliberale in cui l’Europa ha prosperato nella seconda metà del Novecento, non esiste più. Al suo posto è subentrata una realtà dominata da politiche industriali aggressive, dall’uso della forza economica come strumento di pressione e da uno Stato che oggi impiega tutti i suoi strumenti per proteggere gli interessi nazionali. Superpotenze come Stati Uniti e Cina non esitano a impiegare ogni leva a loro disposizione, dalla sicurezza agli approvvigionamenti.

L’Europa è preparata a operare in queste condizioni? Secondo Draghi la risposta è no. L’architettura istituzionale dell’UE, pensata per regolare e arbitrare, si rivela inadeguata a proteggere i valori fondanti dell’Unione nel nuovo disordine globale. È questa, secondo Draghi, la radice dello scetticismo crescente dei cittadini, che non mettono in discussione quei valori, ma la capacità concreta dell’Unione di farsene garante. Per questo, l’organizzazione politica del continente deve trovare un nuovo consenso per riformarsi. Tornare a sovranità nazionali isolate aumenterebbe solo la vulnerabilità, ma insistere con i modelli del passato sarebbe altrettanto inefficace.

La dipendenza tecnologica come vincolo alla sovranità

È a questo punto che l’analisi di Draghi entra nel vivo, indicando le due direzioni strategiche su cui l’Europa deve agire per invertire la rotta: completare il mercato interno e scalare sulle tecnologie critiche.

Sul primo fronte Draghi ricorda che nonostante il Mercato Unico esista da ormai quarant’anni, ancora oggi persistono ostacoli significativi agli scambi interni. Il Fondo Monetario Internazionale – sottolinea Draghi – calcola che riducendo le barriere interne europee ai livelli prevalenti negli Stati Uniti, la produttività del lavoro nell’Unione potrebbe essere del 7% più alta dopo sette anni. Un dato impressionante se confrontato con la crescita totale della produttività degli ultimi sette anni, appena il 2%.

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Il costo di questa frammentazione diventa evidente nel settore della difesa, dove l’Europa pianifica 2 trilioni di euro di spese aggiuntive tra oggi e il 2031. Invece le attuali barriere interne, che equivalgono a una tariffa del 64% sui macchinari e del 95% sui metalli, rallentano le gare d’appalto, aumentano i costi e favoriscono gli acquisti da fornitori extra-europei.

Ma se su questa dimensione, quella del mercato unico, permangono importanti barriere da superare, è sulla seconda che si gioca la partita decisiva per il futuro. La sovranità politica dell’Europa, la sua capacità di agire come “attore protagonista”, dipende ormai in modo inscindibile dalla sua forza tecnologica e industriale.

La vera partita per il futuro, ha spiegato l’ex premier, si gioca sulla sovranità tecnologica. “Nessun Paese che voglia prosperità e sovranità può permettersi di essere escluso dalle tecnologie critiche”, ha detto Draghi. La dipendenza dall’estero sulle tecnologie strategiche è oggi un vincolo politico che altre potenze possono sfruttare per ottenere concessioni, come sta già accadendo: Stati Uniti e Cina usano il loro controllo su risorse e tecnologie come un’arma, rendendo “ogni dipendenza eccessiva incompatibile con la sovranità sul nostro futuro”.

Attenzione però – sottolinea Draghi – a pensare che si possa risolvere la questione facendo appello all’indipendenza nazionale: nessun paese europeo, neanche il più grande, possiede da solo le risorse per competere. La scala degli investimenti richiesti rende vano qualsiasi sforzo isolato. È qui che il progetto europeo è chiamato a un salto di qualità, passando da una logica di semplice coordinamento a una di vera integrazione delle politiche industriali e di ricerca.

Bene le imprese, male il settore pubblico

In questa necessaria trasformazione Draghi rileva un significativo scollamento. Gran parte dello sforzo di adattamento, infatti, è finora venuto dal settore privato. Le imprese europee, ha sottolineato l’ex premier, stanno mostrando solidità e “stanno adottando tecnologie digitali di ultima generazione, inclusa l’intelligenza artificiale, a ritmo paragonabile a quello degli Stati Uniti”. Il vero freno, secondo l’analisi, risiede altrove.

Ciò che è rimasto indietro – dice Draghi – è il settore pubblico, “dove sono più necessari i cambiamenti decisivi”. È ai governi, infatti, che spetta il compito di creare le condizioni per il salto di qualità: definire le priorità di politica industriale, rimuovere le barriere che ancora frammentano il mercato, accordarsi su come finanziare i giganteschi investimenti futuri e disegnare una politica commerciale adatta al nuovo scenario globale. Un’agenda impegnativa che non può più essere rimandata.

I semiconduttori come cartina di tornasole dell’inadeguatezza europea

Simbolo massimo di questa debolezza strategica è l’esempio di quanto avvenuto nel settore dei Semiconduttori. Mentre negli Stati Uniti si concentrano investimenti colossali in pochi, giganteschi impianti, con progetti fino a 65 miliardi di dollari, in Europa prevale una logica frammentata: la spesa, veicolata dagli aiuti di Stato nazionali, si disperde in tanti progetti troppo piccoli e spesso non coordinati che rispondono a priorità divergenti.

Draghi ha ricordato quanto rilevato dalla Corte dei Conti Europea: con questo approccio le probabilità che l’Unione raggiunga l’obiettivo del 20% del mercato globale di chip entro il 2030 sono minime.

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E il caso dei semiconduttori è solo un esempio, per quanto molto importante, di un problema più vasto: senza una strategia e, soprattutto, senza finanziamenti comuni, l’Europa rischia di perdere le partite tecnologiche decisive.

Superare la frammentazione: debito “buono” e investimenti comuni

La diagnosi di Draghi, insomma, è chiara: l’Europa è malata. Ma qual è la terapia? Per raggiungere gli obiettivi di sovranità tecnologica, l’Unione deve muoversi verso “nuove forme di integrazione”, creando meccanismi che operino al di sopra della dimensione nazionale e trovando accordi su grandi progetti di interesse comune (il riferimento è agli IPCEI, Important Projects of Common European Interest). La condizione essenziale, in ogni caso, è che si tratti di iniziative finanziate e coordinate per garantire la scala necessaria.

Per finanziare questi sforzi, Draghi ha riattualizzato la sua celebre distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”. Il secondo, ha ricordato, è quello che finanzia il consumo corrente, lasciando il peso alle generazioni future senza generare crescita. Il debito buono, al contrario, serve a finanziare investimenti strategici che aumentano la produttività e generano la crescita che servirà a ripagarlo. Qui, però, Draghi ha aggiunto un elemento cruciale: oggi, per settori come la difesa o le tecnologie dirompenti, la scala degli investimenti è tale che il debito buono a livello nazionale non è più sufficiente. “Soltanto forme di debito comune possono sostenere progetti europei di grande ampiezza”, ha concluso. L’appello finale è ai governi, affinché trasformino l’unità d’azione mostrata nelle emergenze in una capacità di agire in tempi ordinari, prima che sia troppo tardi.



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