In un contesto economico sempre più complesso, il Legislatore ha nel corso degli anni rivisto, innovato ed incrementato la disciplina di istituti che permettono alle imprese in crisi di rimanere sul mercato, evitandone la decozione, attraverso una controllata decurtazione dei debiti, così da salvaguardare, allo stesso tempo, sia il tessuto produttivo sia i creditori, che possono avere la certezza di recuperare almeno una parte di quanto di loro spettanza.
Stiamo parlando degli istituti del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione, della composizione negoziata della crisi, la cui disciplina, prima inserita all’interno della Legge fallimentare (R.D. n. 267/1942), è oggi raccolta nel D.L.vo n. 14/2019, meglio noto come Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza o CCII.
È di immediata comprensione come una delle principali voci di debito per le imprese in crisi sia rappresentata dai tributi, siano essi erariali ovvero locali. Per tale ragione, la sorte dei crediti tributari all’interno degli istituti per la risoluzione della crisi di impresa è sempre stata oggetto di particolare attenzione.
La delibera della Corte dei conti – Sez. regionale Lombardia n. 256/2024
Da ultimo la questione è stata affrontata dalla Corte dei Conti – sez. regionale di controllo per la Lombardia che, con delibera n. 256/2024 ha fornito un preziosissimo contributo per orientarsi nel quadro normativo nazionale, non scevro da criticità e contraddizioni.
La fattispecie concreta al vaglio del collegio
Nello specifico, la Corte è intervenuta dietro richiesta di parere motivato da parte del Comune di Castellucchio, il quale andava creditore a titolo di IMU, rispettivamente, per € 162.888,00 ed € 2.601,00 nei confronti dui due imprese che avevano proposto un accordo di composizione negoziata della crisi.
In entrambi i casi, le imprese, che peraltro erano già interessate da una procedura esecutiva immobiliare avviata da altri creditori, avevano proposto un accordo compositivo che prevedeva il pagamento dei tributi locali in misura pari almeno al 30%.
Il Comune, che riteneva la soddisfazione del 30% del credito più favorevole rispetto alla aspettativa di riscossione in ipotesi di liquidazione giudiziale, chiedeva alla Corte dei Conti se fosse conforme alla normativa vigente la sottoscrizione di un accordo transattivo per i propri tributi, considerato che questi venivano riscossi direttamente, in via ordinaria, e tramite agenzia di riscossone iscritta in apposito albo, in via coattiva.
I principi di carattere generale enunciati in delibera
La Corte dei Conti per pervenire alla soluzione del caso di specie enuncia principi di carattere generale che meritano un’attenta lettura.
L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e la transazione fiscale quale sua eccezione
La soluzione della questione non può prescindere dal principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, inteso “quale corollario del principio di legalità, in connessione quindi alla natura vincolata dell’azione amministrativa in materia tributaria. Tale assunto si fonda sull’articolo 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. […] La necessaria previsione dell’obbligazione tributaria in disposizioni imperative di legge, vincolanti sia per i soggetti passivi del tributo che per l’ente impositore, comporta l’obbligo, da parte di quest’ultimo, di esercitare i poteri conferitigli senza alcun potere discrezionale. Pertanto, lo Stato e gli altri enti pubblici che operano quali enti impositori non hanno facoltà di rinunciare a tributi o di accordare ai singoli esenzioni o agevolazioni non previste dalla legge”.
Il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria può essere quindi derogato solo in virtù di una norma di carattere eccezionale, soggetta ad interpretazione restrittiva, e che deve trovare giustificazione nel bilanciamento tra interessi contrastanti ma di pari rilevanza.
In questo senso, la previsione normativa della transazione fiscale è, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225/2014, “disciplina eccezionale rispetto al principio dell’indisponibilità della pretesa erariale”.
Il Collegio ci tiene preliminarmente a ricordare come la transazione fiscale, a dispetto del nome, sia un istituto a sé stante e che non può essere ricondotto alla fattispecie contrattuale della transazione civilistica disciplinata dall’art. 1965 c.c.. Rispetto a quest’ultima fattispecie negoziale, manca totalmente la reciprocità tra quantum dàtum e aliquid retèntum – poiché è la sola parte pubblica a rinunciare a qualcosa, ovvero alla soddisfazione del proprio credito tempestivamente ovvero in misura totale – oltre che lo scopo tipico di porre fine o evitare una lite.
La definizione di “transazione fiscale” è pertanto quella di “un negozio solutorio che ha per effetto la riduzione o dilazione del debito tributario, in ragione della opportunità di deflazionare il contenzioso in materia oppure di un interesse – come la continuità aziendale, nel caso sottostante al quesito in discussione – riconosciuto dall’ordinamento come preminente, ma anche della reale aspettativa di incameramento da parte dell’ente impositore”.
La disciplina della transazione fiscale nel nostro ordinamento
Il nostro ordinamento ha conosciuto la transazione fiscale nella forma embrionale della transazione dei ruoli, disciplinata nel d.l. n. 138/2002, che attribuiva l’iniziativa alla transazione alla sola Agenzia delle Entrate e per i soli tributi iscritti a ruolo.
Successivamente, l’art. 146 del D.L.vo n. 5/2006 ha introdotto all’interno della Legge fallimentare l’art. 182 ter che, per quanto di interesse in questa sede, così recita: “Con il piano di cui all’articolo 160 il debitore, esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo, può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione […]. Se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le attuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie; il debitore può effettuare la proposta di cui al comma 1 anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipulazione dell’accordo di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis. In tali casi l’attestazione del professionista, relativamente ai crediti tributari o contributivi, e relativi accessori, ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale”.
In virtù di tale norma, il debitore può, nell’ambito del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione, proporre la riduzione o la dilazione dei tributi “amministrati dalle agenzie fiscali” e dei “contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”.
La lettera della legge ha da subito posto dei problemi applicativi che sono stati prontamente risolti dalla giurisprudenza che ha fornito un orientamento interpretativo pressochè univoco.
Non è mai stato messo in discussione che il criterio di perimetrazione del campo applicativo dell’istituto concernesse non la natura del tributo, erariale o locale, quanto piuttosto l’aspetto gestionale-amministrativo del tributo stesso. Per cui oggetto di transazione fiscale possono essere anche i tributi locali purchè amministrati dalle agenzie fiscali, in forza di apposite convenzioni stipulate ai sensi dell’art. 57 D.L.vo. n. 300/1999.
Non vi è stata invece uniformità interpretativa circa la sorte dei crediti tributari locali auto-amministrati.
Per un orientamento più restrittivo, questi ultimi non potevano essere sussunti sotto la normativa di cui all’art. 182 ter Legge fallimentare ma potevano beneficiare della generale falcidia prevista dall’art. 182 bis Legge fallimentare, sempre nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione e del concordato preventivo.
Tale apertura veniva giustificata con il favor da riconoscersi all’impresa in crisi, la salvaguardia della cui attività commerciale rappresenta il fine principale del sistema normativo in questione; evidentemente, riconoscere ai tributi locali una forza tale da richiederne sempre l’integrale soddisfacimento frustrerebbe tale finalità, in quanto, con ogni probabilità, l’impresa in crisi non sarebbe in grado di soddisfare integralmente i crediti dell’ente locale e ciò comporterebbe conseguenze estremamente negative sia per l’imprenditore, che fallirebbe, sia per il comune, che finirebbe per non introitare alcuna somma.
A sostegno di tale interpretazione vi è poi un ragionamento di tipo logico-argomentativo, perché se l’ordinamento consente la falcidia transattiva dei tributi erariali, a fortiori dovrebbe consentire quella dei tributi locali, che, ai sensi dell’art. 2752 c.c., sono trascurati nel privilegio rispetto ai primi.
In aggiunta, tale tesi interpretativa porta l’attenzione sulla circostanza che l’art. 182 ter, comma 1, Legge fallimentare, prevede che, in sede di transazione fiscale, “se il credito è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie (offerte dal debitore) non possono essere inferiori a quelle offerte (dal debitore) ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore”. Pertanto, se i tributi locali – non ammessi alla transazione fiscale – dovessero sempre essere pagati per intero, si finirebbe per escludere la possibilità di pagamento in percentuale dei tributi erariali, essendo questi crediti garantiti da un grado di privilegio superiore rispetto a quello riconosciuto ai tributi locali. Atteso che nella generalità dei casi, la morosità riguarda tanto i tributi erariali quanto i tributi locali, la fattispecie di cui all’art. 182 ter Legge fallimentare avrebbe un’applicazione davvero limitata.
Le modifiche al CCII in attuazione della cd. Delega fiscale
Recentemente la normativa della transazione fiscale è stata interessata da importanti novità.
Il D.L.vo n. 136/2014, cd. “Decreto Correttivo ter del Codice della crisi” con l’art. 5, comma 9, lett. b), n. 3 ha introdotto il comma 2 bis dell’art. 23 CCII che estende la transazione fiscale alla fase stragiudiziale della composizione negoziata della crisi.
Il provvedimento da ultimo citato rappresenta l’attuazione dell’art. 9 della L. n. 111/2023, c.d. Delega fiscale, ma trattasi di un’attuazione solo parziale.
Tra i principi e criteri direttivi dell’art. 9, comma 1, lett. a), n. 5), della legge delega vi sarebbe stato infatti quello di “prevedere la possibilità di raggiungere un accordo sul pagamento parziale o dilazionato dei tributi, anche locali, nell’ambito della composizione negoziata, prevedendo l’intervento del tribunale, e introdurre analoga disciplina per l’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”.
Tuttavia anche il comma 2 bis dell’art. 23 CCII, come il previgente art. 182 bis della Legge fallimentare e gli artt. 63 e 88 dello stesso CCII, continua a riferirsi soltanto ai “tributi amministrati dalle agenzie fiscali” e alle interlocuzioni negoziali con i loro dirigenti, senza menzionare i tributi locali.
Come ragionevolmente rilevato dal Collegio, la mancata menzione dei tributi locali auto-amministrati “allo stato attuale, deve intendersi come voluta, ovvero equivalente ad una vera e propria preclusione tacita (ancorché, auspicabilmente, temporanea), anche perché il legislatore ben avrebbe potuto, nel ridisciplinare la materia, in sede di codificazione e dei successivi interventi correttivi, optare per un chiarimento che dottrina e giurisprudenza avevano ripetutamente sollecitato rispetto alla transigibilità fiscale anche dei tributi locali”.
Per quanto la scelta del Legislatore sia discutibile, la giurisprudenza non può porvi rimedio perché la disciplina della transazione fiscale ha carattere eccezionale e non è suscettibile di interpretazione analogica.
Valutazioni conclusive
Una possibile motivazione del diverso trattamento tra tributi locali auto- ed etero-amministrati risiede forse nella valutazione di maggiore affidabilità e performatività della gestione del tributo da parte delle agenzie fiscali. Questo sembrerebbe emergere dalle norme che richiedono cautele procedurali particolari, come nel caso dell’assoggettamento dell’accordo transattivo ai pareri obbligatori e vincolanti delle Direzioni regionali e centrali delle agenzie fiscali, che i tributi comunali auto-amministrati non sono in grado di offrire – quanto meno negli stessi termini.
Ciò che è certo è che la scelta del Legislatore non si traduce in un trattamento di maggior favore del tributo locale auto-amministrato, tutt’altro. Come condivisibilmente rilevato dal Collegio, “Nell’ottica di una tutela effettiva del credito tributario, ovvero attenta anche ai profili della sua aspettativa di incasso, è possibile affermare che sia il credito erariale ad essere maggiormente tutelato, in quanto transigibile, ove esista un rischio di integrale insolvenza dovuta alla crisi del debitore”.
Quanto all’argomento sopra richiamato sugli effetti del divieto, ex art. 182 ter, comma 1, II periodo, della Legge fallimentare, di trattamento in pejus dei crediti erariali rispetto a quelli comunali, va evidenziato che né il comma 2 bis dell’art. 23, per la composizione negoziata della crisi, né l’art. 63, per gli accordi di ristrutturazione, del CCII ripropongono lo stesso divieto. Il problema, quindi, persiste rispetto alla transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo, ex art. 88 CCII, che continua a prevedere il divieto di trattamento in pejus (rispetto a crediti anche tributari di grado di privilegio inferiore, come quelli locali), sia sotto il profilo delle eventuali garanzie, che della percentuale e dei tempi di pagamento. Un tanto evidenzia il grave difetto di coordinamento tra le norme e la confusione applicativa che ne può derivare.
Sembra quindi inevitabile concludere, così condividendo le argomentazioni dei Giudici, sottolineando l’urgenza di un intervento del Legislatore che, oltre a sanare i difetti di coordinamento tra le norme, “superi anche le oggettive contraddizioni intrinseche di un sistema che continua ad escludere i tributi locali dal perimetro della transazione fiscale, a dispetto delle istanze legislative del c.d. federalismo fiscale, della moltiplicazione dei moduli dispositivi della pretesa erariale, degli strumenti deflattivi del contenzioso, dell’esigenza di salvaguardia della continuità aziendale e degli stessi equilibri di bilancio degli enti pubblici creditori”.
La decisione del caso di specie
Tant’è che l’applicazione dei suindicati principi normativi al caso di specie all’esame del Collegio, fa sì che, allo stato, il Comune di Castellucchio non possa accedere alla transazione fiscale e si veda “costretto a rinunciare all’incameramento certo di almeno il 30 per cento del credito tributario (pari a circa 55 mila euro) e ad accettare il rischio concreto di impoverimento del tessuto economico comunale per effetto della probabile cessazione di due attività imprenditoriali del territorio”.
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