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Stefano Zamagni: «Il tetto al 5 per mille? Errore etico, politico ed economico»


La decisione — a suo tempo presa — di fissare un tetto alla raccolta fondi del 5 per mille nella misura di 525 milioni di euro è un provvedimento errato sotto tre distinti profili. Il primo è quello etico. Come dovrebbe sapersi, l’innovazione fiscale di cui si parla è un esempio concreto di applicazione del principio di sussidiarietà, per troppo tempo avversato nel nostro Paese per ragioni unicamente ideologiche. Ora, quello di sussidiarietà è un principio di natura morale che si può volere oppure respingere, ma se lo si accoglie non può andare soggetto a limitazioni di ordine quantitativo. Ricordiamo sempre che il bene va fatto bene, perché il bene fatto male si trasforma in qualcosa di perverso. La mira della sussidiarietà è quella di articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato e Comunità. È questo il cuore del modello tripolare di ordine sociale che accanto al pubblico e al privato pone con pari dignità il civile. Si veda la sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale che introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, la co-programmazione e la co-progettazione come pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). 

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La seconda ragione di erroneità concerne la sfera politica. Da qualche tempo a questa parte, il nostro Paese — e non solo — sta muovendo passi decisi verso l’accoglimento del modello tripolare di ordine sociale in sostituzione dell’obsoleto (e inaccettabile) modello bipolare — Stato e Mercato. Non siamo ancora arrivati alla meta e la ragione principale è che Stato e Mercato hanno difficoltà culturali — non certo pratiche — ad abbracciare l’idea di cedere quote di potere alla Comunità, cioè ai Corpi intermedi della società (art. 2 della Carta Costituzionale). Ebbene, se lo Stato impone tetti come quello di cui parliamo è come se si rimangiasse la promessa fatta di rinunciare al regime concessorio, cioè di tenere sotto tutela la società civile (18 milioni sono i contribuenti italiani che hanno indicato un destinatario). Come ci si può poi sorprendere se i cittadini non nutrono fiducia nelle Istituzioni? Si osservi che la recente linea di azione che l’Unione europea ha fatto propria si muove nella direzione di cui sopra. Ne è prova il lancio dell’Action Plan for Social Economy,  del novembre 2022, la cui cifra è di assegnare al Terzo settore compiti non solamente di welfare e redistributivi, ma pure di sviluppo economico. Tanto che la Proximity and Social Economy è stata inserita tra i 14 cluster industriali sui quali poggia la recovery strategy europea. Quella della social and impact economy è un’idea recente in Europa e se ad essa si è giunti è anche merito del grande lavoro svolto dal nostro Terzo settore negli ultimi decenni. Degna di nota speciale è l’approvazione, il 18 aprile 2023, da parte dell’assemblea generale delle Nazioni Unite della risoluzione, prima del genere per tale istituzione, sull’economia sociale e solidale. Risoluzione che riconosce esplicitamente la rilevanza del Terzo settore, come agente fondamentale per la ricostruzione dei legami comunitari, cioè del capitale sociale. Non meno importante è stata la risoluzione, approvata nel 2022, dall’Ilo (International Labour Organization) e dall’Oecd(Organisation for Economic Cooperation and Development) avente per oggetto il “Decent work and the social and solidarity economy” e la “Recommendation of the Council on the social and solidarity economy and social innovation”. Come si fa a non riconoscere l’incongruenza tra tali tendenze e la decisione di tarpare le ali ai destinatari del 5 per mille?

Infine, il terzo grosso errore è di natura propriamente economica. Le preferenze dei contribuenti hanno dato vita ad un controvalore di 604 milioni di euro, mentre il tetto fissato è di 525 milioni. La differenza tra le due cifre è di 79 milioni. C’è qualcuno che possa ragionevolmente sostenere che 79 milioni lasciati allo Stato e sottratti a quel mondo vitale che è il Terzo settore contribuiscano ad accrescere il bene comune della Civitas? Ma perché non si vuole mai prendere in considerazione la categoria del rent-seeking, che è una delle nostre più pesanti palle al piede? Ovviamente, conosciamo le ragioni di ciò ed è per questo che occorre battersi affinché quel tetto venga rimosso. 

La sfida da raccogliere, oggi, è quella di battersi per restituire il principio del dono alla sfera pubblica. Senza pratiche estese di dono si potrà anche costruire un Mercato efficiente e uno Stato autorevole (e giusto), ma non si riuscirà a risolvere quel “disagio di civiltà”, di cui parla Freud. Due infatti sono le categorie di beni di cui tutti avvertono la necessità: i beni di giustizia e quelli di gratuità. I primi — si pensi ai beni erogati dal welfare state — fissano un preciso dovere in capo ad un soggetto, tipicamente l’ente pubblico, affinché i diritti dei cittadini su quei beni vengano soddisfatti. I beni di gratuità, invece, quali ad esempio i beni relazionali, fissano un’obbligazione che discende dal legame che ci unisce l’un l’altro. Infatti, è il riconoscimento della mutua ligatio tra persone a fondare l’ob-ligatio. E dunque, mentre per difendere un diritto si può, e si deve, ricorrere alla legge, si adempie ad un’obbligazione per via di reciprocità. Mai nessuna legge potrà imporre la reciprocità e mai nessun incentivo potrà favorire la gratuità. Eppure non v’è chi non veda quanto i beni di gratuità siano importanti per il bisogno di felicità che ciascuno di noi si porta dentro.  Ecco perché nutro fiducia che si realizzi il mutamento, dato che “Mens agitat molem” (“La mente muove la materia”, Tacito).   

Questo contenuto è tratto dal numero di VITA magazine “5 per mille, ma per davvero” è stato eccezionalmente reso disponibile a tutti e tutte, se apprezzate il nostro impegno, se volete supportarci e sostenere la campagna, abbonatevi a VITA.

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