Secondo l’Istat l’economia italiana soffre di un problema: la bassa produttività. È un problema che viene da lontano, determinato anche da un sistema economico rappresentato per quasi il 99% dalla presenza di Mpmi (micro, piccole e medie imprese). L’indice di produttività di un Paese è determinato dal rapporto tra la quantità di prodotti e servizi che si producono e la quantità di risorse utilizzate per produrla. È un indicatore di efficienza del sistema produttivo di un Paese. Più l’indicatore è alto, più siamo in grado di generare fatturato, aumento del Pil e quindi di ottimizzare anche il delicato rapporto tra costo del lavoro e fatturato. Infatti per aumentare la produttività non è necessario diminuire il costo del lavoro. Se guardiamo ai nostri vicini Francia e Germania, negli ultimi venti anni hanno registrato performance legate alla produttività molto migliori rispetto alle nostre, con un costo del lavoro ben superiore: nel primo trimestre del 2025 l’indicatore del costo del lavoro in Germania era pari a 120,69 punti contro i 110,00 dell’Italia. Secondo l’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) condotta dall’Ocse tra il 2022 ed il 2023, la soluzione non è lavorare di più. In Germania, ad esempio, nel 2021 si lavoravano in media circa 1.349 ore l’anno contro le 1.669 ore dell’Italia. Ma la produttività della Germania era più alta di circa il 22%.
Perché l’Italia ha un basso livello di produttività? Innanzitutto c’è un problema legato all’innovazione. Le nostre imprese innovano, soprattutto su tecnologie e su nuovi prodotti, ma non incide a livello di sistema Paese. È un’innovazione che rimane confinata all’ambito imprenditoriale, su performance che riguardano soprattutto imprese di piccole dimensioni. Ed è spesso un’innovazione non formalizzata. A livello ufficiale, dati del 2022, l’Italia ha investito l’1,33% del Pil in ricerca & sviluppo, contro la media UE del 2,3% (Germania 3,13%). Il problema maggiore riguarda l’innovazione sul modello imprenditoriale, che tocca ovviamente anche il modello organizzativo adottato dalle nostre imprese. In realtà molte sono le imprese che cercano di adottare modelli organizzativi maggiormente adeguati ai cambiamenti che stanno interessando l’intero sistema economico. Modelli innovativi che spesso però non vengono adeguatamente recepiti dal personale dipendente, soprattutto dai responsabili di funzione. È un problema culturale e di competenze.
Alfabetismo funzionale – L’indagine Piaac dell’Ocse ha puntato il dito proprio sulle competenze dei collaboratori aziendali, definendo un indicatore di valutazione del contributo che ogni persona può dare all’azienda, in termini di generazione di valore per la sua organizzazione. L’indicatore non prende solo in considerazione il livello scolastico, ma indaga sulle competenze e sulle abilità necessarie ad affrontare tempi di grandi cambiamenti: dall’evoluzione digitale e tecnologica, alla globalizzazione ed alle problematiche geo-politiche con le relative ricadute in termini economici. È ciò che in gergo viene definito “alfabetismo funzionale”: una serie di competenze e capacità che vanno dalla comprensione di testi scritti, all’utilizzo di informazioni matematiche e numeriche, nonché capacità di problem solving. Nel secondo ciclo dell’indagine dell’Ocse, denominato “Do Adults Have the Skills They Need to Thrive in a Changing World?” – “gli adulti hanno le competenze di cui necessitano per prosperare in un mondo che cambia?”), i risultati dell’Italia sono assai deludenti rispetto agli altri Paesi partecipanti: in tutti e tre i domini ci classifichiamo nelle ultime quattro posizioni.
Più o meno il 70% degli adulti italiani non ha le competenze minime per comprendere, valutare e usare efficacemente le informazioni per contribuire alla creazione di valore dei nostri prodotti e servizi. Il rapporto cita testualmente: “nonostante gli sforzi significativi da parte dei governi e delle parti sociali per rafforzare i sistemi di istruzione e formazione degli adulti nell’ultimo decennio, l’indagine rivela un panorama delle competenze nettamente irregolare, con un numero crescente di persone malpreparate per il futuro”. Nel nostro Paese, anche le competenze digitali scarseggiano. Secondo il rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile pubblicato nel 2023, la percentuale di persone tra i sedici e i settantaquattro anni in Italia con almeno competenze digitali di base è del 45,7%. Questo significa che più della metà non le possiede. Senza contare le risultanze di uno Studio denominato “European Workforce Study 2025” pubblicato da “Great Place to Work”, secondo le quali manager ed imprenditori italiani non valorizzano in modo adeguato competenze e sensibilità intergenerazionali, nonché la potenziale contaminazione di differenti ambiti di competenze. In generale, molti lavoratori non si sentono valorizzati e lamentano mancanza di riconoscimenti da parte dei manager aziendali, contribuendo pertanto alla diffusione di un senso di insoddisfazione.
Analizzare e comprendere appieno il nostro sistema economico è complicato. A difesa delle capacità delle nostre piccole e medie imprese, va ricordato che l’Italia fa parte del “Gruppo dei 7” (abbreviato in G7), il forum intergovernativo delle sette principali potenze politiche, economiche, industriali e militari del pianeta, che rappresentano oltre il 62% della ricchezza netta mondiale detenuta secondo il Credit Suisse Global Wealth Report Databook. Quanto sopra descritto ritengo debba essere una sorta di invito a forze politiche, associazioni di categoria, scuole ed università, a rivedere le priorità in termini di competenze manageriali per cominciare a ragionare su come e non su quanto lavoriamo. Occorre una nuova cultura del lavoro, per generare nuovi valori e benessere per tutti.
Andrea Lodi
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