Dopo l’accordo politico raggiunto a fine luglio tra Donald Trump e Ursula von der Leyen sui dazi commerciali e gli impegni d’investimento – entrambi a solo vantaggio statunitense –, oggi la Casa Bianca e la Commissione europea hanno pubblicato una dichiarazione congiunta che suggella l’intesa.
«Permettetemi di entrare nei dettagli – argomenta la presidente dalla Commissione Ue – Ci siamo stabilizzati su un’unica aliquota tariffaria del 15% per la stragrande maggioranza delle esportazioni dell’Ue. Questa aliquota si applica alla maggior parte dei settori, tra cui automobili, semiconduttori e prodotti farmaceutici. Questo 15% rappresenta un tetto massimo chiaro. Nessun cumulo. Tutto compreso. Quindi, fornisce la necessaria chiarezza ai nostri cittadini e alle nostre imprese. Questo è assolutamente cruciale».
Vale la pena ricordare che i dazi in vigore per l’export statunitense in Ue sono in media dello 0,9%, mentre le merci che viaggeranno dall’Europa all’altra parte dell’Atlantico dovranno scontare un dazio del 15%. C’è da sottolineare che, a pagarli, saranno per circa il 90% gli statunitensi stessi: «I dazi doganali sono pagati dall’azienda che importa i beni importati. Pertanto, per i dazi imposti dagli Stati Uniti, è l’importatore americano a pagare – spiegano fonti Ue – Alla fine, sono solitamente i consumatori (in questo caso, i consumatori statunitensi) a pagare indirettamente i dazi». Per ingrassare il bilancio dell’Amministrazione Trump, a sua volta impegnata a far fronte a un debito pubblico in forte crescita a causa della legge di Bilancio con tagli fiscali per i ricchi sponsor di The Donald, si deprimono dunque consumi e crescita Usa. Al contempo, l’impatto sull’economia europea è stimato come moderato: per l’Italia, ad esempio, si prevede un taglio del Pil dello 0,2% (e 23 miliardi di euro di minori esportazioni).
Il problema, dunque, è soprattutto d’indirizzo politico. Anziché rispondere all’atteggiamento da bullo del presidente Usa sfoggiando un’occasione di leadership per una maggiore autonomia strategica del Vecchio continente, l’Ue patisce una débâcle ancora una volta figlia delle divisioni politiche interne agli Stati membri (col primo ministro francese Bayrou a parlare apertamente di sottomissione, mentre Meloni e Merz vedono in positivo “l’intesa” atlantica).
Una piaggeria che risulta ancora più evidente analizzando il contorno dell’accordo sui dazi, ovvero gli impegni d’investimento a favore degli Usa. Gli Stati Uniti vanno disimpegnandosi dalla difesa militare del Vecchio continente, offrendo all’Europa l’occasione per coordinare le spese e migliorare le proprie industrie della difesa? Il nuovo accordo risponde con l’impegno ad «aumentare sostanzialmente l’approvvigionamento di equipaggiamenti militari e di difesa dagli Stati Uniti». Lo stesso vale per il fronte dell’intelligenza artificiale, dove si approfondisce la dipendenza dagli Usa garantendo una fornitura costante di chip «per i centri di calcolo europei, per un valore di almeno 40 miliardi di dollari».
Al contempo le aziende dell’Ue «hanno espresso interesse a investire almeno 600 miliardi di dollari (circa 550 miliardi di euro) in vari settori negli Stati Uniti entro il 2029», incrementando ulteriormente i già significativi 2.400 miliardi di euro di investimenti esistenti e rafforzando la loro posizione di primo investitore negli Stati Uniti. Non c’è però alcun vincolo che possa garantire tale flusso d’investimenti: «L’obiettivo di investimento annunciato si basa interamente sulle intenzioni di investimento private delle aziende dell’Ue», dunque in via del tutto teorica.
«Gli Stati membri sono stati debitamente coinvolti durante l’intero processo e ne approvano l’esito», ma come evidenziano da Bruxelles «la dichiarazione congiunta è un testo politico e non giuridicamente vincolante». L’apice della farsa si raggiunge sulla parte dell’accordo che riguarda l’energia, in cui «l’Ue rafforzerà inoltre la propria sicurezza energetica acquistando Gnl (gas naturale liquefatto, ndr), petrolio e prodotti energetici nucleari dagli Stati Uniti per un valore di 750 miliardi di dollari entro il 2028», per dirla con le parole del commissario al Commercio Šefčovič.
Si tratta di un impegno estremamente improbabile da rispettare, perché nell’intero 2024 l’Ue ha importato complessivamente (da tutto il mondo) 375,9 mld di euro in combustibili fossili, e già oggi gli Usa sono la prima fonte di import per il Gnl in Ue (50,7%), con circa 70 mld di euro di combustibili energetici acquistati l’anno scorso dagli Usa. Come osserva Clyde Russell, editorialista della Reuters specializzato in materie prime ed energia, nel 2024 tutto l’export globale degli Usa di Gnl, petrolio greggio e carbone per usi metallurgici è valso 165,8 mld di dollari: in altre parole, non ci sarebbero abbastanza beni energetici da acquistare per soddisfare i termini dell’accordo, anche se l’Ue comprasse l’intero export energetico Usa.
Perché dunque siglare un accordo che non è possibile rispettare, blandendo l’ego ipertrofico di Trump? «Di fronte a una situazione difficile – si giustifica von der Leyen – abbiamo portato risultati concreti ai nostri Stati membri e all’industria, ripristinando chiarezza e coerenza nel commercio transatlantico. Questo non è il traguardo finale: continuiamo a collaborare con gli Stati Uniti per concordare ulteriori riduzioni tariffarie, individuare ulteriori aree di cooperazione e creare un maggiore potenziale di crescita economica».
L’Europa avrebbe però potuto agire diversamente. Come suggerito da economisti di primo piano come Olivier Blanchard, avrebbe potuto pensare a «ritorsioni intelligenti», con dazi mirati, mettendo anche in campo contromisure mirate contro l’oligarchia che sostiene il presidente Usa, come argomentato dagli economisti Gabriel Zucman e Andrea Roventini o il giurista Alberto Alemanno; avrebbe allearsi col Sud globale per promuovere un diverso modello di sviluppo e una linea anti-Trump, come proposto dall’economista Thomas Piketty; incrementare la competitività interna investendo in R&S e maggiori – non minori – politiche ambientali, come evidenziato dall’economista Massimiliano Mazzanti; aumentare la domanda interna con salari più elevati per i consumatori Ue e più investimenti, come sostenuto dall’economista Mauro Grassi. Ma l’Europa divisa non ha fatto niente di tutto questo. Poteva scegliere tra il disonore e la guerra commerciale, parafrasando Churchill: ha scelto il disonore e ha perso la guerra commerciale, senza nemmeno provare a combatterla.
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