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Europa svenduta: come l’accordo con gli USA ridisegna il futuro economico europeo (Lee Morgan)


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La firma dell’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti, avvenuta nel resort scozzese di Turnberry il 28 luglio 2025, segna una delle svolte più radicali e controverse della storia economica continentale. I media europei per un mese hanno tentato di fare credere ai cittadini che si trattasse di proposte che la Commissione Europea avrebbe esaminato. Al contrario Ursula von der Leyen a Turnberry ha firmato un accordo che di fatto rappresenta una capitolazione dell’Europa agli Stati Uniti.

Ora i media europei non possono più nascondere quella firma quindi tentano di presentare l’accordo come “un’intesa per commercio equo e reciproco”. Nei fatti è una imposizione unilaterale americana di una serie di vincoli e impegni che ridisegnano la struttura, la sovranità e la competitività industriale europea, rafforzando in modo determinante la dipendenza da Washington. In parole povere il Make America Great Again sarà pagato dall’Europa che, inevitabilmente sprofonderà a livello economico.

Il negoziato fra Bruxelles e Washington era iniziato sotto il segno delle minacce di una guerra commerciale aperta, con la possibilità di tariffe punitive del 50% sulle esportazioni UE. L’intesa raggiunta prevede invece l’applicazione di una tariffa unica del 15% su quasi tutte le merci europee esportate negli USA, compresi settori strategici come auto, prodotti farmaceutici, semiconduttori e legname.

In cambio, la UE ottiene l’esenzione dai dazi su alcune categorie merceologiche (componenti aeronautici, farmaci generici), ma, soprattutto, accetta una serie di contropartite che minano profondamente il suo equilibrio economico.

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L’aspetto più rilevante e meno dibattuto dell’accordo è l’impegno UE ad acquistare energia statunitense per un valore di 750 miliardi di dollari entro il 2028. Energia che per la maggioranza viene acquistata dalla Russia. Ciò significa rifornirsi principalmente di gas naturale liquefatto, petrolio e prodotti nucleari russi rivenduti dagli americani
in sostituzione degli acquisti energetici diretti con la Russia.

A guadagnarci sono la Russia che continuerà a vendere energia all’Europa per interposta persona e gli Stati Uniti che applicano un prezzo tre volte superiore ai prodotti energetici russi destinati alla UE. Questo significa costi energetici elevati che si riverseranno negativamente e immediatamente sulle bollette di cittadini e imprese europee, come evidenziato da analisti e associazioni di consumatori. Il rischio, già tangibile, è quello di una pressione inflazionistica di carattere strutturale sul comparto energetico europeo.

Il nuovo ciclo di investimenti, 600 miliardi di dollari in armi USA entro il 2028, più i 100 miliardi destinati all’Ucraina come garanzia post conflitto a Pace raggiunta, rappresenta un ulteriore rafforzamento della dipendenza europea dall’industria bellica americana. Il programma ReArm Europe, che doveva rilanciare la produzione militare continentale, si trova così subordinato alle forniture statunitensi: invece di costruire un’autonomia strategica, la UE sacrifica risorse e competenze in favore della filiera americana.

Non solo, il patto industriale prevede la “massima interoperabilità NATO” e l’accelerazione dell’acquisto di tecnologie di difesa USA, blindando di fatto il ruolo subordinato dell’Europa nella filiera atlantica, anche nel delicato scenario ucraino.

Il lato meno visibile ma fondamentale dell’intesa riguarda l’impegno delle aziende europee a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi tre anni, in settori che vanno dall’alta tecnologia all’automotive. Si tratta di una fuga di capitali, competenze e innovazione, che mina la capacità competitiva e l’autonomia industriale europea.

A livello macroeconomico, questa dinamica rischia di accelerare la deindustrializzazione del continente, privando le economie europee dei frutti dell’innovazione e rafforzando lo squilibrio produttivo a vantaggio degli USA.

Con il nuovo regime tariffario, la maggior parte delle esportazioni UE verso gli USA viene colpita da un dazio del 15%. Il beneficio degli esoneri riguarda pochi prodotti strategici, mentre auto, farmaci, semiconduttori e legname (settori chiave per l’export europeo) subiscono un colpo durissimo.

La conseguenza è duplice: da un lato, le imprese europee perdono competitività nei mercati statunitensi; dall’altro, l’azzeramento dei dazi UE sui prodotti industriali e agricoli americani comporta una vera invasione del mercato continentale da parte delle merci statunitensi, con possibile crisi degli operatori locali.

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L’accordo impone a Bruxelles l’acquisto di chip USA per almeno 40 miliardi di dollari, ponendo un blocco allo sviluppo di una filiera digitale e tecnologica autonoma. Le imprese europee si trovano costrette a ricorrere all’hardware americano in settori chiave come l’intelligenza artificiale, la cyber security e l’automazione industriale.

Sul fronte dei prezzi, il predominio americano sulla fornitura energetica e tecnologica comporta una crescita dei costi per l’industria continentale e per il consumatore europeo: l’Europa pagherà di più, senza aver negoziato tariffe di favore o compensazioni adeguate.

L’accordo rappresenta, di fatto, una cessione di sovranità: la UE accetta di vincolare i propri approvvigionamenti energetici, militari e tecnologici agli USA, limitando enormemente le possibilità di diversificazione e di sviluppo strategico autonomo rispetto agli interessi di Washington.

La posizione negoziale europea esce indebolita: le concessioni sono numerose, i benefici modesti. L’enfasi sulla “cooperazione” maschera, in realtà, una subordinazione economica e politica difficilmente reversibile nel breve termine, in un quadro internazionale in cui la competizione globale con Cina, Russia e altri attori richiederebbe ben altra libertà d’azione.

L’accordo USA-UE inaugura una nuova fase nei rapporti transatlantici ma pone la UE in una posizione di crescente dipendenza da Washington, con conseguenze profonde per la sua industria, autonomia strategica e prospettive di sviluppo.

A guadagnarci sono le imprese e lo Stato americano, che vedono aumentare entrate fiscali, esportazioni e controllo sui settori chiave europei. L’Europa, invece, rischia di pagare il prezzo di una subordinazione strutturale che peserà per anni sulla sua competitività, sulla libertà di scelta e sul benessere dei suoi cittadini.

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